Le incertezze del Pci, l’intransigenza della Dc, la sfida dell’Azione Cattolica, la risposta dei radicali. Lo storico segretario del partito rievoca il tempo in cui lo scioglimento del matrimonio diventò legge

Che Italia era, quella senza divorzio? «Un Paese in cui non ci si poteva sposare per una seconda volta. Discriminando le nuove coppie che si formavano, le donne e i loro figli». Gianfranco Spadaccia, segretario Radicale fra gli anni Sessanta e Settanta, poi attivista al fianco di Marco Pannella e nel 2019 presidente di Più Europa, si trovava in prima linea quando lo scioglimento del vincolo matrimoniale venne introdotto nel nostro ordinamento, con la legge Fortuna-Baslini (dal nome dei primi due firmatari in sede parlamentare: un socialista e un liberale). Era il primo dicembre 1970. Cinquant’anni dopo dice all’Espresso: «Da lì è cominciata una rivoluzione durata almeno un decennio, con riforme di stampo libertario come quella sull’aborto o sull’obiezione di coscienza».

Il contesto: l’Italia del boom economico e dei mutamenti del tessuto sociale; con un milione, circa, di “coppie infelici”. Loris Fortuna, un deputato socialista, nel 1965 presenta in Parlamento la proposta di una norma che le tuteli, rendendo scindibile il vincolo matrimoniale. I Radicali lo sostengono, con una campagna di sensibilizzazione che, per la prima volta, arriva nelle piazze. Grazie anche alla Lega per l’istituzione del divorzio di Pannella, un organo apartitico che organizza dibattiti pubblici, comizi, manifestazioni. Trasformando il divorzio in un tema popolare prima, e in una legge nel 1970, dopo il movimento studentesco del ‘68 e l’autunno caldo dell’anno seguente. Contraria solo la Dc, forte di una Chiesa intransigente per cui il vincolo nuziale è indissolubile. Non basterà. Per iniziativa popolare nel 1974 si andrà, sì, al referendum abrogativo. Ma i divorzisti trionferanno con il 59,26 per cento. «Una parte del Paese era ancora profondamente religiosa. Ma sentimenti di stampo laico avevano ormai preso piede».

Com’era l’Italia di allora?
«Eravamo un laboratorio di trasformazione: sociale, politica, culturale, antropologica, persino urbanistica. Alle migrazioni verso l’estero si sommano quelle interne e, nel giro di una generazione, succede quello che, per esempio in Inghilterra, era avvenuto in due secoli. La popolazione rurale italiana della campagna sta abbandonando i campi per le periferie delle città. E si può solo immaginare come il suo pensiero – immobile e cristallizzato per secoli – possa mutare rapidamente. Ma anche i borghesi non sono immuni ai cambiamenti: l’America esporta minigonne, capelloni, diffonde valori individualisti e libertari, che si traducono in una maggiore libertà sessuale. I capelloni nei primi anni Sessanta iniziano a frequentare la nostra sede. Prima c’erano dei dirigenti anziani, intransigenti, anticlericali; adesso, arrivano i giovani. Che, con le loro battaglie libertarie, partono proprio dal divorzio».

Perché?
«Era il grande problema irrisolto della rivoluzione liberale italiana. Prima, durante e dopo il Fascismo non era mai stato preso in considerazione, per via delle posizioni conservatrici di Chiesa, re e borghesia. A noi giovani radicali, che avevamo deciso di concentrarci sul riconoscimento dei diritti civili, sembrava invece il tema da cui partire. L’Unione donne italiane ci criticò, sostenendo che fosse prioritaria una riforma organica del diritto di famiglia. Da un intervento solo sul divorzio, sostenevano, sarebbero uscite come il “sesso debole”. Ed eravamo d’accordo. Ma la riforma di cui parlavano era ferma da anni a causa delle pressione della Dc, mentre una legge sul divorzio avrebbe fatto breccia nel muro».

Quindi le donne erano svantaggiate dalle leggi allora in vigore?
«Sì, ma in generale tutti i separati vivevano una situazione al limite della legalità. Li chiamavamo i “fuorilegge del matrimonio”: le norme stabilivano la separazione e la ripartizione degli alimenti per i senza reddito (quasi sempre donne), ma mancava la possibilità di risposarsi. E c’erano problemi anche per le famiglie che si venivano a formare, in cui i bambini che nascevano non potevano prendere il cognome del padre. La Dc, intanto, aveva addirittura cercato di trasformare l’indissolubilità del matrimonio in una norma costituzionale. Non ci riuscì perché persino Togliatti si rese conto che sarebbe stato eccessivo».

La posizione del Pci sul divorzio era cauta, in effetti.
«Timida e insicura. E pensare che era un partito di separati, ma i suoi esponenti erano conservatori in merito. Alessandro Natta (segretario del Pci dal 1984 al 1988, ndr) anni dopo mi spiegò come ciò probabilmente dipendesse dalle diramazioni del partito, più sviluppate nei paesi che nelle grandi città dove l’opinione stava cambiando. E poi, disse, era anche prudenza: lo stesso Togliatti nascose a lungo la sua unione con Nilde Iotti».

Poi, nel 1965, il deputato socialista Fortuna presenta una proposta di legge che per la prima volta estende la possibilità di divorzio a tutti i casi di matrimonio, sia civili sia religiosi.
«Era una proposta eversiva per gran parte dell’Italia di allora. Ma un altro pezzo del Paese iniziava a sentire sempre più vicini i valori laici, compresi molti cattolici. Intanto, la Lega per l’istituzione del divorzio di Pannella, pur vicina ai Radicali, raccoglieva esponenti di ogni partito. I democristiani provarono a giocare la carta dell’incostituzionalità della proposta, perché avrebbe sciolto i matrimoni stabiliti dal Concordato, e quindi dall’Articolo 7 della Costituzione. Ma i comunisti, costretti a scegliere dove schierarsi, alla fine passarono dai divorzisti. E fu un ulteriore passo avanti».

Intanto, i radicali avevano iniziato una campagna di sensibilizzazione. Si può dire che abbiano reso il divorzio “popolare”?
«Senz’altro: abbiamo portato valori liberali, prima propri delle élite, in strada. Ma il merito va anche ad Abc, un giornale semi-pornografico che ci sostenne. Nel giro di pochi giorni raccolsero 50mila lettere dei “fuorilegge”. Eravamo libertari e anticlericali, ma non anti-religiosi: criticavamo la Dc proprio perché ferma sulle proprie posizioni, mentre il Concilio Vaticano Secondo aveva disegnando un Chiesa lontana dal potere temporale. Stava cambiando anche la religione».

Eppure la richiesta di referendum arriverà da Gabrio Lombardi, presidente dell’Azione cattolica, che raccolse le firme necessarie tramite il Comitato per il referendum sul divorzio.
«Già, ma il 12 e il 13 maggio fu comunque un trionfo del No all’abrogazione, e questo anche grazie ai cattolici che si ribellarono alla Dc e a certi ambienti».

Qual è l’eredità della Fortuna-Baslini?
«Fece cadere la diga che bloccava le riforme, dando inizio a una rivoluzione fondata sui diritti civili. Nel 1972 fu introdotta l’obiezione di coscienza al servizio militare: eravamo gli unici fra i grandi Paesi europei a non ammetterla ancora. Nel 1975, invece, avvenne la riforma del diritto di famiglia, riconoscendo di fatto della parità fra uomo e donna. Quindi: l’aborto, la Basaglia, il voto ai diciottenni. Battaglie che hanno raccolto un grande consenso popolare, perché rispondevano a esigenze urgenti e percepite in maniera trasversale. Pensiamo all’aborto: ogni anno l’Oms stimava 700mila interventi clandestini in Italia».

Oggi quali sono le battaglie più urgenti?
«Antiproibizionismo, eutanasia. Soprattutto, lotta alla tossicodipendenza. Ma le battaglie per i diritti civili sono tutte importanti: cambiano la vita delle persone e la funzione dello Stato. Però, se non includono una visione complessiva della politica, alla fine ne guadagna solo il populismo».

Com’è cambiato, cinquant’anni dopo, il matrimonio?
«Non rappresenta più una gabbia, per nessuno dei coniugi. Anzi: è rimesso completamente nella loro mani».

È vero che le prime coppie che divorziarono furono stigmatizzate dall’opinione pubblica?
«Furono colpevolizzate dalla Chiesa. Ma da gran parte del Paese, invece, erano viste con tenerezza: gente che divorziava perché l’amore reciproco era sparito. Lo ripeto: l’Italia era pronta. Ma noi non avevamo dubbi: intervenire a livello legislativo significava rispondere a un profondo mutamento culturale e sociale già in atto. Ogni epoca ha i suoi costumi. Negli anni Cinquanta faceva scandalo il matrimonio in rito civile; nei Settanta, era ampiamente ammesso».

Qual è il ruolo di una legge?
«Non può determinare i cambiamenti sociali: avvengono da sé, non sta a lei deciderli. Semmai, deve essere in grado di governarli nella maniera meno traumatica possibile. E, certe volte, persino di anticiparli».