Lungo la strada BR-163 si muovono i fazendeiros che danno la caccia agli indigeni e stanno distruggendo la foresta, vicina al punto di non ritorno. Con la complicità di Bolsonaro

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Paulo Paulino Guajajara è stato ucciso a colpi di fucile il giorno di Ognissanti del 2019. “Lobo mau” (“lupo cattivo”), così lo chiamavano i suoi compagni, aveva ventisei anni, un figlio piccolo e una causa che aveva deciso di mettere davanti a ogni cosa: la difesa del proprio territorio. Paulo era il leader dei “guardiani della foresta”, un gruppo di indigeni guajajara auto-organizzati contro i taglialegna illegali che invadono e distruggono le loro terre. Attivi nel Maranhão, lo stato del nord-est del Brasile dove la foresta amazzonica è quasi del tutto scomparsa sotto i colpi implacabili dei bulldozer, questi guardaboschi volontari si muovono in squadre.

Hanno l’abilità innata che deriva loro dal vivere da generazioni a contatto con la natura, ma non disdegnano mezzi più tecnologici, come droni e Gps. Unendo l’antico al moderno, pattugliano palmo a palmo il loro territorio. Quando individuano un gruppo di taglialegna, li aspettano pazientemente sulla strada. Poi entrano in azione: tendono loro un agguato, distruggono i loro macchinari e li costringono alla fuga. Sanno che la loro impresa non è priva di rischi. Lo stesso Paulino, prima di cadere nell’imboscata che gli sarebbe stata fatale, aveva detto a più riprese di temere per la propria vita. Prima di lui, tre guardiani erano stati uccisi a sangue freddo. Dopo, altri quattro membri del gruppo hanno fatto la stessa tragica fine.
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Nell’Amazzonia senza legge, l’assassinio di questo giovane leader indigeno e dei suoi compagni ha lo stesso significato di quello del sindacalista Chico Mendes, ucciso nel 1988 da due rancheros che mal sopportavano la sua azione in difesa dei diritti dei più deboli. In questi trentadue anni, poco è cambiato nell’immenso nord brasiliano. L’Amazzonia rimane terra di conquista per interessi variegati: dall’industria del legname ai grandi allevatori, dai coltivatori di soia ai cosiddetti garimpeiros, i cercatori d’oro che con picconi e setacci si accalcano nelle miniere improvvisate a caccia di pepite e filoni. Ma dall’elezione di Jair Bolsonaro, il presidente di estrema destra che considera la foresta come mero territorio da sfruttare, la lotta si è fatta più aspra.

Appena arrivato ai vertici dello stato, questo ex capitano dell’esercito ha manifestato a più riprese la sua intenzione di convertire le terre indigene e le zone protette in aree da mettere a profitto. Ha svuotato i fondi degli enti governativi a tutela dei popoli autoctoni e della preservazione degli eco-sistemi. Ha scatenato un’aggressione violentissima contro le Ong, definendole «un cancro difficile da estirpare». Per fugare ogni dubbio sulle sue intenzioni, ha nominato a capo del ministero dell’Ambiente Ricardo Salles, un avvocato di San Paolo già condannato per frode ambientale.
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Populista e iper-nazionalista, ammiratore incondizionato del regime militare che ha governato il Paese con pugno di ferro dal 1964 al 1985, Bolsonaro è l’espressione più compiuta della cosiddetta “bancada ruralista”, la potente lobby agraria che ha un peso crescente al Congresso di Brasilia. Dopo aver contribuito all’impeachment di Dilma Rousseff nel 2016, ed essersi alleati con il suo successore Michel Temer, i “ruralisti” hanno trovato nel nuovo presidente un fedele porta-bandiera delle loro lotte in favore dello smantellamento delle tutele ambientali e dello sfruttamento della foresta.

Se i suoi predecessori avevano cercato un equilibrio tra le istanze dell’agribusiness e la difesa degli eco-sistemi e delle comunità tradizionali, Bolsonaro ha avviato la ripresa in grande stile della politica di colonizzazione lanciata negli anni ’70 dalla giunta militare allora al potere. All’epoca, lo slogan per l’invio di coloni da tutto il Brasile nella regione amazzonica era «mandiamo uomini senza terra» in una «terra senza uomini». La vulgata corrente preferisce rivisitare l’antico motto, riconoscendo che quei territori non sono in effetti disabitati, ma aggiungendo che chi li abita non merita di usufruirne in modo esclusivo.

«Apriamo le terre indigene, che rappresentano il 13 per cento del territorio nazionale, allo sfruttamento minerario e all’agricoltura su larga scala», ha detto il presidente in più di un’occasione, annunciando la volontà di emendare la Costituzione del 1988 che garantisce ai popoli nativi il possesso permanente ed esclusivo delle loro “terre tradizionali”. Le mosse e le esternazioni di Bolsonaro non hanno mancato di avere effetti immediati sul terreno. Il 10 agosto dell’anno scorso, pochi mesi dopo il suo insediamento, il “dia do fogo” (“giorno del fuoco”) ha dato il via alla grande offensiva. In una serie di incendi coordinati, migliaia di ettari di foresta sono stati ridotti in cenere, rasi al suolo per lasciare spazio all’allevamento di bestiame e alle colture intensive.
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Nel mese di agosto, gli incendi si sono propagati in diverse parti dell’Amazzonia, con un’incidenza maggiore dell’84 per cento rispetto all’anno precedente, secondo i dati diffusi dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe). La notizia ha fatto il giro del mondo, mobilitando sui social divi e star hollywoodiane e mettendo il Brasile in una posizione di imbarazzo planetario. Dopo aver licenziato il direttore dell’Inpe Ricardo Galvão per aver diffuso le cifre, Bolsonaro ha respinto l’accusa di aver sobillato gli incendi. Ha poi pronunciato un discorso all’Assemblea generale dell’Onu in cui ha ribadito il suo punto di vista: «L’Amazzonia non è patrimonio dell’umanità, ma dei brasiliani».

Se i roghi hanno coinvolto tutta l’Amazzonia legale, l’epicentro del “dia do fogo” è stato il comune di Novo Progreso. Questa piccola cittadina nel sud dello stato del Parà racchiude in sé simbolicamente tutti gli elementi dello scontro tra i fautori di un maggiore sfruttamento della foresta e quelli della sua conservazione a tutti i costi. Incastonata tra parchi nazionali e gigantesche aree protette come la Floresta Nacional Jamanxim, che con i suoi 1,3 milioni di ettari ha una superficie maggiore dell’intero Libano, Novo Progreso sorge lungo la BR-163, la lunghissima arteria che collega il sud del paese con Santarém, il porto sul rio delle Amazzoni.

Via quasi mitica, la BR-163 rappresenta una raffigurazione plastica dell’avanzata delle cosiddetta frontiera agricola brasiliana. È attraverso questa strada, al tempo sterrata e piena di buche, che un manipolo di pionieri è giunto alla fine degli anni ’70 nell’allora selvatico Mato Grosso, lo ha disboscato e ha convertito il cerrado, la grande savana tropicale che copriva l’intero territorio, in una distesa di coltivazioni di soia e pascoli estensivi. Esaurite le terre disponibili, gli agricoltori a caccia di fortuna hanno puntato sempre più a nord, avanzando a colpi di bulldozer e ingoiando tratti di foresta amazzonica.

Fondata neanche trent’anni fa da un gruppo di coloni attirati dalla prospettiva di commerciare legname e avviare coltivazioni su larga scala, Novo Progreso è la nuova frontiera. Tra le sue strade squadrate, che si sviluppano intorno alla BR-163, si notano centri per la vendita di macchinari agricoli, fertilizzanti, farmaci veterinari, oltre a una serie di “compro oro” dove i garimpeiros più fortunati smerciano i frutti del loro duro lavoro nelle miniere artigianali (e illegali) sparse nelle aree protette all’interno della selva. Grazie alla sua posizione geografica, la cittadina rappresenta il centro nevralgico del piano di sviluppo annunciato dal presidente e caldeggiato dalla lobby ruralista. A poche centinaia di chilometri di distanza c’è il terminale portuario di Miritituba, dove le grandi aziende che commercializzano la soia riempiono le navi container che dall’affluente Tapajós imboccano il Rio delle Amazzoni e da lì vanno in tutto il mondo.

Seguendo il corso della BR-163 si arriva a Santarém, dove c’è un altro gigantesco terminale costruito dalla multinazionale statunitense Cargill. Un progetto di ferrovia per trasportare più agevolmente le materie prime agricole è ugualmente in fase di realizzazione. È lungo questo asse che si dipana il cosiddetto “arco do desmatamento”, la linea della deforestazione che viene monitorata dalle organizzazioni ambientaliste. Come fa notare Rômulo Batista, responsabile della Campagna Amazzonia di Greenpeace Brasile, «oggi il 19 per cento della foresta è stato già disboscato».

Gli esperti segnalano che ci stiamo avvicinando pericolosamente al 25 per cento, livello al di là del quale la foresta non sarà più in grado di produrre pioggia per rigenerarsi. Un colossale serbatoio di carbonio potrebbe venire a mancare, con conseguenze spaventose sul clima del pianeta intero. Con meno precipitazioni, le stesse coltivazioni di quanti spingono per far avanzare la frontiera agricola potrebbero risultare compromesse. I fazendeiros del Parà non credono più di tanto a queste previsioni e appaiono ansiosi di portare avanti il loro progetto.

Anche quest’anno gli incendi sono continuati. Secondo dati satellitari della Nasa, l’incidenza sarebbe stata persino maggiore di quella dell’anno passato. Ma il Covid-19 ha distolto l’attenzione del mondo e fiaccato anche la resistenza delle comunità tradizionali, fortemente toccate dal virus. Il ministro dell’Ambiente Ricardo Salles lo ha detto chiaramente: «Dobbiamo fare uno sforzo in questo momento di calma della stampa, in cui tutti parlano di Covid, per accelerare il cambiamento e modificare tutte le regole», ha dichiarato durante un consiglio di ministri in un video che è poi circolato causando scandalo.

Bisogna tuttavia allargare lo sguardo per comprendere il fenomeno nella sua interezza. La questione dell’Amazzonia non è un semplice scontro tra gli imprenditori agricoli desiderosi di ampliare le proprie terre e le comunità tradizionali o gli ambientalisti che quelle terre vogliono tutelare. Se le aree vengono occupate, disboscate, trasformate, è perché esiste un florido mercato globale per i prodotti che qui vengono coltivati. La carne e la soia prodotta nelle immense distese a monocoltura vengono esportate in tutto il mondo. Il legume bianco, di cui il Brasile è il primo produttore mondiale, è un elemento fondamentale dei mangimi usati negli allevamenti intensivi di mezzo pianeta. È proprio la crescente domanda di questo alimento, soprattutto da parte della Cina, che sta provvedendo a spingere la frontiera agricola sempre più all’interno della foresta.

In questo, anche l’Europa ha un ruolo non trascurabile. Il 12 per cento della soia prodotta in Brasile arriva nel nostro continente. La stessa zootecnia italiana ne importa ogni anno 1,3 milioni di tonnellate, la metà delle quali proprio dal Brasile. In un gigantesco effetto farfalla, i roghi in Amazzonia e l’azione dei guardiani della foresta ci riguardano molto più da vicino di quanto pensiamo: in un mondo così interconnesso, un inesorabile filo rosso sembra unire la bistecca che compriamo al supermercato e l’assassinio di Paulo Paulino nel suo territorio ancestrale in una remota area del Maranhão.