Amiche, madri, amanti, sorelle. Protagoniste della narrativa più recente. Da Valeria Parrella a Cristina Comencini, le autrici italiane raccoontano donne audaci e indipendenti, di fronte a uomini sempre più fragili

Schermata-2020-11-06-alle-17-09-57-png
C’è un uomo, Antonio, su una scala poggiata a un melograno nel giardino di casa. Il melograno ha il tronco bacato da un parassita che lo consuma. L’uomo perde l’equilibrio, oscilla, cade. Rimane esanime per un tempo che manderà in necrosi un pezzo di cuore. Questo è il perno attorno a cui ruota “È quello che ti meriti” di Barbara Frandino (Einaudi). A scandire ogni piccola profondissima frana che fa andare a picco l’amore è la voce della moglie, il cui nome risuona pochissime volte nel romanzo, un nome negato prima di tutto dal disamore per se stessa, annichilita dalla «brutalità della sua indifferenza».

Lui, Antonio, ha fatto un figlio con un’altra donna, Anna, non più giovane della moglie ma capace di portare i propri anni «con insolenza». Lei, Claudia, da quando ha abortito anni addietro, ha il «ventre vuoto». Una donna che si sente sempre più disabitata. La voce che sottopone a una minuziosa anatomia quel tempo che «procede per piccole sottrazioni finché non ci accorgiamo di assomigliare più a quello che manca che a quello che resta» ha la forma di un ininterrotto discorso interiore, un tarlo di pensieri acuminati, che lacerano la pelle strappo dopo strappo.

La parola è un bisturi che tocca con la punta lì dove si nasconde il dolore, lo segmenta in gesti minimi, sillabe sbagliate, incrinature, oppure lo coglie in esplosioni furiose, che sarebbero scomposte se non fossero sterilizzate, evocate con una tensione trattenuta, come nascosta a se stessa, mai urlata. Di quell’amore resta una fede nuziale che migra da un luogo all’altro: dal dito alla tasca dei jeans al cassetto delle posate, al comodino, e lì resta. «Io volevo solo che mi chiedesse scusa».

Ma le scuse non arrivano mai, arriva piuttosto un crescendo di ferocia da addomesticare per non esserne travolti. E un post-it di Antonio con su scritto «Proviamo» come se quanto accaduto fosse un episodio trascurabile. La richiesta di un uomo che «non ha mai riparato nulla», nonostante sappia calcare le ribalte. Perché Antonio è un uomo di successo nella vita pubblica. Ma è un melograno bacato nell’esistenza ordinaria da quando la vita lo ha messo dinanzi al tempo che passa.
ginzburg-jpg

Anche Seba nel romanzo di Lisa Ginzburg “Cara pace” (Ponte alle Grazie) è un uomo che nel lavoro ha raggiunto il successo come fotografo di matrimoni. Ma è un’assenza, perdipiù irrilevante nella vita delle due figlie, Matilde e Nina. Le ha volute con sé, dopo che il matrimonio con Gloria si è sgretolato, ma poi le ha lasciate in un’enorme casa con una giovane governante impossibilitata a colmare un vuoto che Maddalena, la figlia maggiore (voce narrante) cerca di fronteggiare tirando a galla dalle profondità della memoria istanti, fotogrammi che possano in qualche modo porre un argine al dissesto suo e di Nina, la sorella minore con cui condivide quell’anomalia, la deformità di un’infanzia e un’adolescenza da «orfane senza esserlo».

Se Seba, due volte al mese, «inscena una finta consuetudine» mettendosi in cucina, quel che custodisce davvero il calore di una consuetudine negata è una foto che Matilde tiene vicino al letto e con cui instaura suoi dialoghi muti: tre donne su un lago. Lei, la sorella Nina e la madre Gloria. Perché la grande protagonista di questo romanzo è proprio quella madre che non c’è, andata via dopo una lite furibonda di cui rimane impressa nella memoria di Matilde la fragilità di giunco contro cui si abbatte il fascio di nervi di Seba. «Mollare qualcuno senza dare spiegazioni è distruttivo…».

Come difendersi, come riconciliarsi, come rimediare? È questa la tensione che attraversa un romanzo dal tratto delicato, in cui la memoria è una possibile via d’uscita quando riesce a evocare «la felicità strappata» degli incontri con la madre «scanditi dall’orologio»: momenti che sono come apparizioni, no di una figura, ma di un paesaggio con le tinte dei suoi abiti avorio, verde prato, giallo senape, un paesaggio in cui rifugiarsi e lì cercare una qualche pace.
ginzburg2-jpg

Una madre anomala e una figlia anomala, se non altro per la differenza d’età, sono le protagoniste del romanzo di Cristina Comencini “L’altra donna” (Einaudi). E «l’altra donna» sono entrambe, reciprocamente: da una parte Maria, una donna di mezz’età che fa l’artista, disegna ombre, tracce, e cerca indizi di quel che è diventato il suo ex marito Pietro e, dall’altra Elena, la nuova compagna venticinquenne di quello stesso uomo trent’anni più vecchio di lei.

Anche Pietro si è realizzato nella vita pubblica, è un parlamentare europeo. In Elena ha trovato quello di cui ha bisogno: leggerezza, seduzione, giovinezza. Ma non sa niente di quella ragazza, e forse nemmeno gli importa. Perché, se si è allontanato dalla moglie Maria, è anche per via di quella leggerezza e spavalderia giovanili con cui hanno messo su famiglia tramutatesi nel tempo in responsabilità, figli, complicazioni.

È Maria invece che impara a conoscere Elena, cercando cosa sia diventato quel ragazzo che ha sposato e amato per «quella parte sconosciuta», fragile, messa a tacere. Lo fa con uno stratagemma, fingendosi un’amica qualsiasi di facebook ma capace di portare Elena a un dialogo intimo. L’esito è una sorta di epistolario in cui anche lei, Maria, finisce per condividere con quella giovane donna pezzi della sua vita coniugale con lo stesso uomo. Due rivali che portano il termine rivalità alla sua radice: chi spartisce con altra persona l’acqua d’un medesimo rivus, ruscello.

Così, man mano che il romanzo procede, le figure che prendono corpo e spessore sono loro, quelle due donne di generazioni diverse, con visioni differenti e anche conflittuali sul modo di essere donna, compagna, moglie: Maria ed Elena. Nel dialogo sempre più intimo, emergono fragilità, aspettative tradite, padri amati che custodiscono segreti indicibili, madri che non sanno essere libere come professano, dipendenze affettive, e un ex marito e nuovo compagno che sbiadisce, mostra sempre più la propria inadeguatezza dinanzi alla vita nella sua declinazione più ordinaria, quotidiana, difficile, come il Seba della Ginzburg e l’Antonio della Frandino.

Questi uomini sono figure così esili nel corpo a corpo con la vita che in “Quel tipo di donna” (HarperCollins) di Valeria Parrella scompaiono. O comunque, possono tornare solo dopo un tempo senza di loro, vissuto nella «sorellanza» di quattro amiche che insieme si prendono carico del dolore lacerante di una di loro, mettendosi in viaggio verso la Turchia. Donne sempre «un poco ragazze», autosufficienti, spavalde, libere, capaci di allevare figli da sole, e che portano dentro di sé madri e nonne e storie di donne indipendenti, perseveranti di cui andare orgogliose.

In questo amore in cui non conta sangue o parentele, sottigliezze cui «badano i burocrati e quelli che non si innamorano mai» accade quel che rende più forti tutte le donne di questi romanzi: fare i conti con la vita e con se stesse, voler comprendere ostinatamente, a costo di farsi male, di mettere in discussione il maschio più amato, per cercare un uomo in tutta la sua fragilità e inquietudine.