Come ha fatto Joe Biden a risorgere nelle primarie democratiche Usa

(FILES) In this file photo taken on March 3, 2020 Democratic presidential hopeful former Vice President Joe Biden, flanked by his wife Jill, addresses a Super Tuesday event in Los Angeles. - A resurgent Joe Biden seized the momentum in the race to become the Democratic challenger to President Donald Trump with a string of Super Tuesday victories, including key prize Texas, against rival Bernie Sanders.  Sanders, a 78-year-old leftist who wants to reshape America's economy, had been the clear leader and was looking for a knock-out blow on the most consequential voting day on the primary calendar. (Photo by FREDERIC J. BROWN / AFP)
(FILES) In this file photo taken on March 3, 2020 Democratic presidential hopeful former Vice President Joe Biden, flanked by his wife Jill, addresses a Super Tuesday event in Los Angeles. - A resurgent Joe Biden seized the momentum in the race to become the Democratic challenger to President Donald Trump with a string of Super Tuesday victories, including key prize Texas, against rival Bernie Sanders. Sanders, a 78-year-old leftist who wants to reshape America's economy, had been the clear leader and was looking for a knock-out blow on the most consequential voting day on the primary calendar. (Photo by FREDERIC J. BROWN / AFP)

L'operazione "stop Sanders" è riuscita e ora l'ex vice presidente di Obama è il favorito. Grazie anche all'appoggio di Barack nell'ombra. Ma metà dei delegati deve essere ancora assegnata

(FILES) In this file photo taken on March 3, 2020 Democratic presidential hopeful former Vice President Joe Biden, flanked by his wife Jill, addresses a Super Tuesday event in Los Angeles. - A resurgent Joe Biden seized the momentum in the race to become the Democratic challenger to President Donald Trump with a string of Super Tuesday victories, including key prize Texas, against rival Bernie Sanders. Sanders, a 78-year-old leftist who wants to reshape America's economy, had been the clear leader and was looking for a knock-out blow on the most consequential voting day on the primary calendar. (Photo by FREDERIC J. BROWN / AFP)
«Non lo chiamano Super Tuesday a caso! È ancora presto, ma le cose vanno bene, veramente bene. Ci avevano detto che dopo questa giornata per noi sarebbe finita, non è andata proprio così. Il mio slogan ora è facile: è il Joemomentum, siamo vivi e pronti a combattere!».

Quando Joe Biden ha invaso i social network e le caselle di posta elettronica con questo messaggio, mancavano pochi minuti alla mezzanotte di martedì 3 marzo: il giorno che - secondo le previsioni di molti guru della politica (famosi sondaggisti in primis) e i timori di un bel pezzo di establishment del partito - avrebbe consegnato mezza nomination nelle mani del socialista Bernie Sanders.

Non se l’aspettava neanche lui, il “comeback kid”, una serata così. Lo avevano dato per morto fino a pochi giorni prima del Super Tuesday, ma questo “ragazzo delle rimonte”, come gli piace auto-definirsi, alla bella età di 77 anni ha smentito pronostici ufficiali e ufficiosi, derisioni del web e inviti a farsi da parte di finanziatori delusi, andandosi a prendere la bellezza di dieci Stati sui quattordici in palio e conquistando centinaia di delegati. Cosa che ora lo rende favorito numero uno per la conquista della candidatura ufficiale del partito nella Convention di Milwaukee di metà luglio.

Primarie dem
L'operazione "Stop Sanders" ha funzionato: ora Joe Biden è lanciato verso la nomination
4/3/2020
Dietro la serata trionfale di Joe Biden non c’è solo la grinta (che non gli è mai mancata) o la particolare bravura di qualcuno del suo staff. C’è un vero e proprio mondo che all’interno del partito democratico dalle primarie dell’Iowa ( la bruciante prima sconfitta di Biden) non ha mai smesso di lavorare per trovare una quadra contro i successi - di voti, di mobilitazione e mediatici - di Sanders, l’anziano (78 anni) e arrabbiato candidato che tanto piace ai giovani.

Un mondo, quello dietro Biden, che è la versione, riveduta e corretta, dell’establishment che già nel 2016 sbarrò le porte al senatore del Vermont per puntare tutte le proprie fiches su Hillary Clinton - parecchi se ne sono poi pentiti.

Ed è un mondo che ha anche un’eminenza grigia, non dichiarata ma da tutti conosciuta: Barack Obama.

È stato lui, il presidente che ha avuto Biden al suo fianco alla Casa Bianca per otto anni, che nel lungo week end elettorale - tra il sabato del voto in South Carolina e il Super Martedì - ha mosso abilmente le fila per sostenere e rilanciare, senza mai dirlo pubblicamente o apertamente, il suo vice. Quel sabato 29 febbraio Robert Gibbs - che è stato portavoce di Obama dal 2009 al 2011 (oggi è il “global chief communications” di McDonald’s) - aveva commentato la vittoria di Biden in South Carolina ricordando come nel 2008 una spinta decisiva alla candidatura Obama (contro Hillary e la “Clinton-Machine” che allora dominava il partito) fosse arrivata dall’appoggio di Ted e Carolina Kennedy. Anche allora si era in votato in South Carolina, anche allora mancavano pochi giorni ad un Super Tuesday decisivo.

Le parole di Gibbs erano state lette come l’annuncio dell’endorsement per Biden da parte di Obama, ma l’ex presidente ha invece preferito restare fuori dalla mischia ufficiale ed agire, più prudentemente, nell’ombra. O quasi. Sarebbe stato infatti lui (il condizionale è d’obbligo per via di numerosi no comment) a telefonare personalmente a Pete Buttigieg, giovane astro nascente del partito caduto troppo in fretta, per convincere il sindaco di South Bend a ritirarsi dalla corsa.

Che Barack Obama fosse molto preoccupato dopo i caucus in Iowa e Nevada e le primarie del New Hampshire non era un mistero per nessuno nei palazzi di Washington e nei circoli politici democratici. L’evidente marcia in più di Sanders, la sua popolarità tra i giovani, le divisioni e le polemiche tra i troppi candidati moderati, avrebbero finito per consegnare candidatura (e controllo del partito) a “zio Bernie’’. Occorreva una svolta, che non venisse però letta dall’elettorato democratico come un’intrusione e una pressione dell’establishment, che sarebbe stato di fatto un regalo al candidato socialista.

Scenari
Chi ha paura del "socialista" Bernie Sanders
10/3/2020
Ci voleva una nuova, raffinata, strategia e Obama conosceva bene chi poteva guidarla. Una donna. Quando il 7 febbraio scorso - all’indomani dei risultati dell’Iowa disastrosi per Biden - l’ex vice presidente aveva annunciato qualche cambio di mansioni all’interno del suo staff, gli analisti più attenti avevano subito collegato il nome di Anita Dunn a quello di Obama. A lei, fino a quel momento estranea alla squadra dei collaboratori più stretti di Biden - composta dal campaign manager Greg Schultz, da Cedric Richmond e Pete Kavanaugh - vengono date “nuove e maggiori responsabilità” senza entrare troppo nei dettagli.

Nata negli anni del boom economico (8 gennaio 1958), cresciuta a Bethesda (Maryland) a poche miglia dalla capitale Usa, Anita Dunn si appassiona alla politica al fine degli anni Settanta, quando, dopo la laurea, inizia a lavorare come stagista per Gerald Rafshoon, direttore della comunicazione dell’allora presidente Jimmy Carter alla Casa Bianca. Fu l’inizio di una lunga carriera trascorsa a cavallo tra gli uffici del partito (nei cicli elettorali 1988 e 1990) e quelli, certamente più remunerativi, della società di consulenza politica di cui oggi è a capo.

Tra i suoi clienti diversi nomi degni di nota del partito democratico, come John Glenn (è stata la sua assistente-stampa nella campagna elettorale del 1984), Bill Bradley, l’ex campione di basket divenuto senatore (è stata la sua direttrice della comunicazione nella campagna presidenziale del 2000), o altri conosciuti membri del Congresso come Evan Bayh, Tom Daschle e Robert Edgar. La svolta decisa per la sua carriera arriva nel 2006, quando un ancora poco conosciuto senatore la chiama a dirigere le comunicazioni per il suo comitato di azione politica ‘Hope’. Quel senatore è Barack Obama, che due anni più tardi inizierà, anche grazie ai consigli di Anita, la sua cavalcata trionfale verso la Casa Bianca.

Quando quasi un mese fa Biden le ha dato nuovi, ampi, poteri, la campagna elettorale del vice di Obama era sull’orlo della bancarotta. La sua nomina ha avuto come effetto immediato quello di rassicurare i finanziatori e di ricreare attorno a Biden un’atmosfera di fiducia tra i notabili del partito. È stata lei ad allenare Biden ai successivi dibattiti televisivi, dove l’ex vice-presidente ha ritrovato quella grinta che aveva perso, è stata lei a consigliarlo di non farsi turbare dalle polemiche di chi lo ha definito un po’ suonato e di fare dell’auto-ironia sui suoi vuoti di memoria (veri o presunti).

Che dietro le quinte arrivassero anche suggerimenti da parte di Obama è possibile visti i rapporti stretti tra Anita e l’ex presidente afro-americano, ma dopo i risultati del Super Tuesday la cosa non ha più molta importanza. Quello che contava, per i notabili del partito e per i grandi finanziatori, era rilanciare la candidatura di un moderato in grado di fermare il ‘socialista’ Sanders e la missione è indubbiamente riuscita. Meno di un mese fa la campagna di Joe Biden era in caduta libera e anche dopo il successo in South Carolina aveva dovuto affrontare il Super Martedì con pochi soldi e una infrastruttura della sua campagna debole e poco riconoscibile.

Ora la corsa è diventata a due. Sanders è uscito dal Super Tuesday indebolito, ma con la vittoria in California ha comunque guadagnato un bel numero di delegati. Dopo aver speso quasi 600 milioni di dollari Michael Bloomberg è fuori gioco. Aveva puntato tutto sul 3 marzo, evitando i primi caucus (Iowa e Nevada) e le primarie di febbraio (New Hampshire e South Carolina), ma questa strategia non ha pagato. Come non aveva pagato nel 2008 in campo repubblicano per Rudolph Giuliani (che aveva evitato i primi confronti puntando tutto sulla Florida, dove invece venne sonoramente battuto da John McCain), un clamoroso errore di valutazione che avrebbe dovuto insegnare qualcosa all’ex popolare sindaco di New York.

Bloomberg è fuori gioco ma può essere un “king maker”. La sua discesa in campo era stata decisa (con grande ritardo) nella convinzione che la candidatura Biden fosse troppo debole, ma non ha mai nascosto che il suo primo obiettivo era quello di far sloggiare Donald Trump dalla Casa Bianca. Aveva promesso che se non fosse stato scelto lui come candidato, avrebbe comunque messo a disposizione del vincitore della Convention il suo immenso patrimonio personale, purché non fosse Bernie Sanders.

Se si è rivelato un errore pensare (prima della South Carolina) che Biden fosse politicamente morto, altrettanto sbagliato sarebbe adesso pensare che le chance di Sanders alla Convention democratica siano ridotte ai minimi termini. Perché ci sono ancora molte primarie in Stati importanti e popolosi (come quello di New York) o particolarmente significativi come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin i tre Blue States tradizionalmente democratici che Trump ha strappato per poche decine di migliaia di voti nel 2016 garantendosi così l’elezione. In questi tre Stati Sanders già quattro fa era andato piuttosto bene e potrebbe ripetersi.

Se si guardano i numeri, in questo caso quelli dei delegati alla Convention conquistati finora, Sanders ne ha una ottantina meno di Biden. Ai suoi potrebbe aggiungere il centinaio che ha conquistato l’altra candidata dell’ala sinistra democratica, Elizabeth Warren. La senatrice del Massachusetts è anche lei una grande sconfitta del Super Tuesday, dove era arrivata con molte speranze (e con la certezza di vincere il suo Stato) e da cui è invece uscita fortemente ridimensionata.

In campo moderato Bloomberg ha più di cento delegati a disposizione, Pete Buttigieg e Amy Klobuchar (che si sono ritirati alla vigilia del Super Tuesday dando il loro endorsement a Biden) ne hanno rispettivamente 26 e 7. Ad oggi i numeri ci dicono dunque che il favorito per la nomination è Biden e che i ruoli tra lui e Sanders si sono capovolti.

Martedì notte, poco prima che arrivasse il risultato definito del Texas (dove era favorito e dove ha perso contro l’ex vice di Obama) Sanders aveva continuato, imperterrito, a parlare da vincitore. Promettendo alla folla venuta ad acclamarlo nel suo Vermont che la marcia verso la nomination continuava inarrestabile: «Stiamo andando a sconfiggere Trump perché stiamo mettendo insieme un movimento multi-generazionale e multi-razziale senza precedenti».

Quella che era la sua forza, i giovani, potrebbe essere però il suo tallone di Achille. Perché è vero che i giovani elettori democratici (millennials e ancora di più generazione Zeta) applaudono il messaggio anti-istituzione di Bernie Sanders. È vero che sono vere e proprie folle ai suoi raduni. La loro ardente passione non si è però tradotta nella solida affluenza di cui aveva Sanders avrebbe avuto bisogno il Super Martedì per vincere una serie di Stati chiave, in particolare al Sud. I numeri ci dicono che nei cinque Stati del sud vinti da Biden (North Carolina, Virginia, Tennessee, Arkansas e Alabama) i giovani hanno disertato le urne in modo ancora più massiccio di quanto non fecero nel 2016. E tra quelli che ai seggi ci sono andati, “zio Bernie’ di voti ha avuto meno consensi del previsto.

LEGGI ANCHE

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 25 aprile, è disponibile in edicola e in app