Le elezioni rischiano di slittare e il presidente Donald Trump cala nei sondaggi per la gestione dell'emergenza, mentre lo sfidante appena designato Joe Biden ritrova energia. Così l'epidemia ha sconvolto la politica americana

Donald Trump
Sembrava scomparso, travolto politicamente dal coronavirus e dalla ingombrante presenza televisiva di Donald Trump che dettava i suoi proclami, inquietanti per il mondo scientifico ma elettrizzanti per il proprio elettorato. Joe Biden, l’uomo che cade e poi (quasi) sempre risorge, ha aspettato il lunedì dell’Angelo e la tribuna offerta dal New York Times, per spiegare agli americani qual è il piano del candidato democratico per affrontare una crisi senza precedenti. «La gente in ogni parte d’America si sta facendo avanti. Milioni di persone svolgono servizi essenziali a grande rischio personale, altri milioni restano a casa, lontani da amici e parenti. In cambio, vogliono la risposta a una semplice domanda: Qual è il piano per riaprire l’America nel modo più sicuro? Finora l’amministrazione Trump non ha fornito una risposta».

L’ex vicepresidente di Obama di risposte prova ad indicarne tre: intensificare il distanziamento sociale, moltiplicare i test e renderli accessibili a tutti gli americani, assicurare al sistema sanitario Usa tutti i fondi e le attrezzature necessarie. Per noi in Italia (che le mettiamo in pratica e ne discutiamo da quasi due mesi) possono sembrare indicazioni banali, per gli Stati Uniti non lo sono affatto. Solo nelle ultime due settimane l’opinione pubblica (la più attenta, nella cosiddetta “America profonda” resta molto scetticismo) si è resa conto di quanto grave sia la situazione.

Con duemila morti e quasi trentamila contagi al giorno il coronavirus ha raggiunto ogni angolo degli Usa. Nella sola New York i morti sono già oltre il quadruplo delle vittime dell’11 settembre 2001, nelle fasce più povere - quelli che non hanno assicurazione sanitaria, gli anziani delle case di cura, le minoranze afro-americane e latine - è in corso una strage ancora nascosta ai dati ufficiali. A fine aprile il numero delle vittime potrebbe raggiungere quota 50mila, da qui a novembre potrebbe superare (secondo le stime del Fbi) le 150mila: più di tutti i morti americani nelle guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan e Iraq messi insieme.

Da Truman ad Obama, le scelte di guerra di dodici presidenti che si sono susseguiti, con alterne fortune, alla Casa Bianca avrebbero causato (se quei dati saranno confermati dalla realtà) meno morti di quelli dell’ultimo anno di Trump. Del coronavirus l’attuale “Commander in Chief” degli Stati Uniti non ha alcuna colpa, ma sulle conseguenze per come ha affrontato (o non) l’esplosione della pandemia ne ha più di una. E il 3 novembre, quando verranno chiamati alle urne per conferirgli o meno un secondo mandato, gli elettori Usa potrebbero ricordarsene. Sempre che quel giorno si possa votare in tutti gli States.

Alla Casa Bianca alcuni fedelissimi di The Donald (i meno ortodossi sono stati praticamente cacciati tutti) stanno ipotizzando uno scenario da incubo, con un’America “militarizzata” a causa della crisi sanitaria e un rinvio delle elezioni. Non ha adesso molta importanza che siano o meno a preoccuparsi gli stessi funzionari a lungo “negazionisti” sulla possibilità che il “virus cinese” (chiamato così fin troppo a lungo da Trump e dal Segretario di Stato Mike Pompeo) arrivasse nelle case della più grande superpotenza del pianeta. Una certa “narrazione” catastrofica ha iniziato a farsi largo nei blog ultraconservatori, nelle radio evangeliche, in qualche talk show di Fox News e l’elettorato di Trump - finora compatto e fedele - potrebbe farla sua.

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Come ha fatto Joe Biden a risorgere nelle primarie democratiche Usa
10/3/2020
Rinviare le urne può essere una suggestione (anche giornalistica) ma è quasi impossibile
. La data delle elezioni è stabilita da una legge federale che fissa il giorno delle elezioni per il presidente, i senatori e i rappresentanti alla Camera degli Stati Uniti nel «primo martedì dopo il primo lunedì di novembre». Tra gli immensi poteri di cui gode un “Commander in Chief” degli Stati Uniti non è previsto quello di cambiare la data delle elezioni, il presidente in carica non può emanare un “ordine esecutivo” o agire unilateralmente per modificare la data fissata. Occorre prima una nuova legge approvata dal Congresso.

Per ora Trump non sembra intenzionato a mobilitare le sue truppe (elettorali, mediatiche e sui social network) in questa direzione. La crisi del “virus cinese” in una prima fase lo ha reso più popolare - nonostante le bugie, le marce indietro, le palesi contraddizioni - grazie alle numerose comparsate in diretta televisiva, alla promessa di dollari a pioggia per tutti, al silenzio surreale di Biden e di tutta l’opposizione. Anche il volto rassicurante del dottor Anthony Fauci (di origine italiana, i nonni erano di Sciacca e di Napoli), nonostante le non troppo velate critiche all’indirizzo del presidente, è stato utilizzato da Trump per autoproclamarsi condottiero della «più grande guerra di sempre».

Sono passati quasi due decenni da quando George W. Bush, allora alla Casa Bianca, fece pubblicare dal suo governo le linee guida “per comunicare” durante una grave crisi sanitaria seguendo questi principi: «essere primi, avere ragione, essere credibili, mostrare rispetto, promuovere l’azione». Nell’ultimo mese The Donald li ha infranti tutti: ha rifiutato gli avvisi della comunità scientifica e dei suoi stessi consulenti, ha detto tutto e il contrario di tutto a volte nel giro di poche ore, ha scelto l’inazione, ha irriso chi lanciava l’allarme. Ha guardato soltanto al suo interesse immediato, si è autoproclamato scienziato (a fine marzo): «Mi piace questa roba. La capisco davvero. La gente è sorpresa che io la capisca. Ognuno di questi medici ha detto: Come fai a sapere così tanto sul virus? Forse ho un’abilità naturale. Forse avrei dovuto fare lo scienziato invece di candidarmi alla presidenza».

La sua popolarità inizia a calare nello stesso giorno in cui Bernie Sanders annuncia di abbandonare la corsa alla Casa Bianca, lasciando il via libera alla candidatura unitaria di Joe Biden. Era l’8 aprile, i morti per il «virus cinese che fa meno danno di un’influenza» (Trump) avevano raggiunto la cifra di 15mila e stando ai sondaggi la popolarità di The Donald era iniziata a scendere, grazie anche agli interventi televisivi di Andrew Cuomo. Il Governatore di New York, cioè dello Stato (e della metropoli) colpiti più duramente, è diventato il contraltare mediatico di Trump, con quel suo ribattere serio e pacato alle parole (e alle bugie) del presidente in carica che hanno contribuito a far circolare la voce di una sua possibile candidatura “last minute” alla Casa Bianca.

Il numero di morti e la paura sempre più diffusa, la rinuncia di Sanders, il volto rassicurante di Cuomo e un paio di espressioni (quasi smorfie) dello stesso dottor Fauci in silenzio accanto a Trump, hanno rilanciato in una sorta di combinato disposto l’opposizione democratica ai tempi del coronavirus. Innescando alla Casa Bianca e in campo repubblicano il timore che una (ri)elezione di The Donald che consideravano ormai certa stesse diventando ad alto rischio. Ed ecco che prende lo scenario del rinvio.

Né Trump, né i repubblicani possono provare a posticipare le elezioni senza l’accordo con i democratici (e viceversa) ed è comunque quasi impossibile anche per questioni di tempo. Non mancano però le ipotesi (non semplici per via del complicato sistema elettorale degli Stati Uniti), di chi sostiene che se la pandemia dovesse durare ancora molti mesi si potrebbe essere costretti. Le primarie democratiche posticipate hanno creato - anche se solo a livello locale - una serie di precedenti, che potrebbero avere una certa influenza in un’eventuale battaglia politico-giudiziaria sul rinvio o nel caso che tutti (Casa Bianca, repubblicani e democratici) fossero d’accordo nel farlo.

Il presidente degli Stati Uniti viene scelto attraverso 50 diverse elezioni statali (non conta chi prende più voti a livello nazionale) da cui escono i cosiddetti 538 “grandi elettori” chiamati ad eleggere (serve una maggioranza minima di 270) il nuovo presidente Usa. I singoli Stati potrebbero anche cambiare il metodo con cui scelgono i loro “grandi elettori” in qualcosa di diverso dal voto popolare, un’opzione che richiederebbe, nella maggioranza dei casi, che le legislature statali e i governatori di tutti i 50 Stati approvino nuovi metodi per la selezione degli elettori entro il 3 novembre.

Altra possibilità per permettere agli Stati di poter scegliere i propri “grandi elettori” con elezioni che si svolgano dopo il 3 novembre sarebbe quella che entrambe le Camere del Congresso degli Stati Uniti approvassero, con la successiva firma del presidente, una legge che sostituisse o modificasse il Presidential Election Day Act (che risale al 1845) per stabilire una nuova data. Anche nel caso che Casa Bianca e Congresso trovassero un accordo c’è però un ulteriore ostacolo: Il Ventesimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che il mandato quadriennale dell’attuale presidente termina a mezzogiorno del 20 gennaio. Quindi le elezioni non potrebbero essere rimandate di più di due mesi senza correre il rischio di lasciare gli Stati Uniti senza un presidente o un vice presidente il 20 gennaio e di lasciare al Congresso il caotico compito di far governare temporaneamente lo speaker della Camera dei rappresentanti (che sarebbe in questo caso la democratica Nancy Pelosi, nemica giurata di The Donald).

Spostare la scadenza del 20 gennaio richiederebbe la modifica della Costituzione degli Stati Uniti nel giro di pochi mesi, un’impresa praticamente irrealizzabile. Non è invece affatto chiaro cosa potrebbe succedere se solo alcuni Stati dovessero rinviare le elezioni a causa del coronavirus. Il 12esimo Emendamento prevede che, dopo la scelta dei membri del Collegio Elettorale, gli elettori si riuniscano e votino, e «la persona che ha il maggior numero di voti diventa il Presidente, se tale numero è la maggioranza dell’intero numero di elettori nominati». Praticamente se venissero nominati solo 100 “grandi elettori” ne potrebbero bastare 51 per eleggere il nuovo “Commander in Chief ” di tutti gli Stati Uniti.

Scenari impossibili, da film. Anche l’arrivo della pandemia che stiamo vivendo sembrava però solo una sceneggiatura di “horror movie”. Non resta che aspettare qualche mese. Per vedere chi tra Donald Trump e Joe Biden (sul cui capo pende adesso un nuovo scandalo a sfondo sessuale) vincerà la sfida del secolo.

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