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La pandemia ci accomuna in una condizione di insicurezza. Non possiamo annullarla. Soprattutto non ci conviene trasformarla in un nemico invisibile e credere che sia una minaccia esterna e dunque da tenere il più lontano possibile. Come se poi sapessimo bene in che cosa consiste la sicurezza. Il problema sta invece proprio nel fatto che ci illudiamo di saperlo e che la nostra testa è piena di false sicurezze e intorno a noi, oggi come ieri, si danno da fare i venditori di false sicurezze.

Questa specie di guerra che ci troviamo a combattere non potrà mai essere vinta, e neppure davvero combattuta, perché quello che chiamiamo “nemico” è anche dentro di noi: pensiamo che sia “invisibile” perché guardiamo solo fuori e non abbiamo l’occhio rivolto a noi stessi. Se lo avessimo potremmo vedere che l’insicurezza ci appartiene. Potrebbe sembrare uno slittamento nel pessimismo, quando tutto diventa nero. Invece, nel momento in cui ci rendessimo conto che l’insicurezza ci appartiene e che possiamo adoperarla a nostro vantaggio, avremmo forse l’opportunità di uscire dal buco in cui ci siamo infilati.

E se fosse proprio la pandemia a spingerci a uscire dalla “malattia” della sicurezza (che curiamo a forza di paure e di richieste di provvedimenti che le calmino) per indicarci che la guarigione consiste nel riuscire a vivere l’insicurezza come una condizione elementare del cosiddetto “essere umano”? Se riuscissimo a convincerci che l’insicurezza è “dietro”, anzi “dentro” di noi, come dovremmo ammettere se non fossimo ingombrati dalle tante maschere della volontà di potenza e dalle loro personificazioni nei pregiudizi correnti, il nostro compito, oggi, sarebbe più facile.

Tutto il nostro normale modo di pensare avrebbe una scossa e prenderebbe un’inclinazione diversa. Di solito pensiamo per verità accertate, così invece partiremmo finalmente dal dubbio: sarebbe una piccola rivoluzione culturale, ne abbiamo un gran bisogno. Di solito distinguiamo le nostre verità dall’etica che ne consegue: abbiamo, al contrario, la necessità di far sì che sapere e pratica camminino assieme.

Potremmo abbassare i toni del discorso politico (e anche di quello privato), se ci rendessimo conto del protagonismo ossessivo che caratterizza i dibattiti pubblici e la stessa vita che viviamo ogni giorno.