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Cammina per i corridoi di una struttura di eccellenza, stanze spaziose, bagni senza barriere architettoniche e letti di ultima generazione per prevenire le piaghe da decubito, ha sul volto tutta la stanchezza delle ultime settimane: «Si è allungata la durata della vita, ma il dolore è sempre dolore», dice mostrando la cura con cui sono accuditi gli anziani, tutti con scarsa o nulla autosufficienza fisica.
Il virus colpisce tutto e tutti, cammina nell’aria. Ogni luogo è permeabile.
A maggior ragione le residenze per anziani, e così è stato per la casa protetta di Senigallia. Il primo caso tra gli infermieri a cui segue la richiesta pressante per i tamponi a tutti gli ospiti: «Solo così, con la forzatura della procedura», dice Guzzonato «siamo riusciti a isolare i malati e i positivi asintomatici in un piano della palazzina B. Se avessimo lasciato i positivi con gli altri oggi conteremmo le bare». Ha bussato insistentemente alla porta della Direzione Sanitaria Regionale, «bisogna testare tutti», chiunque entri in una struttura per anziani debilitati può provocare una strage. Chi torna da un viaggio e ha contratto il virus ma è asintomatico, o un parente, positivo ma inconsapevole. Visite vietate, anche qui da settimane.
Vicino ai telefoni Guzzonato tiene la mail del parente di un ospite. «Ora vogliono informazioni sulle condizioni dei loro cari ma anche sapere chi è positivo ma senza sintomi e quanto è grave chi è sintomatico. Chiamiamo tutti ogni giorno, per dare notizie, siamo il ponte tra i malati e le famiglie, ma dove finisce il rispetto della privacy del malato e dove inizia il diritto di una persona di sapere le condizioni dei malati?». Se lo chiede ma non ha risposte, solo responsabilità verso gli anziani e lo staff della struttura. E l’esperienza di chi da decenni fa il medico di base e prova a prevedere, che è l’unico modo di contrastare il contagio. «Parlano tutti di guerra e di fronte, durante la guerra mandavano la fanteria armata a combattere e poi costruivano gli ospedali per i feriti. Ora abbiamo già gli ospedali ma mandano a morire la fanteria senza armi, i disarmati siamo noi, medici e infermieri» e le armi sono mascherine, guanti in nitrile, occhiali protettivi, camici e soprattutto tamponi.
L’Italia ha il maggior numero di decessi al mondo per covid-19, più di 15 mila al momento in cui scriviamo. Uno dei fattori che può aver influenzato il tasso di mortalità è l’età avanzata della popolazione - la più anziana d’Europa - con il 23 per cento del totale che supera i 65 anni. Gli anziani sono i più colpiti, si è detto dall’inizio dell’emergenza, i più vulnerabili, specie se con patologie pregresse. Proprio in virtù di questa fragilità andavano difesi e protetti con maggiore prudenza dal rischio di una strage silenziosa. Invece le residenze per anziani si sono trasformati in focolai, e i focolai in lunghe liste di morti: 52 decessi in una casa di riposo in provincia di Milano, a Mediglia, a Cremona, nella struttura Don Mori di Stagno Lombardo, morti 21 pazienti su 70. A Forlimpopoli, Emilia Romagna 25 ospiti su 37 positivi. A Villafrati, in provincia di Palermo, i contagiati di una residenza sono 69, tra ospiti e personale. Nella casa di riposo di Quinzano d’Oglio a Brescia - 80 posti - sono morte 33 persone. A Nerola, in provincia di Roma - oggi zona rossa - nella residenza Santissima Maria Immacolata sono positivi al test 56 ospiti su 63 e 16 operatori su 40. E così via, in tutto il Paese, tra casi testati e messi a statistica e casi sospetti ma non contati, che rischiano di far aumentare e di molto, sia le cifre totali delle vittime dell’epidemia, sia la possibilità di un [[ge:rep-locali:espresso:285343813]]contagio fuori controllo.
In Italia ci sono 6.000 strutture residenziali accreditate per anziani e circa 1.400 pubbliche per un totale di 300 mila posti letto. In ogni struttura entrano e escono ambulanze, fattorini, infermieri medici e fino a un mese fa parenti e conoscenti in visita. Questo rende ogni struttura permeabile.
Ecco perché l’azione in Italia di Medici Senza Frontiere si è concentrata non solo sugli ospedali, ma anche sul territorio: «Quanto più alleggeriamo il peso delle strutture ospedaliere», dice Tommaso Fabri, capomissione Msf, ««tanto più i reparti possono concentrarsi sui casi più gravi senza timore di restare sprovvisti di posti in terapia intensiva». Nelle Marche Msf ha strutturato gli interventi nelle residenze per anziani, tenendo corsi di supporto per lo staff infermieristico e razionalizzando i reparti per evitare il rischio di altri contagi.
A poche centinaia di metri dalla residenza del dottor Guzzonato c’è l’Opera Pia Mastai Ferretti, il più grande centro per anziani della regione Marche, 240 ospiti, più 20 per il centro diurno per i malati di Alzheimer, oggi chiuso per i decreti anti Covid. Di fronte all’entrata un fattorino scarica bombole di ossigeno, sulla porta Lia, 68 anni, con disturbi mentali, chiede perché tutti indossino le mascherine, «perché non possiamo mangiare seduti vicini come prima?». Un brutto raffreddore, le diciamo, meglio stare attenti. Sull’uscio il disinfettante e l’annuncio dell’interruzione delle visite. «Le abbiamo vietate a fine febbraio», spiega il presidente Mario Vechi. «Avevamo capito che sarebbe arrivato il ciclone e da metà febbraio abbiamo cominciato a limitare gli accessi fino a interromperli. All’inizio nessuno capiva e abbiamo raccolto ira e indignazione, ma prevedevamo il grande rischio e l’unico modo di arginarlo era ordinare una quantità massiccia di dispositivi di sicurezza personali per lo staff e vietare l’ingresso di persone non indispensabili».
Dopo lo sconcerto, dice Vechi, poi gli anziani sono diventati collaborativi. Sebbene nella struttura siano trattati quasi esclusivamente casi psichiatrici, affetti da demenza senile o Alzheimer, «hanno accettato con sacrificio le distanze con gli altri ospiti, chi non mangiava autonomamente ha ripreso con fatica a mangiare da solo, ma il sacrificio più grande continua a farlo il personale».
Anche qui è entrato il virus, e così al primo piano è stato creato un reparto Covid, tre gli ospiti ricoverati, gli altri dodici in struttura, non vengono ospedalizzati perché gli ospedali non hanno più posti e perché i medici preferiscono lasciare qiu i meno gravi perché almeno c’è assistenza. Senza difficoltà respiratorie non ci si sposta. «È mancata la prevenzione nel Paese, inutile far finta che non sia così. E prevenzione significa tamponi», dice Vechi. «Sai che devi proteggere ospiti e personale e combatti contro il mercato che sta speculando su camici e mascherine. Le case di riposo sono state lasciate a lungo alla fine della lista delle priorità». Il territorio, i medici di base e gli ospizi sono stati sacrificati: «Nelle Marche ci sono settemila anziani nelle residenze come questa. Abbiamo avvertito la Regione: pensateci per tempo o sarà un’ecatombe».
Le strutture continuano a chiedere test per il personale: se si ammalano loro, negli ospizi gli anziani non vengono accuditi e accuditi significa imboccati, lavati, Il personale medico è la famiglia temporanea, nonostante la paura. Sono loro a prendere un iPad, un telefono e far ascoltare a un anziano la voce dei nipoti. «Siamo la continuazione della famiglia, il che oggi significa caricarsi sulle spalle anche la nostalgia», dice Noemi Olivetti, addetta alle forniture. Al volto ha una mascherina con Titti regalata da un amico veterinario. Accanto alla sua scrivania una scatola di cartone: «Anche per oggi abbiamo portato a casa qualcosa», dice: quattro camici da carrozzieri. Il giorno prima erano stati due da verniciatori, «ma bastache prevengano il rischio biologico». Per proteggere il personale e dunque gli ospiti si prende tutto, perché di camici ne servono quaranta al giorno e gli ordini fatti quando era tempo, a febbraio, prevedendo l’arrivo del virus - ottimila euro di mascherine e camici - sono bloccati chissà dove; i nuovi ordini rifiutati, «prendiamo porte in faccia ogni giorno, tutto è destinato agli ospedali», dice Noemi, e si incammina per il corridoio verso la stanza di Adalgisa. Chiama tutti per nome e a tutti consegna una parola di accudimento. Quasi casa, quasi famiglia.
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Adalgisa ha 96 anni, da 27 vive all’Opera Pia, nella stanza ci sono i suoi mobili, le fotografie dei suoi figli, i nipoti, il marito morto. E a terra un telaio. Adalgisa era una sarta, per raccontarsi dice: «Ho fatto sposare mezza Senigallia», In un giorno tagliava undici abiti da sposa, e tante ragazze le bussavano alla porta per imparare il mestiere. Noemi le sposta la sedia, le accarezza il volto. “Ada” sorride sempre, il suo viso si illumina ai ricordi e le parole si fermano sul sospiro della preoccupazione, «ho paura, vivo nel terrore, è una cosa troppo lunga». Ha vissuto la guerra e l’influenza asiatica del 57, ricorda che suo figlio era piccolo e nessuno bussava alla porta in visita, «tutti a letto con l’asiatica». «Ma questa volta è peggio di sempre. Non ho paura della morte. Ho paura di questa solitudine, di non vedere più i miei figli. Di morire così, sola».Poi accende la tv, che recita come ogni giorno la conta dei morti. Noemi le sorride, «Ada che dici? Mi hai visto nascere e sarai qui con noi ancora per tanto» e si commuove, ma Ada non se ne accorge. E Noemi esce dalla stanza, col peso del dovere del lavoro, della paura sua e delle tante Ada. Quasi casa, quasi famiglia.