Un gruppo artigianale tutto al femminile. Nato per aiutare le vittime di aggressioni a rifarsi una vita. Riutilizzando gli scarti degli allevamenti di bufale dell'Agro Pontino

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È come nel domino, cade una pedina e via via tutte le altre. Si prova un senso di fallimento per quello che si è state, un’incoerenza con i valori che hanno mosso la vita fino a quel momento. Ma è un percorso necessario per accettare di aver fallito. Il mio è durato un anno e La.b è stato il punto di approdo». Sofia, 34 anni, sguardo timido dietro ai grandi occhiali, è la presidente dell’associazione di promozione sociale nata da La.b, un laboratorio di pelletteria artigianale femminile, a Latina, per il reinserimento lavorativo delle donne vittime di violenza di genere.

La pelle delle bufale, allevate nell’Agro Pontino per il latte e prima ancora impiegate durante la bonifica, viene considerata un prodotto di scarto dall’industria alimentare perché imperfetta, con segni visibili della vita trascorsa in acqua e negli allevamenti. Imperfezioni che le donne di La.b non nascondono, ma che seguendo la conciatura al naturale tradizionale toscana, le esaltano preservando l’unicità che ogni pelle porta con sé. È l’altra pelle, quella simbolica della bufala, che ritagliano ed elaborano attraverso un recupero creativo grazie al quale si lasciano alle spalle il passato per indossare una nuova veste, in cui scampoli e nastri diventano borse e accessori di abbigliamento venduti al pubblico nel temporary store in centro città.
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«Il legame con il territorio è il filo rosso attraverso il quale intessere una rete di relazioni tra l’individuo e la comunità», racconta Francesca Innocenti, responsabile del Centro Lilith di Latina che ha dato vita al progetto: «Un filo rosso come quello di Arianna: l’avventura di Teseo nel labirinto è il percorso che le donne intraprendono alla ricerca di se stesse verso il proprio centro, ovvero un punto - quello tra “la” e “b” di La.b - dal quale ripartire. Ad aspettarle però non c’è il Minotauro, ci siamo prese una piccola licenza, e proprio in nome di quel legame che ci àncora al territorio abbiamo scelto l’animale archetipo dell’Agro Pontino, la bufala, dalla quale la donna può mutuare i valori di forza e resistenza».

La bufala è l’animale guida anche di Sofia, che aveva già lavorato nel settore dell’artigianato e si era formata al liceo artistico specializzandosi nell’illustrazione. «C’era una parte di me che avevo accantonato per fare lavoretti e mantenere la famiglia. Era la parte più creativa, quella che mi faceva stare bene. L’ho riscoperta attraverso il disegno dei cartamodelli e dei prototipi, anche grazie a un mastro pellettiere che ci ha formate per un anno prima di aprire il laboratorio», dice.

La formazione delle sei donne del laboratorio è stata interrotta solo durante il primo lockdown, quando anche il Centro antiviolenza Lilith è stato costretto a modificare le modalità di accoglienza e trasferire il proprio supporto via telefono, Skype e Zoom. «Nonostante questo - spiega Francesca - tra il 10 marzo e i primi di maggio ci hanno chiamato 90 donne, alcune anche solo per essere ascoltate. La convivenza forzata ha acuito situazioni di violenza preesistenti e ne ha fatte nascere di nuove, anche se già prima dell’emergenza le donne non erano incentivate ad allontanarsi dai compagni violenti. “Ma dove vai da sola, senza lavoro i servizi sociali ti tolgono i figli”, si sentono ripetere spesso: un retaggio culturale che la crisi economica e la perdita di lavoro causate dalla pandemia ha rafforzato ulteriormente».
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Consapevole che il lavoro è la chiave per la piena fuoriuscita dalla violenza di genere, l’associazione Lilith - che in 35 anni ha accolto più di 5mila donne e oltre 200 nella casa rifugio - due anni fa ha presentato il progetto Ilma - Io Lavoro per la Mia Autonomia al Dipartimento delle Pari Opportunità che, tramite il Comune di Latina, ha finanziato le borse lavoro. È nata così l’idea di La.b. «È cambiata anche l’immagine che le donne offrono ai loro figli, ovvero quella di donna che ha saputo proteggerli, che è uscita dalla violenza e che ha preso in mano la propria vita», prosegue Francesca. La pandemia ha interrotto bruscamente molti percorsi di inserimento lavorativo, primi tra tutti quelli nel settore del commercio, del turismo e della ristorazione.

«Mi auguro che il nuovo Piano nazionale antiviolenza triennale, in corso di preparazione, tenga conto anche della crisi generata dal Covid», sottolinea Antonella Veltri, presidente della rete dei Centri Antiviolenza Di.R.E.. Secondo Veltri serve una visione di sistema, che tenga insieme il supporto a tutte le donne, e un approccio solidale che riconosca il valore specifico dell’inserimento lavorativo nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. «Il rischio è che l’accesso all’autonomia, e quindi a un reddito che liberi la donna dalla possibile dipendenza da un partner, possa diventare più arduo», riflette.

Se la dipendenza economica è molto frequente, l’aggressività del partner è una costante. E riguarda tutte le donne, a prescindere dalle condizioni economiche di partenza. Giulia, 50 anni, imprenditrice e designer industriale, ha avuto una relazione di otto anni con un uomo che l’ha picchiata più volte. Alla fine l’ha denunciato per stalking. «L’ho conosciuto che ero una ragazza, ci siamo rivisti dopo 20 anni. Sembrava un incontro del destino: anche lui era appena uscito da una storia e quando gli ho detto che ormai avevo 40 anni, che volevo una famiglia, dei figli, era sulla mia stessa lunghezza d’onda. Sono rimasta incinta subito e ho deciso di prendermi una pausa dal lavoro per dedicarmi alla bambina».

Nel frattempo il compagno, broker e agente immobiliare, è entrato nell’azienda di famiglia di lei. E tre anni dopo, Giulia ha scoperto buchi economici di cui nemmeno suo padre si era accorto. «È stato abile a mettere mio padre all’angolo della gestione aziendale, a creare tensioni tra me e mia sorella, era un grande manipolatore, dal carattere esuberante», dice Giulia: «All’inizio non toccava un goccio di alcol, o quasi, poi con il passare del tempo ha iniziato a fare uso di sostanze stupefacenti. Ho scoperto solo dopo, dalla sua famiglia, che era una persona bipolare, e che in una condizione come la sua la combinazione di droga e alcol lo portavano a comportamenti esasperati».

Due anni fa, a fine estate, Giulia è stata picchiata durante una lite, per 15 giorni ha nascosto l’occhio nero dietro agli occhiali da sole e ha deciso di denunciarlo. «Non c’erano ancora le tutele previste oggi dal codice rosso, non gli è stato imposto alcun divieto di avvicinamento e così ha continuato a perseguitarmi al telefono minacciando di sgozzarmi. Devo ringraziare una psicologa dei servizi sociali che mi ha fatto conoscere un’avvocatessa grazie alla quale, io e mia figlia, siamo state trasferite per un anno in una casa rifugio fuori regione».

Una relazione sentimentale che sfocia nell’aggressività fisica quando lei decide di allontanarsi: la storia di Giulia è comune a molte donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza di tutta Italia. Ma la violenza domestica non sempre è opera di un compagno, e può essere messa in atto anche dai genitori come nel caso di Chiara. Quarantanove anni, da tre ha chiuso ogni relazione con la persona che più di ogni altra avrebbe dovuto proteggerla e amarla, la madre, e dalla quale «non ho mai ricevuto un bacio, un apprezzamento. Per lei ero un’inetta, sempre sbagliata, incapace di fare qualsiasi cosa, persino una lavatrice».

Le violenze psicologiche e fisiche l’hanno accompagnata da sempre, come la luce accesa per addormentarsi, gli incubi notturni, l’impossibilità di capire, di incasellare, di dare un nome a quel potere materno che «oggi, e solo oggi, posso definire malato» e che ha finito per descriverla come pazza e tossicodipendente ai servizi sociali per cercare di toglierle la custodia del figlio. Un controllo che la madre, oggi settantenne, ha esercitato per tutta la vita e che, secondo Chiara, ha giustificato secondo una logica esteriore frutto della grande disponibilità economica della famiglia.

«Mi ha dato tutto, è vero, mille Barbie, valigie piene di vestiti, danza classica, nuoto, musei, il mare d’estate. Ma non amore. La mia evasione erano i libri: a cinque anni ho imparato a leggere, a nove ho preso in mano “La storia” di Elsa Morante che ancora oggi tengo sul comodino per la sua straordinaria capacità di raccontare il non detto, un odore, quello dello stupro e della guerra».

Oggi Chiara non ha più bisogno di essere quella che vuole sua madre, può indossare una gonna, un paio di pantaloni, un bikini o girare nuda per casa, sbagliata o giusta che sia, solo lei sa cosa è giusto per sé. «È stato un passaggio lungo, doloroso, che ho compreso solo sette mesi fa», conclude: «La.b è un modo di raccontare il nostro passato, per aiutare tante donne e uomini a capire che la violenza significa anche crescere senza seguire la propria indole».
Alla realizzazione di questo articolo ha contribuito l’European Journalism Fund