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Politica
novembre, 2020

Più soldi per le armi e fedeltà Nato: Lorenzo Guerini è il ministro più amato dagli Stati Uniti

Lorenzo Guerini
Lorenzo Guerini

Il titolare della Difesa parla poco, ma il suo potere sta crescendo. E con la pandemia ha ritagliato per l’esercito un ruolo chiave, facendosi amico l'alleato americano. Mentre l'ex ministra Trenta gli manda lettere furibonde

Lorenzo Guerini
Non si sa molto di Lorenzo Guerini, solo che si tratta di un democristiano. Questo vuol dire, forse, che si sa tutto. Gli americani l’hanno notato tempo fa. Ancora prima che il 5 settembre 2019, di ritorno da un viaggio di famiglia negli Stati Uniti, venisse nominato ministro della Difesa. Guerini è il classico che torna di moda: democristiano, cattolico, americano. Dopo le sbandate russe e soprattutto cinesi del governo Conte I e la perigliosa politica estera dei vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio, l’Italia si è ridata quel contegno che l’ha segnata sin dall’epoca di Alcide De Gasperi: Washington indica, Roma avanza. Guai a dirazzare. Con ingenuità di tipo colposo, Salvini cercò agganci con il circo equestre che ha danzato attorno a Donald Trump. Oltre che col governo dei Repubblicani, invece, Guerini ha forgiato legami solidi con l’America che si riproduce e si rigenera a dispetto dei presidenti: i militari del Pentagono con l’attuale segretario Mark Esper, la struttura del dipartimento di Stato, l’Alleanza militare atlantica (Nato). In linea dinastica, per gli americani Guerini segue un ministro della Difesa assai apprezzato: Sergio Mattarella. Col patrocinio degli Usa, nel cronico provincialismo dei politici italiani, Guerini può ambire ad ambizioni più grosse. A Palazzo Chigi. Sì, nega. I democristiani adorano negare.

IL FUTURO CHE VIENE DAL PASSATO
Guerini non è mai stato di sinistra. La sua famiglia era di estrema sinistra. Il nonno materno, il compagno Giovanni Zibra, fu sindaco comunista di Montanaso Lombardo, già frazione di Lodi, tra il ’46 e il ’64. Al funerale di Zibra c’erano un crocifisso in legno, un drappo tricolore e una bandiera del Pci. E il nipote, ancora oggi, ricorda la falce e il martello con pudore democristiano. Figlio di una cuoca di un asilo comunale e di un operaio metalmeccanico, 54 anni il prossimo 21 novembre, Guerini fu allevato tra l’altare e il cortile della parrocchia di San Lorenzo di Lodi. Lorenzo si appassionò al mestiere della politica - di professione è consulente assicurativo - nella stagione già secolarizzata del Caf di Craxi, Andreotti e Forlani. Oltre Mariano Rumor, Arnaldo Forlani è il soprannome di Guerini.

Lorenzo fin da ragazzo ha svolto due soli ruoli agonistici: calciatore e candidato. All’oratorio giocò da attaccante nella squadra Libertas, mancava lo scudo crociato per fare il simbolo Dc. Si è diplomato ragioniere non col massimo dei voti, si è congedato dal servizio militare col grado di sergente di complemento, si è laureato più tardi in Scienze politiche. Nel ’90 era già consigliere comunale a Lodi, nel ’92 assessore ai servizi sociali, poi capogruppo di opposizione, due volte presidente della Provincia, sindaco in una coalizione contro il centrodestra, capo della sezione lombarda dall’Associazione nazionale dei comuni (Anci). È scampato allo sgretolarsi dell’impero bancario di Lodi dell’amico Gianpiero Fiorani. Per la chiusura della campagna elettorale, al ballottaggio del 2010, il Pd gli mandò il giovane sindaco di Firenze che faceva proseliti nei Municipi e in quel momento si atteggiava a messia. Matteo Renzi si appuntò un paio di aneddoti su Lodi e si cimentò in un discorso che neanche il Fanfulla. E fu subito amore Diccì.

LA DISCESA A ROMA
Per l’iroso Matteo, Lorenzo era l’algoritmo che ti permette di vincere le elezioni. Ne diede un saggio all’assemblea Anci di Brindisi: fu Guerini a sabotare la presidenza di Michele Emiliano, il sindaco di Bari designato dal Nazareno, a beneficio di Graziano Delrio, il sindaco di Reggio Emilia. Fu il primo dispetto alla segreteria dem occupata dagli ex Ds con Pierluigi Bersani. Guerini si dimise da sindaco, partecipò alle primarie di Capodanno - strumento democratico che non venera - e salì in testa al primo contingente di renziani che entrò in Parlamento. A Maria Elena Boschi la scena, a Lorenzo Guerini (e Luca Lotti) il retroscena.

Il 18 gennaio 2014, espugnato il Pd, fra lanci di uova e cori di rabbia, Guerini accolse Silvio Berlusconi e Gianni Letta al Nazareno per la firma, nello studio del segretario Renzi, del fatidico patto che pose fine al governo di Enrico Letta. Guerini ne serba la memoria e i segreti. Renzi divenne premier e si ubriacò col 40,8 per cento alle Europee, Guerini si accomodò al partito in quei ruoli insipidi per i media, ma che consentono al capo di non temere agguati alle spalle. Il patto del Nazareno fu interrotto alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica, nel gennaio 2015, dopo un incontro a Palazzo Chigi tra il quartetto dell’anno prima. Berlusconi era scettico su Mattarella, Gianni Letta era di sentimento opposto, invece Renzi, più tronfio che mai, si dilettava col pallottoliere. Lorenzo no, era da settimane in contatto col giudice costituzionale Mattarella a cui dava del tu, era da settimane convinto che la ferita tra gli elettori dem per il tradimento a Romano Prodi del 2013 si potesse curare con un presidente meno popolare però trasversale.

Guerini sapeva di avere l’opportunità, dopo i nove anni dell’ex comunista Giorgio Napolitano, di ribadire nel Pd la supremazia dei reduci Diccì con un presidente della Repubblica democristiano e cattolico. Forse Renzi ci pensa ancora.

LA SCALATA SOPRA LE MACERIE
Renzi non si è mai riavuto dalla botta del referendum. Guerini l’ha scortato nelle molteplici contorsioni al Nazareno: l’addio, il rientro, di nuovo l’addio. Il voto del 2018 ha sancito l’involuzione di Matteo da maestro progressista d’Europa a senatore di Scandicci e la fugace apparizione italiana di sovranisti e populisti. In quel vuoto d’aria col potere che scappa lontano, i renziani si erano intestarditi per la presidenza del Comitato parlamentare che vigilia sui servizi segreti (Copasir).

Per mere ragioni di partito e per il sollievo del Colle, alla guida del Copasir ci andò Guerini. Mentre Di Maio si incamminava sulla via di Pechino e Salvini si compiaceva delle moine di Mosca, il Copasir di Guerini individuava due potenze mondiali da sorvegliare con attenzione: proprio la Cina, per le falle nella sicurezza per lo sviluppo della tecnologia delle reti 5G; proprio la Russia, per le offensive cibernetiche che mirano a destabilizzare le democrazie occidentali di influenza americana. Dopo le peripezie diplomatiche del governo gialloverde, il Quirinale ha preteso maggiore equilibrio per il Conte II: un ministro non politico al ministero dell’Interno e un ministro di fede Nato al ministero della Difesa. Per qualche notte di trattative per il secondo circolò l’ipotesi Di Maio, allora non ancora convertito all’atlantismo dai precettori della Farnesina. Però Di Maio aveva l’anfitrione della Difesa, il suo portavoce Augusto Rubei, che per un periodo ha accudito il ministro Trenta. È toccato a Guerini. Per la gioia del Colle.

LE DUE PAGINE FIRMATE ELISABETTA
I 14 mesi del ministro Trenta, icona già accartocciata dai Cinque Stelle, hanno agitato la quiete che da sempre avvolge la Difesa: più voce alla base dei militari con le circolari per riconoscere i sindacati interni, riduzione dei programmi internazionali per gli armamenti, progetti di missioni civili per le Forze armate, rapporti tiepidi con gli americani.

Con Guerini c’era l’occasione di ripristinare il modello Pinotti che è durato quattro anni in piena sintonia con gli Stati maggiori. Guerini ha scelto una posizione intermedia. Ha confermato al gabinetto - da più di 300 unità - alcuni militari e civili chiamati da Trenta e ne ha richiamati altri vicini a Pinotti. Il generale di corpo d’armata Pietro Serino, capo di gabinetto, fu promosso da Trenta; Il generale di brigata Salvatore Luongo, capo del legislativo, fu reclutato da Pinotti e rinnovato da Trenta. L’avvocato Fausto Recchia, che fu al fianco di Arturo Parisi nel governo Prodi e poi capo della segreteria di Pinotti, non è rientrato al vertice del ministero, ma è rimasto nel ruolo ben remunerato di amministratore delegato di Difesa spa, una società del dicastero. Recchia si è guadagnato i galloni di consigliere a titolo gratuito di Guerini, al pari dell’ex ministro Giuseppe Fioroni, nostalgico Diccì, amico di Lorenzo. Il ministro, però, ha allontanato alcuni militari scelti da Trenta: il colonnello Massimo Ciampi, ufficio del personale; il tenente colonnello Cristiano Pinna, aiutante di campo; il tenente colonnello Alessandro Di Taranto, segreteria generale; il colonnello Francesco Greco, pubblica informazione. Quest’ultimo è stato sostituito dal generale di brigata Adriano Graziani, che pare si presentò a Trenta dimenticandosi di staccare dalla parete il ritratto dell’ex ministro Pinotti.

Il 24 ottobre 2019 è accaduto qualcosa di inedito. L’ex ministro Trenta ha scritto una lettera - visionata dall’Espresso - al ministro Guerini, con in copia il ministro Di Maio, per denunciare la «rimozione coatta» di militari dal gabinetto ministeriale «senza preavviso e senza motivazioni da incarichi non fiduciari e di livello tecnico». In un dicastero in cui vige una ferrea gerarchia e una predisposizione all’ordine, un documento del genere - firmato da un ex ministro, riservista dell’esercito, moglie di un ufficiale e con ampie conoscenze nelle Forze armate - non viene archiviato con leggerezza. «Sinceramente resto stupita, conoscendoti, nel sentire che alcune persone, dopo solo un anno o anche meno, verranno allontanate in maniera così violenta». La lettera si concludeva con un appello a Guerini: «Ti prego di intervenire presto». Non si segnalano altre uscite dal ministero.

MESSAGGI A WASHINGTON
Il ministro Guerini non c’era all’aeroporto di Pratica di Mare a omaggiare i militari di Mosca spediti da Vladimir Putin per “salvare” l’Italia dalla pandemia, invece c’erano il ministro Luigi Di Maio e il generale Enzo Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa. Guerini non ha omaggiato nessuna delegazione straniera calata su Roma nei giorni più cupi dell’emergenza sanitaria. Per due motivi: erano iniziative di Palazzo Chigi (come la Russia) o della Farnesina; gli americani non gradivano. Di Maio ha ricevuto con gli onori (e con lo Stato maggiore della Difesa) i russi, complice la confidenza fra il suo portavoce Rubei e il generale Vecciarelli. Per diverse settimane, durante la prima fase della pandemia, Di Maio organizzava collegamenti “classificati”, cioè riservati, con i colleghi Nato in una stanza protetta, ospite dello Stato maggiore della Difesa di via Venti Settembre a Roma.

Anche le Forze armate hanno soccorso il governo in quel periodo quando mancavano respiratori, mascherine, igienizzanti, ma erano schiacciate da Palazzo Chigi che aveva centralizzato la gestione prima con la Protezione civile, che è un dipartimento della presidenza del Consiglio, e poi col commissario Domenico Arcuri, il manager di riferimento di Conte. Stavolta è diverso, e l’ha ripetuto Mattarella al recente Consiglio supremo di Difesa: i militari fanno tamponi, allestiscono ospedali da campo, mettono a disposizione trasferimenti di malati e materiali.

Nonostante il Covid-19 e la caduta del prodotto interno lordo (Pil), il ministero non ha ridotto gli investimenti previsti in 5 miliardi di euro e nella legge di Bilancio ha stanziato 2,5 miliardi di euro in più per il biennio 2021/22. Le spese dell’Italia per la Difesa, rilevano le analisi Nato, hanno un’incidenza reale sul Pil per l’1,43 per cento (1,18 nel 2019) e sono 22,844 miliardi nel 2020. È l’incremento più cospicuo dal 2013, 1,5 miliardi di euro in valore assoluto. Guerini si è prefissato l’obiettivo dell’1,58 per cento entro cinque anni per raggiungere la media dei Paesi europei appartenenti alla Nato. La fornitura di armi e mezzi con Guerini è concentrata in gran parte su aziende americane. Per i programmi di cooperazione europea, al contrario, la Difesa sgancia un obolo: 62 milioni di euro in sei anni. E per la Libia, siccome va trasferito l’ospedale militare in un’altra zona di Misurata, ha intenzione di aprirne uno a Tripoli e di aumentare la presenza di militari - certo, con il compito di curare, sminare e addestrare - in un territorio invaso dai turchi, le balie del governo riconosciuto di Al Serraj. Alla riunione di metà ottobre dei ministri del gruppo Nato sono arrivati affettuosi complimenti a Guerini. Almeno riconoscenti.

IL PALLINO PER IL BASEBALL
E poi c’era Renzi, già. Guerini l’ha mollato al suo destino con Italia Viva e ha nutrito nel Pd - in condivisione con Luca Lotti - la corrente Base riformista. Guerini si vede come una sorta di custode del renzismo senza Renzi. Lotti ha litigato davvero con Matteo, Guerini non litiga mai. L’inchiesta Consip ha imbrigliato “il lampadina” Lotti, dunque Guerini si è ritrovato padrone senza gareggiare. Fortune che capitano spesso ai democristiani. In caso di crisi di governo senza l’unità nazionale, il chirurgo Mario Draghi opera solo col consenso di tutti, Guerini è il favorito per Palazzo Chigi assieme a Dario Franceschini. Entrambi sono di costituzione democristiana, però Franceschini è quello lì al centro della stanza che freme e trama, Guerini è l’altro che fischietta circospetto. Dice che taglia il prato fumando sigari toscani, che guarda il campionato di baseball americano, che tifa per i San Francisco Giants, che legge James Ellroy, Don Winslow, Emmanuel Carrère, Irene Nemirovsky, che ascolta Muse, Pearl Jam, Radiohead, Joe Jackson, Sigur Ros, Antony and the Johnson. E se è una canzone è “Solsbury Hill” di Peter Gabriel, il primo singolo da solista dopo i Genesis. “I’ve come to take you home”. Sono venuto per portarti a casa. Chissà se la dedica a Conte.

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