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Ora, però, ti vedo nella tua fragilità, che non esibisci, incapace come sei di compiangerti, mentre le sirene scandiscono il tuo nuovo tempo: continue, assillanti, insopportabili (e i megafoni, “State a casa!”, i megafoni nel cervello). Ora ti guardo nel momento peggiore per te, oggi che non sei più circondata da tutti quelli a cui hai dato lavoro, cioè dignità, speranza, vita.
Fortuna che è finita l’altra mascherata che vedeva tutti ai balconi a imitare un mondiale che significa festa, quando non c’è un cazzo da festeggiare; che dovrebbe significare unità nazionale, quando ogni presidente di regione, come il primo dei leghisti che fino a ieri disprezzava, rifiuta di far rientrare nella propria terra gente che non ha più un lavoro, con parole che farebbero venire il vomito, se si avesse la forza per vomitare. Li applaudono questi loro “governatori”, gridano i loro no agli invasori, meschine vendette a compensare il nord che non li ha mai voluti, dimenticando che, appena ieri, hanno implorato un selfie con quello là.
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C’è un decreto, bisogna farlo rispettare. Perché chi ti ha abbandonata mica è l’ottantenne che spera di non morire in un’altra terra o chi non sa come sfamare se stesso e la propria famiglia; no, a lasciarti spintonando sono ventenni, trentenni, quarantenni che o devono aver pensato a un anticipo sulle ferie estive o solo che si dovevano salvare, passando sul corpo di chiunque. Con l’encomiabile risultato di andare a infettare i propri anziani che, loro sì, andavano protetti.
Ma tu che ne sai di tutto questo? Hai visto le file immonde, poi, hai alzato le spalle e hai preferito guardare le strade che, pian piano, divenivano deserte: qualcuno ci provava a prendersi la sua piccola dose di normalità, a incontrare l’amato per un bacio che sarebbe poi costato tanto caro, non a loro, non ai ragazzi che si amano, ma ai loro zii, ai loro nonni e qualcuno lo fa ancora (i drogati li tieni a casa con i decreti?). Hai visto l’esercito arrivare di notte, come se si vergognasse, per portare via i morti in altri forni crematori, dove nessun parente potrà piangerli («All’ombra de’ cipressi o dentro l’urne…», eh).
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E ti amo, ora lo so. Non voglio sentirmi più dire che devo andare via da qui, che con un cancro ai polmoni e un terzo di polmone in meno questa sarà la mia tomba (provvisoria, in attesa di un posto in un forno crematorio da qualche parte). Io resto qui con te.
Tu, che, dopo visite dai migliori specialisti (a pagamento, in Sicilia), mi hai ridato l’udito, con un intervento in un comunissimo ospedale. Tu, che, ferita e reietta, ti disperi in silenzio, con dignità, continuando a sentirti accusare da tutti: i numeri sono strani e io mi chiedo come si faccia a credere invece ai numeri che ci ha dato la Cina, quando ha nascosto al mondo intero quello che stava succedendo e raccoglie il plauso da quello stesso mondo infettato.
È che ancora si esce e ci vorrebbe un atto di coraggio in più, con uno Stato che sappia pensare davvero ai suoi cittadini. Certo, la solidarietà, anche vera eh, ma ben lontano da qui! Ti amo da quando ho sentito quella morsa per ogni morto che non conoscevo, sentendomi colpevole proprio per non averlo conosciuto. E quando per la prima volta ho letto che i contagi erano calati, ho pianto.
Per ogni ragazzo che sta vivendo le sue ore a casa, a ripensare al nonno perduto, così, all’improvviso; per ogni uomo che sta ingoiando lacrime e non si fa vedere perché ai figli una speranza la deve dare, mentre Bonolis lo informa che forse tornerà alla Rai e Maria De Filippi gli esprime la sua solidarietà (no, non so se sia la stessa che offrono a te, ma è come il nero: elegante e la tua porca figura la fai sempre); per i Luca e gli altri miei ragazzi che dicono che non importa stare chiusi in casa, si deve pensare a salvare la gente e hanno almeno un parente appena morto; per la scuola che mi ha fatto conoscere la meglio gioventù, per cui ho scritto testi, recitato, seguito denunce a genitori violenti, crescendo io; per Patrizia che ogni giorno inventa un modo nuovo per salutarci tutti con una frase di speranza, ma mai retorica; per i miei colleghi che fanno video-lezioni, con figli o nipoti tra i piedi e genitori a cui portare la spesa, e se mancano in un’ora di lezione io tremo; per i membri ATA che sono andati a lavorare senza un solo valido motivo, figli del dio peggiore; per Marzia che c’è sempre stata, a fianco dei più deboli, e per Giorgio che sta dannandosi l’anima, cercando soluzioni, e non si perdona l’iniziale sottovalutazione; per i Giovanni che devono andare a lavorare, in nero e di nascosto, con mascherine improvvisate perché sì, la salute, ma ai loro figli e alle loro mogli che devono dare da mangiare?
Per ognuno di loro, io ti amo. Non tifando la Dea, anzi, maledicendo chi non ha fermato quelle suicide partite che hanno come ideale solo il fetente danaro (e ne parlano ancora: tacete, cazzo!); ringraziando i medici che mi hanno operata senza che spendessi un soldo ed è per loro che sono qui, per una dottoressa di cui non so il cognome che lavorava in un pronto soccorso: ai miei dolori seppe trovare un nome e mi spedì d’urgenza a fare i controlli; sperando che il virus si fermi, non arrivi mai al sud perché loro sì che non ce la farebbero: non hanno le strutture che ci sono qui, sarebbe la catastrofe; andando contro i miei ideali e chiedendomi che senso abbia dare il permesso alle donne di andare a denunciare violenze senza dover spiegare niente agli agenti che le fermino: potevano sopportare un pugno in faccia la sera, tanto per gradire, ma non la convivenza forzata? Senza alcuna giustificazione ai controlli? Contro la violenza sulle donne sempre, ma questo è un attentato alla salute altrui, discriminatorio e insensato.
Ti amo, Bergamo, e rimango. Sto attenta a non ammalarmi per non togliere il posto a nessuno, per non essere un peso per i medici, mentre ci affrettiamo per realizzare l’ospedale da campo. Cerco di renderti almeno una parte del bene che hai regalato a me, dandoti il mio tempo e le mie forze, non cercando colpevoli, ma spiegazioni, quelle sì. Tutto questo passerà, io non so se ci sarò allora, ma tu, per favore, abbi pietà di quelli che torneranno ricordandosi che è stato grazie a te che sono potuti sopravvivere per anni (intanto mi scrivono perfino ora per una raccomandazione); ed abbi maggiore pietà, che mai succeda!, se gli scappati busseranno alla tua porta perché si saranno accorti che laggiù non riescono a curarli. Abbila tu, perché, se ci sarò, non so proprio se io riuscirei ad averla.