La pandemia ci ha resi stanchi, spossati, tristi e angosciati. Sia coloro che hanno vissuto gli effetti diretti del virus – e che quindi hanno temuto per la propria vita o per quella dei propri cari – sia coloro che soffrono delle ripercussioni legate alle misure di contenimento del contagio, tutti stanno scontando le implicazioni psicologiche della pandemia da Covid-19.
«Il
lockdown, il coprifuoco, il fatto di doverci rinchiudere e metterci al riparo, somigliano molto a uno scenario di guerra, solo che in questo caso il nemico è invisibile. Le sensazioni di minaccia e pericolo che abbiamo provato sono le stesse, così come le conseguenze psicologiche sugli individui, che vanno dalla depressione, ai sintomi d’ansia, alle somatizzazioni» dice Isabel Fernandez, presidente dell’Associazione
EMDR Italia.
Negli ultimi 20 anni l’associazione (L’EMDR è un metodo per il trattamento del trauma e delle problematiche legate allo stress, soprattutto nel caso di stress post-traumatico.) è sempre stata in prima linea in decine e decine di eventi traumatici collettivi localizzati, soprattutto nella città meneghina, ma anche fuori dalla Lombardia, per esempio in supporto alla popolazione di Genova in occasione del crollo del Ponte Morandi.
«Per quanto riguarda gli effetti della pandemia sul benessere psicologico delle persone, non si può generalizzare» dice Fernandez. «Dipende molto dalla situazione di partenza. Chi ha passato il
lockdown in una condizione di stabilità psicologica è probabile che recupererà velocemente. Dipenderà molto dalla storia personale e dall’aver subito o meno delle perdite. Tutti comunque abbiamo perso qualcosa: a livello lavorativo, sociale, personale o economico.
E abbiamo tutti perso una cosa importantissima, ovvero la progettualità. Per noi che eravamo abituati a delle vite frenetiche, l’impossibilità di progettare a lungo termine è molto stressante».
Così come la difficoltà nel pianificare e guardare al futuro, anche il contatto con il prossimo è diventato, durante la pandemia, fonte di stress. Il distanziamento sociale è l’unico modo per combattere il virus e, sebbene da una parte si faccia il conto alla rovescia per il momento in cui potremo tornare ad abbracciarci, nel nostro inconscio, le altre persone sono diventate un pericoloso veicolo di diffusione del virus. Ogni contatto troppo ravvicinato ci mette in uno stato d’allerta, la vista dei mezzi pubblici strapieni ci provoca ansia, stare in una stanza con altre persone senza avere le finestre aperte, ci mette in agitazione. Mai prima d’ora le altre persone avevano rappresentato una così grande fonte di preoccupazione.
«Ci porteremo tutti dietro questa esperienza nei prossimi anni. E quando tutto questo sarà finito, per la mente non sarà finita affatto» dice la psicologa. Tuttavia, aggiunge: «
La nostra tendenza naturale è quella di cercare l’altro, per cui la maggior parte di noi andrà presto a recuperare».
Secondo i dati emersi da una ricerca realizzata dall’Istituto Elma Research in sei paesi europei per conto di
Angelini Pharma, in occasione del 10 ottobre (Giornata mondiale della salute mentale), il 58% dei cittadini intervistati ha avuto sintomi di disturbi psicologici con una durata maggiore di 15 giorni durante il
lockdown. Tra i sintomi citati: insonnia, difficoltà a dormire o risvegli notturni; mancanza di energia o debolezza; tristezza o voglia di piangere; paure e timori eccessivi; mancanza di interesse o piacere nel fare le cose; panico e attacchi d’ansia.
«Nei primi 100 pazienti che abbiamo seguito, il 40% riportava dei sintomi depressivi gravi mentre un 36% evidenziava l’utilizzo di sostanze come alcol e droghe a scopo automedicale» racconta Damiano Rizzi, psicologo impegnato in prima linea nell’emergenza covid-19 e presidente di
Fondazione Soleterre che, da maggio 2020, ha attivato
un servizio nazionale di supporto psicologico covid-19, per tutta la popolazione che si trovi in difficoltà a causa della pandemia, a cui finora hanno aderito 570 psicologi in tutta Italia.
Le motivazioni alla base di questo malessere, individuato da Soleterre tra coloro che si rivolgono al loro servizio telefonico o online, sono molteplici: «Da una parte c’è un tema di carattere mentale, quindi: la paura di ammalarsi, il fatto di essersi ammalati o di aver perso i propri cari o il fatto di essere in casa in quarantena con alcuni famigliari in ospedale e non avere notizie. Dall’altra molti ci portano le difficoltà legate all’aver perso il lavoro o di essere a rischio di perderlo» dice Rizzi.
E non potrebbe essere altrimenti, dati anche i risultati di un
sondaggio Eurofound dell’aprile scorso, riguardante l’impatto della pandemia sulle condizioni di vita e lavorative dei cittadini europei. I primi risultati emersi dal sondaggio indicavano che, ad aprile, per più della metà degli intervistati (56%) era difficile mantenere il proprio standard di vita per più di tre mesi senza percepire alcun reddito. Inoltre, il 16% dei lavoratori europei considerava probabile la possibilità di perdere il lavoro nel prossimo futuro.
Il 38% degli intervistati affermava che la propria situazione finanziaria ad aprile era peggiore rispetto a prima della pandemia. Un dato che è quasi il doppio rispetto al 2016 quando era del 21%.
Nello stesso sondaggio si evidenzia anche un aspetto venuto alla luce durante la crisi di marzo-aprile, ovvero
la sensazione di solitudine. A livello europeo, il 16% degli intervistati – e il 20% tra coloro che hanno meno di 35 anni – ha affermato di essersi sentito solo “per la maggior parte del tempo” nelle due settimane precedenti al sondaggio. Ciò è sorprendentemente diverso da quanto osservato nel 2016, quando la solitudine era percepita solo dal 6% degli intervistati e dal 4% degli under35.
Nel report di Eurofound si sottolinea che «probabilmente le persone giovani sentono di essere state impattate maggiormente dalle restrizioni rispetto ad altri gruppi di età diverse, a causa della cancellazione degli eventi sociali e dell’impossibilita di incontrare amici e famigliari fuori casa».
«Ho vissuto molto male i mesi del
lockdown perché io, sin da piccola, ho sempre dato molto peso al tempo. Non so se è positivo o negativo per una ragazzina della mia età piangere sul tempo che va sprecato. Non so se è normale, però con la didattica a distanza, e non potendo vedere amici e parenti, mi sembrava stessi buttando via il mio tempo. Ho 16 anni, e questi dovrebbero essere gli anni più belli della mia vita»
racconta Veronica, studentessa del Liceo scientifico Bruno Touschek di Grottaferrata, in provincia di Roma.
«Per me è stato veramente brutto rimanere a casa e non avere contatti. Le giornate erano monotone: mi svegliavo la mattina, facevo le video-lezioni, studiavo per il giorno dopo, mangiavo e andavo a dormire. Arrivata a un certo punto mi sentivo come se non stessi facendo niente della mia vita, mi sentivo male dentro. Mi manca andare a scuola anche solo per potermi lamentare con i compagni», continua la ragazza. «Magari vorremmo essere da tutt’altra parte piuttosto che fra quei banchi e quelle sedie però, alla fine, quelle scomode sedie di legno sono sinonimo di casa».
Secondo la
dottoressa Patrizia Casalegno, psicologa psicoterapeuta e responsabile per gli interventi nelle scuole superiori del Dipartimento di salute mentale della Asl Roma1, la chiusura delle scuole avrà un impatto importante e serio sui ragazzi. «La scuola è una palestra di vita per gli adolescenti», spiega la psicologa. «A quest’età ci sono delle tappe evolutive che devono essere raggiunte, e se viene a mancare la materia prima, ovvero il confronto diretto tra pari all’interno della scuola, il rischio è che i ragazzi più fragili, quelli che non stanno bene, si isolino».
Il Dipartimento di salute mentale in cui opera Casalegno offre uno sportello d’ascolto per ragazzi, genitori e docenti degli istituti superiori del centro e della parte nord-est e nord-ovest della Capitale, compresi licei storici come il Mamiani, il Dante Alighieri e il Giulio Cesare. Gli psicologi della Asl hanno dunque ascoltato e supportato gli studenti che hanno avuto, e stanno avendo, difficoltà psicologiche durante la pandemia.
«I disagi dei ragazzi variano e vanno dal disturbo d’ansia all’isolamento sociale. Ciò che osserviamo però, a parte le situazioni già esposte, è un vissuto d’insicurezza, un malessere diffuso e trasversale – che non dipende dall’indirizzo di studio – collegato all’incertezza del momento. Ciò di cui hanno bisogno è coerenza e stabilità e in questo momento la scuola si sforza per dare coerenza, la stabilità è difficile garantirla. C’è poi un altro fattore, ovvero che i ragazzi non vogliono che i genitori si preoccupino, per cui tendono a non confidargli il proprio star male. Nei ragazzi più fragili e meno strutturati questo malessere inespresso può anche sfociare in sintomi, ad esempio in disturbi alimentari».
Così come gli adolescenti, che attraversano una fase della vita particolarmente complicata anche in condizioni normali, anche altre categorie di persone – come i pazienti con patologie diverse dal covid – hanno vissuto un peggioramento delle proprie condizioni psicologiche a causa della pandemia.
La dottoressa Antonella Laezza è la responsabile della struttura semplice dipartimentale di psicologia dell’Ospedale Mauriziano di Torino, in cui molti reparti sono stati convertiti in reparti covid-19. A causa della pandemia il loro servizio di psicologia ospedaliera si è attrezzato al fine di portare avanti molte iniziative di supporto psicologico: sia direttamente presso i reparti covid-19 a beneficio di pazienti e operatori sanitari, sia da remoto, in sedute telefoniche o via skype, per pazienti non ospedalizzati e parenti. Essendo un ospedale tuttavia, il loro servizio di psicologia ha a che fare con le patologie. «Per esempio, ci occupiamo dell’assistenza psicologica dei pazienti oncologici. Il paziente oncologico immunodepresso sperimenta in modo ancora più profondo l’isolamento. Nella sua situazione si assommano le paure dovute alla pandemia a quelle legate alla propria malattia».
Ed è esattamente ciò che ha provato e sta provando
Sandra, 54 anni, paziente oncologica in fase di
follow-up. Sin da marzo è stata messa in smart working a causa della sua immunodepressione. Nonostante ora sia un po’ triste per questo Natale che non potrà passare con tutta la sua famiglia, ricorda come il momento peggiore per la sua salute mentale sia stato il lockdown di marzo-aprile.
«Ero molto preoccupata di ammalarmi e avevo paura di uscire di casa anche solo per fare una passeggiata. È stato particolarmente difficile, non ero abituata a stare ferma e a pensare così tanto. Ho avuto una vita un po’ travagliata a livello di salute e affetti, ho perso mia madre quando avevo dieci anni per un arresto cardiocircolatorio e, stando sola tutto il giorno, è uscito fuori un sacco di dolore che, sempre presa dalla vita frenetica che facevo, non avevo avuto modo di metabolizzare. Ho rivissuto nella mia mente anche tutto il periodo della chemio. Devo dire che, tutto sommato, mi ha fatto un po’ bene e un po’ male. Avendo tanto tempo per pensare forse ho elaborato delle cose che tenevo nascoste. Mi è servito come una sorta di terapia; io che non ci sono mai andata da un terapista per farmi aiutare, perché ho sempre pensato di non averne bisogno».