Decessi in crescita in tutta Italia, focolai fuori controllo anche al sud e nelle ex città-modello. Val D'Aosta e Lombardia prime nell'indice di mortalità. In fondo alla classifica Puglia e Campania, malgrado i positivi in continuo aumento

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Si è parlato molto di banchi a rotelle per le scuole, lanciafiamme da brandire contro gli assembramenti, calciatori positivi, mascherine serenissime ma inefficaci, camici dei cognati e scudi fiscali, farmaci miracolosi poi bocciati, test rapidi con risultati incerti, corse internazionali ai vaccini futuri, per ora attivi solo in Borsa. E poi di fabbriche e centri commerciali da tenere aperti, piste da sci e palestre da chiudere, orari, distanze, spostamenti, colori delle regioni, soldi europei, polemiche politiche e scontri fra virologi veri o presunti. Ma di loro, delle oltre 60 mila vittime del coronavirus accertate in Italia nei primi nove mesi di pandemia, si ricorda poco o niente.


Giornali, televisioni e siti d’informazione pubblicano i nomi più noti a livello nazionale o locale. Di tutti gli altri si conosce solo una cifra, quella riferita dai bollettini quotidiani della protezione civile a una platea ormai assuefatta. Che sente elencare: nelle ultime 24 ore i decessi sono aumentati, oppure scesi, anche oggi sono più di 500, ma siamo lontani dal picco d’inizio dicembre, 993, allarme rosso, mai così tanti in un giorno... Eppure sono proprio gli indici di letalità (numero di vittime rispetto al totale accertato dei contagiati) e di mortalità (rispetto all’intera popolazione) che fanno del covid-19 un’emergenza mondiale. Una strage silenziosa e continua. Che aggrava ogni giorno il sovraccarico di dolore e lutto di migliaia di persone. Famiglie spezzate, figli che restano orfani, nipoti che perdono i nonni, amici e colleghi che non ci sono più.

L’Italia è tra le nazioni più colpite dal covid-19: nelle classifiche internazionali, siamo ai primi posti nel mondo per numero di vittime e soprattutto per tassi di mortalità. Gli scienziati non sanno ancora spiegare con certezza perché il virus uccide di più in certe regioni e in determinati periodi. I dati sui decessi, elaborati dall’Espresso riaggregando le cifre registrate dalla Protezione civile e dal ministero della Salute, evidenziano una crescita impressionante: peggio di noi, in Europa, sta solo il Belgio. Il virus non è mutato (per fortuna, altrimenti diventerebbero inutili i vaccini allo studio), ma la seconda ondata sembra quasi un’altra emergenza. Dal 30 settembre al 6 dicembre, in particolare, la Lombardia ripete la catastrofe della prima fase, con quasi il triplo delle vittime del Piemonte, ma al terzo posto, nella lista dei lutti, ora c’è il Veneto. Le curve dei decessi schizzano verso l’alto anche in Lazio, Campania, Sicilia e altre regioni, come mostrano le tabelle pubblicate in queste pagine.


Nella seconda ondata cambiano anche i tassi di mortalità, che sono l’indicatore cruciale. La Val d’Aosta registra un dato addirittura triplo della Lombardia. Che in questa fase ha una percentuale di vittime, in rapporto alla popolazione, che supera di pochissimo (nell’ordine) Liguria, Piemonte, Friuli e le province di Bolzano e Trento. In vetta c’è tutto l’arco alpino, con le capitali dello sci. Mentre la Puglia o la Campania dei divieti confermano la diffusione del contagio, ma restano in fondo alla classifica del rischio.

Dietro tutte queste cifre ci sono le persone. Una massa di invisibili. Separati dal mondo, scomparsi in solitudine dentro ospizi ad alto rischio o nei reparti sigillati degli ospedali. Avvolti in un lenzuolo intriso di disinfettante, gli effetti personali in una busta. Intoccabili per tutti i loro cari. Rimossa dal dibattito pubblico, la morte di massa si manifesta nei social network, in migliaia di messaggi che sembrano sostituire i necrologi e funerali di prima del coronavirus. Diventa un dovere morale, o un diritto umano, dare notizia del decesso di una persona amata, condividere con una comunità un dolore altrimenti senza sfogo. Dopo i racconti della malattia vissuta in prima persona, che riempivano internet fino a un paio di mesi fa, ora dilagano le testimonianze della perdita. I morti sono troppi, giornali e tv non possono pubblicare le storie di tutti, e allora le raccontano i parenti, gli amici. Clara: «Ridatemi la mia mamma... Avevo ancora troppe cose da dirle, tanti baci da darle...». Maddalena: «Mio padre è deceduto il 12 giugno, dopo 72 giorni di solitudine. Ma ieri ho preso per la mano mio suocero, all’uscita del reparto covid, dopo 33 giorni di ricovero!». Mariagrazia: «Otto mesi senza te. Non avrei mai immaginato di essere travolta da uno tsunami così violento, che ha distrutto la nostra famiglia... Tutto sa di te in ogni angolo della casa: sarai sempre con noi». Cristina: «Quest’anno il Natale di chi come noi ha perso i suoi cari sarà completamente diverso: tu papà non ci sei più, la mamma è sola... A noi non interessa delle riaperture di centri commerciali o impianti di sci, noi abbiamo un dolore che trascina il nostro cuore in un pozzo profondo». Pamela, a fine novembre: «Il problema non è quante persone potranno sedere allo stesso tavolo per Natale, il problema è che 50 mila famiglie avranno una sedia vuota».

L'accusa
«I nostri morti non sono serviti a nulla. Se fossi Fontana o Gallera non dormirei la notte»
14/12/2020
La prima pagina Facebook per ricordare i morti della pandemia è stata aperta il 22 marzo a Bergamo, una provincia flagellata dal virus. Ha questo titolo: «Noi denunceremo. Verità e giustizia per le vittime di covid-19». Ha raccolto subito una marea di testimonianze drammatiche, riunite in una maxi-denuncia alla Procura di Bergamo, che indaga per epidemia colposa. Oggi ha quasi 70 mila iscritti. E un rilievo nazionale. «Nelle ultime settimane ci stanno raccontando casi di persone morte a Roma, Napoli, Bari...», spiega il presidente del comitato, Luca Fusco. «Pochi giorni dopo la nascita del gruppo, avevamo già quasi diecimila iscritti, tutti con un lutto da condividere, ma la Regione dichiarava solo 1.500 morti: è allora che abbiamo capito che la tragedia era enorme e in gran parte sommersa. Denunciare i decessi serve anche a capire gli errori della seconda ondata, che sono gli stessi della prima. A Bergamo, in Lombardia, c’era il libro mastro degli errori, ma nessuno l’ha studiato».

«Nei numeri di venerdì scorso c’era il nome e la storia di mia mamma», scrive un utente di Twitter, un altro canale digitale che sembra diventato un luogo della memoria. Gli fa eco il «comandante nebbia»: «Caduto un collega di lavoro di 46 anni. Covid. Stasera, in quel numero che esce anonimo, ci sarà un volto, una storia che conosco bene. Le granate cadono sempre più fitte e vicine». Ad ogni messaggio di dolore, le risposte piovono a decine. «Questa malattia non si vede perché non si vedono i malati», lamenta Alberto. «Non li si va a trovare, non si tiene loro la mano sperando... Forse per questo molti continuano a non crederci... Eppure c’è ed è vicina. Riguarda centinaia di famiglie nuove ogni giorno. Famiglie che vedono uscire di casa un malato. E sperano. Fino all’ultima telefonata». Simona l’ha già ricevuta: «A Piacenza c’è stata una strage. In ospedale dicevano che sembrava di essere in guerra. Mio marito si è salvato, mia mamma no. Non dimenticherò mai le sue videochiamate... Vedevo i suoi occhi impauriti, lei lucidissima si rendeva conto di tutto. Mamma e papà, mi mancate immensamente». Laura ha perso il marito: «Se avessi saputo che non ti avrei più rivisto, non ti avrei lasciato andare. Ma non sapevo nulla e speravo in bene, perché continuavano a ripetere che morivano solo persone anziane con gravi patologie. Ebbene, tu non eri né anziano né malato, eppure questo maledetto virus ti ha devastato dei polmoni sani, forti, vitali. Non è andato tutto bene».


Chi condivide il lutto riceve solidarietà e scopre storie simili alla propria, strazianti. «Ho perso mio padre la settimana scorsa, il virus se l’è portato via in 16 giorni», scrive “Mariland” il 26 novembre. «Covid-19 non è solo malattia: è strappo, separazione, disperazione... Giorni e notti infinite senza neanche il conforto di un abbraccio... È accarezzare lo schermo del cellulare per salutare una bara in videochiamata, affidando un bacio all’aria, perché sei in quarantena... E quando finalmente il tuo tampone è negativo, ti rendi conto che la strada è più pericolosa di un capezzale, per colpa di quelli che ancora girano senza mascherina. Tanto muoiono solo i vecchi». Le repliche sono immediate. «Persi mamma e papà in 36 ore, il dolore è devastante, sono morti da soli. Le sono vicina, un abbraccio grande». Un abbraccio virtuale al dolore degli altri. Davide, il 21 novembre, è scosso dalla vista di due sconosciuti in una clinica covid: «Un figlio che porta alla madre un libro di poesie. E una ragazza in lacrime a cui consegnano in una busta cellulare, orologio e collanina del padre morto. Altro che Natale». Per una giovane vedova, ora le feste sono un peso: «Stasera mio figlio mi ha detto: mamma, basta... Tanto noi non saremo più felici, dopo che papà se n’è andato».

Spetta all’autorità giudiziaria accertare eventuali colpe nella gestione della pandemia. Ma i familiari delle vittime, per prevenire altre stragi, chiedono di esaminare subito almeno le cifre: quanti decessi si contano nelle diverse regioni e come cambia la mortalità nel tempo. E i dati parlano chiaro, anche sulle responsabilità politiche, senza aspettare futuri processi.

La prima vittima accertata è del 21 febbraio: il pensionato di Vo’ Euganeo. La prima ondata è imprevista, incontrollata: il virus è sconosciuto, in tutto il mondo i governi sono impreparati. In Italia, la prima nazione occidentale colpita dalla pandemia, i contagi calano solo dopo i rigidi divieti sanciti con la chiusura totale, tra aprile e maggio. Anche i morti diminuiscono, ma più tardi: l’Istituto superiore di sanità oggi fissa in 12 giorni l’intervallo medio tra i sintomi e il decesso. Quattro mesi dopo, attorno al 20 giugno, c’è una data-spartiacque: tra la seconda e la terza decade, la media giornaliera delle vittime scende da più di 50 a meno di 20. In questa prima fase si contano 34.610 decessi, concentrati per metà in Lombardia. Seguono Emilia e Piemonte, con oltre 4 mila vittime ciascuna. Il covid sembra un problema di alcune regioni del nord. Che riguarda quasi solo gli ultra-ottantenni. E i loro ospizi, dove si concentra il disastro: più di un quinto delle vittime di tutta la pandemia.

La tregua estiva dura cento giorni. È la grande occasione sprecata. Gran parte dei contagi si verificano in luoghi chiusi, quindi caldo, aria aperta e finestre spalancate aiutano. Molte regioni e alcuni presunti esperti ne approfittano per dichiarare cessata l’emergenza. E scordare le promesse di potenziare la sanità pubblica. Ma il virus continua a circolare, in tutta Italia, con altri 1284 decessi accertati dal 20 giugno al 30 settembre: da quel giorno, le vittime quotidiane tornano a superare la soglia di 20. La stessa settimana l’indice di trasmissione del contagio, in risalita già da luglio, sfonda quota 1, i ricoverati salgono a più di tremila. Quindi si scatena la seconda ondata, che dura fino all’inizio di dicembre, quando le nuove chiusure fanno finalmente calare, dopo i contagi, anche le vittime. Ma ogni giorno continuano a morire centinaia di persone. E ormai il virus si è diffuso in tutta Italia. Comprese le regioni che si credevano immuni. O si proponevano addirittura come modello di lotta al covid.


Intanto gli specialisti avvertono che le vittime reali sono molte di più di quelle registrate nelle statistiche, che vanno valutate con criterio. «Soprattutto nella prima fase abbiamo molto sottostimato i decessi, perché si facevano pochi tamponi», spiega Graziano Onder, capo dipartimento dell’Istituto superiore di sanità e responsabile dei rapporti sulla mortalità da covid. «C’è però un parametro che ci dà una valutazione più completa: l’eccesso di mortalità rispetto all’anno precedente. In Italia è intorno al 40 per cento. Ed è in linea con gli altri Paesi europei». Significa che nel 2020 sono morte decine di migliaia di persone non conteggiate come vittime del covid. Ma come si spiegano tassi ufficiali così alti? «Scontiamo il fatto di essere stati il primo Paese occidentale colpito dall’epidemia. E di avere una popolazione più anziana. Comparare i dati internazionali per altro non è semplice, perché i decessi vengono registrati in modi differenti. E comunque bisogna confrontare aree omogenee, ad esempio quelle più urbanizzate. Uno studio mostra che a New York c’è stato un impatto in linea con l’area di Bergamo, se non peggiore. In Europa l’unico Paese che sta davvero meglio degli altri è la Germania». Dove il virus è lo stesso, però è molto più attrezzata la sanità pubblica.

E in Italia cosa è cambiato tra la prima e la seconda ondata? «Nella prima l’eccesso di mortalità al nord era del 70-80 per cento, al sud praticamente assente», risponde Onder. «Ora l’epidemia ha una diffusione più omogenea, riguarda tutto il Paese. Ma non abbiamo ancora i dati sulla mortalità: la curva dei contagi è in calo, ma i decessi scendono dopo almeno due settimane». Sempre che future riaperture incontrollate non ci regalino la terza ondata.