La sfida lanciata da Bruxelles e dal Green new deal, pur con tutti i suoi limiti, resta rivoluzionaria. E se non sapremo coglierla  non potremo incolpare i burocrati dell'Unione Europea

Enrico Giovannini
Per anni alcuni politici italiani hanno accusato l’Unione europea di occuparsi solo di questioni secondarie, quali la grandezza delle vongole e la curvatura delle banane. Ovviamente, si trattava di gigantesche sciocchezze, visto che l’Unione legifera su tantissime questioni cruciali per il benessere dei cittadini (basti ricordare che senza la spinta europea non avremmo gran parte della legislazione italiana a tutela dell’ambiente).

Ma con la presentazione del programma politico della Commissione von der Leyen per i prossimi cinque anni nessuno può più dire, neanche per scherzo, che l’Europa non si occupi di cose importanti, dalla transizione ecologica alla giustizia sociale, dalla lotta alle disuguaglianze di genere alla rivoluzione digitale, dalla riduzione della disoccupazione giovanile alla riforma della governance europea. La scelta di mettere l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (approvata da tutti i Paesi ONU nel 2015, con i suoi 17 Obiettivi e 169 Target) al centro delle politiche europee rappresenta, infatti, una vera e propria rivoluzione rispetto all’impostazione seguita nel passato.

Economia sostenibile
Perché il green new deal europeo rischia di essere un colossale flop
20/2/2020
Non a caso, il primo passo della nuova Commissione è stata la presentazione dell’European Green Deal, un progetto di profonda trasformazione del sistema economico, con impatti molto rilevanti su numerosi settori produttivi, su milioni di lavoratori, sul funzionamento delle nostre società e sui rapporti tra l’Europa e il resto del mondo. La sfida di fare dell’Europa il primo continente carbon neutral entro il 2050 equivale, come ha scritto qualcuno, a quella di portare l’uomo sulla luna che caratterizzò gli anni ’60 del secolo scorso. Con una differenza sostanziale, aggiungo io: quella che, così facendo, si eviterebbero mezzo milione di morti premature all’anno dovute all’inquinamento, un risultato che riguarderebbe direttamente noi cittadini.

Anni fa il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton spiegò all’allora aspirante primo ministro inglese Tony Blair la differenza tra questioni “urgenti” e questioni “importanti”, condividendo il più grande segreto che aveva scoperto da quando era in carica, cioè che ”se un politico si fa schiacciare dalle prime e non dedica tempo alle seconde, le cose importanti non le farà mai”. Ecco, il Green New Deal pone l’opinione pubblica, la politica, il mondo imprenditoriale e finanziario, e tutti noi difronte a tale scelta, perché senza un impegno straordinario da parte del “sistema Italia” il Paese perderà un’occasione storica per stimolare una crescita economica oggi quasi inesistente, modificare in profondità il sistema della mobilità, preparare i lavoratori ai nuovi processi produttivi, sviluppare un piano di infrastrutture (materiali e immateriali) funzionali alla transizione ecologica e alle sfide immani derivanti dalla crisi climatica, sostenere l’orientamento del sistema agricolo in chiave di sostenibilità, e potrei continuare.

Insomma, a prendere sul serio il progetto europeo e utilizzarlo come chiave di volta per realizzare un futuro migliore per questo Paese. La Legge di Bilancio 2020 segna una importante discontinuità su questi temi rispetto al passato, stanziando fondi significativi e legando incentivi all’innovazione e al passaggio all’economia circolare, ma molto resta da fare. Ad esempio, non si diventa un Paese carbon neutral entro il 2050 solo perché lo si annuncia all’ONU (come ha fatto sei mesi fa il Presidente Conte), salvo poi (come accaduto qualche settimana fa) mandare a Bruxelles un Piano integrato energia-clima non coerente con questo obiettivo, nel disinteresse dell’opinione pubblica italiana. Analogamente, non ci si può rammaricare per il deragliamento di un Frecciarossa senza discutere di come potenziare una rete ferroviaria (non solo di alta velocità) inadatta a gestire l’ingente spostamento del traffico merci da gomma a rotaia necessario per decarbonizzare l’Italia. E non si può segnalare quotidianamente lo spostamento della finanza verso investimenti sostenibili e poi bocciare (come ha fatto il Parlamento anche nei giorni scorsi) l’estensione dell’obbligo per le imprese di medio-grandi dimensioni a rendicontare sul loro impatto sociale e ambientale, condizione che diventerà presto indispensabile per ricevere prestiti da parte del sistema bancario.

A fronte di paesi, come il Regno Unito, che non solo hanno una legislazione che prevede la decarbonizzazione al 2050, ma che da anni fanno lavorare insieme scienziati, economisti, associazioni imprenditoriali e sindacati per capire, settore per settore, come realizzare in pratica tale obiettivo, l’Italia tratta questo tema con superficialità e in modo contraddittorio, continuando a farsi distrarre dalle “cose urgenti” invece che dedicarsi a quelle “importanti”. Eppure, sappiamo che una tale transizione può essere molto conveniente sul piano economico, come dimostra l’aumento di produttività conseguito dalle imprese che hanno già scelto la sostenibilità come nuovo paradigma produttivo.

Sappiamo che le preferenze dei consumatori stanno rapidamente spostandosi verso imprese attente al rispetto dell’ambiente e dei diritti umani, così come quelle dei risparmiatori. Sappiamo che la finanza internazionale sta operando la più grande svolta degli ultimi quarant’anni, smettendo di investire in imprese che operano in modo insostenibile. Sappiamo che le disuguaglianze territoriali e sociali rendono insostenibile la condizione di milioni di persone, che non sentono più di avere un futuro per sé e per i propri figli. Ma, distratti dal chiacchiericcio quotidiano, sembriamo incapaci di “unire i puntini” e cogliere il nuovo quadro che si va formando e le opportunità che da esso derivano per affrontare i tanti problemi del Paese.

Certo, la strada verso l’attuazione dell’European Green Deal è lunga e costellata di ostacoli, a partire dall’approvazione del bilancio dell’Unione europea, tema al quale sarà dedicato il Consiglio europeo della prossima settimana, e dalla possibile revisione del Patto di Stabilità, a favore degli investimenti green, su cui il Ministro Gualtieri, tra i più impegnati a favore del cambio di paradigma a favore dello sviluppo sostenibile, ha chiarito la posizione favorevole dell’Italia. Certo, la “tassonomia” sugli investimenti verdi che guiderà le scelte della finanza europea nei prossimi anni è ancora in discussione. Certo, i regolamenti che guideranno l’allocazione di fondi comunitari 2021-2027 e lo stesso European Green Deal dovranno essere negoziati tra Paesi con interessi molto contrastanti, con rischi concreti di ritardo dell’intero progetto. Certo, molte imprese e istituti finanziari fanno ancora greenwashing, continuando ad investire in attività obsolete o in imprese che danneggiano l’ambiente e violano i diritti dei lavoratori.

Ma lo scetticismo e il cinismo non ci porterà da nessuna parte, perché il mondo, purtroppo, non segue una logica evangelica, e quindi “i primi saranno i primi e gli ultimi saranno gli ultimi”, anche nella trasformazione proposta dall’European Green Deal. Basta saperlo e non incolpare poi qualche burocrate di Bruxelles per aver avviato un processo rivoluzionario che, per distrazione o stupidità, non saremo stati in grado di cogliere.

Enrico Giovannini è Portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)