Con i quesiti su eutanasia e cannabis una parte della società civile può riprendere voce dopo due anni di dibattito politico sospeso. Ma su giustizia e legge elettorale i partiti appaiono tentati dalle controriforme

Il 15 febbraio la Corte costituzionale si riunirà per pronunciarsi sulla ammissibilità di otto quesiti referendari: giustizia, eutanasia, cannabis. Le materie su cui, in caso di sentenza positiva, gli italiani saranno chiamati a esprimersi nella prossima primavera. Dopo un anno di governo di unità nazionale, dopo quelle Olimpiadi di Palazzo che sono le votazioni per scegliere il presidente della Repubblica, saranno le prime consultazioni generali che anticipano le elezioni politiche del 2023. Sui due quesiti che investono i diritti civili, l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale sull’«l’omicidio del consenziente» che aprirebbe la strada all’eutanasia, e la depenalizzazione della coltivazione della cannabis e la cancellazione delle pene detentive legate alla sostanza, promossi dall’associazione Luca Coscioni, di cui segretaria è Filomena Gallo e tesoriere Marco Cappato, sono state raccolte rispettivamente un milione 200mila e 630mila firme. Lo strumento della firma digitale ha permesso di conquistare un consenso massiccio tra giovani e giovanissimi: 92mila donne e 61mila uomini tra i 21 e i 30 anni sull’eutanasia, 185mila uomini e 112mila donne nella stessa fascia di età sulla cannabis.

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Sono i fratelli e le sorelle maggiori degli studenti che protestano in piazza sfidando le cariche della polizia. I referendum nella storia d’Italia segnano i cambiamenti di fase. Quelli della primavera 2022 sui diritti civili possono significare il disgelo. Un pezzo di società che riprende voce dopo due anni di congelamento del dibattito politico e sociale provocato dalla pandemia e dopo mesi di proteste dell’evanescente movimento no vax che si è intestato il dissenso in modo arbitrario. Coccolato da un pugno di politici, amplificato per via mediatica e spesso tollerato nelle manifestazioni non autorizzate da questure e prefetture, senza che dal Viminale della ministra Luciana Lamorgese sia arrivata una indicazione di maggiore fermezza. I drappelli no vax che per tutto l’autunno e l’inverno hanno spezzato in molte piazze di Italia i fine settimana di famiglie e commercianti sono stati lasciati liberi di agire per imperscrutabili motivi di ordine pubblico, a differenza dei movimenti degli studenti che protestano sulla alternanza scuola-lavoro e per il loro futuro.

La partita politica più calda si gioca sui sei quesiti sulla giustizia: separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, valutazione dei magistrati, responsabilità diretta delle toghe, abolizione della legge Severino sulla corruzione che impone la sospensione automatica di sindaci e amministratori condannati, eliminazione della custodia cautelare per il rischio di reiterare il reato, riforma del Csm. Su quest’ultimo punto il governo Draghi, con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, è chiamato alla prima prova di tenuta della maggioranza dopo la battaglia per il Quirinale. Nel suo discorso di re-insediamento Sergio Mattarella ha dedicato alla riforma della giustizia le parole politicamente più dense: superare «logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario», «corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini». La fotografia di un potere dello Stato entrato in crisi. Com’era la politica nel 1992.

La Corte costituzionale si riunisce per decidere sui referendum che coinvolgono la magistratura esattamente trent’anni dopo l’inizio delle inchieste di Mani Pulite. Mario Chiesa, il tangentaro beccato con le mani nelle banconote dai carabinieri coordinati dall’allora sconosciuto pubblico ministero Antonio Di Pietro, fu arrestato il 17 febbraio 1992. Il 15 febbraio 2022, per una coincidenza della storia, a presiedere la Consulta sarà Giuliano Amato, che nella primavera del 1992 fu spedito da Bettino Craxi a commissariare il Psi milanese travolto dallo scandalo e che poche settimane dopo divenne presidente del Consiglio dell’ultimo governo della Prima Repubblica. Nel 1992-93 degli arresti, dei suicidi eccellenti, delle stragi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e di Firenze e Milano, dei misteri, dei vecchi partiti che crollavano e dei nuovi che sembravano nascere dal nulla e invece avevano alle spalle solide consorterie a sostenerne l’ascesa. Il 6 marzo 1993 il governo Amato approvò il decreto del ministro Giovanni Conso che eliminava il reato di violazione del finanziamento pubblico dei partiti, ma la procura di Milano insorse per il colpo di spugna e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di firmarlo. La Lega, in quei giorni, chiedeva la pena di morte per i corrotti. «Un paese in cui vige una vera civiltà del diritto deve ammettere la possibilità di togliere la vita a chi commette reati particolarmente gravi», teorizzò il professor Gianfranco Miglio, senatore della Lega, dopo il suicidio in carcere del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. «È meglio che un innocente sia punito ingiustamente piuttosto che un colpevole la faccia franca». Il deputato Luca Leoni Orsenigo sventolò un cappio nell’aula di Montecitorio. Il neo-garantista di oggi Matteo Salvini muoveva i primi passi in politica, aveva venti anni e fu eletto consigliere comunale a Milano, nel partito della Forca.

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Trenta anni sono un tempo lungo nella storia repubblicana.  E poi c’è un tempo più breve, l’ultimo decennio. Dieci anni fa, nel 2012, i partiti eredi della Prima Repubblica collassarono sotto il peso di altre inchieste che riguardavano il finanziamento della politica. I partiti avevano rubato a se stessi: il tesoriere della Margherita Luigi Lusi aveva trafugato milioni di euro dalle casse del suo partito. E cominciarono a brillare le 5 Stelle di Beppe Grillo. Nel 2012 il Movimento battezzato tre anni prima dal comico e da Gian Roberto Casaleggio conquistò Parma, il primo comune capoluogo, con il sindaco Federico Pizzarotti (poi espulso: infatti è un bravissimo amministratore, è stato l’unico rieletto dai suoi concittadini tra quelli prodotti dalla galassia post-grillina). Nelle elezioni del 2013 M5S guidato da Grillo raccolse il 25 per cento e otto milioni di voti. Cinque anni dopo, il primato elettorale con il 32 per cento e l’arrivo al governo, la conquista del potere. Oggi Grillo torna a comandare il Movimento. In seguito alla sentenza del tribunale di Napoli è già decaduta la leadership di Giuseppe Conte: per via giudiziaria. Nello stesso momento, la procura di Firenze chiede il rinvio a giudizio per Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e i vertici della fondazione Open. L’ex premier ha reagito provando a ribaltare il ruolo degli accusati sui magistrati che lo indagano. 

La verità che ci consegna la parabola di chi sventolava il vaffa contro il sistema e dell’ex rottamatore è la grande occasione perduta di un’intera generazione, quella che va da Renzi e Di Maio. La rivoluzione giudiziaria nel 1992-93 e la rivoluzione dei 5 Stelle e delle Leopolde negli ultimi dieci anni sono state rivoluzioni senza politica. Dalle inchieste di Mani Pulite non è nata una nuova politica: semmai una politica debole, ricattabile, una democrazia senza partiti, sostituiti da non-partiti, partitoidi, simulacri, scatole vuote, con identità e valori e alleanze interscambiabili. Al punto che oggi l’ex berlusconiano Giovanni Toti può ipotizzare un nuovo partito di centro con Renzi e  Di Maio insieme senza che a nessuno scappi da ridere. Mentre l’adattabile Conte, già punto di riferimento dei progressisti dopo esserlo stato dei sovranisti, dovrà inventarsi una soluzione personale per scampare alla dissoluzione dei 5 Stelle.

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Una rivoluzione politica avrebbe richiesto una nuova classe dirigente e nuovi metodi di selezione, una risposta alla domanda di rappresentanza dei cittadini. Qualcosa che riguarda le regole (le istituzioni, la legge elettorale), la persone, un sistema di pensiero, un’organizzazione sociale. E la capacità di confrontarsi con i temi globali: le disuguaglianze, i cambiamenti climatici, le migrazioni. Invece è accaduto quanto denunciato dal presidente Mattarella nel suo discorso in Parlamento: «Senza partiti coinvolgenti, così come senza corpi sociali intermedi, il cittadino si scopre solo e più indifeso». Anche la carica di firme giovanili per i referendum sui diritti civili parlano di una voglia di partecipazione, di una generazione che si mobilita per singole battaglie ma che non riesce a trovare un percorso comune in cui identificarsi. Al posto delle rivoluzioni mancate degli anni scorsi si preparano, nella primavera 2022, le contro-rivoluzioni. La vendetta sui magistrati dei politici che non vogliono una giustizia più efficiente e credibile, ma più controllabile e più prona. E una legge elettorale che non restituisce ai cittadini il potere di scelta dei loro rappresentanti, ma ha il compito di fotografare le quote di spartizione di sotto-governo nei futuri ministeri che non potranno che essere di unità nazionale, di maggioranze disomogenee e a guida tecnica: for ever Draghi. In linea, quindi, con quanto fatto negli ultimi anni: il Parlamento tagliato, il finanziamento pubblico dei partiti abolito senza contropartite, le autonomie territoriali insieme esaltate e poi umiliate e oggi il Pnrr senza dibattito politico e culturale, senza una visione riformista che lo sostenga nella società. Riforme per indebolire, per rendere ancora più fragili le strutture su cui si regge il Paese, non riforme per rafforzare il Parlamento, il governo, la magistratura, i partiti, il rapporto tra le istituzioni e la società. Quello che invece serve, quello che sarebbe la vera rivoluzione.