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Attualità
maggio, 2020

Quanto vale davvero il Partito di Conte (PdC)

Giuseppe Conte
Giuseppe Conte

Debole, ondivago, senza alternative. Incarna una politica che è pura amministrazione e non ha nulla a che fare con valori, ideali. Una navigazione a vista per affrontare la crisi

Giuseppe Conte
«Mica ho capito cosa è che sta ancora impedendo che mi schianti». È la “fase atterr’” di Giuseppe Conte, vista da Makkox in questo numero dell’Espresso. Ripartenza, riapertura, ritorno al lavoro nelle fabbriche e nelle aziende, calo dei contagi e dei decessi, significano anche questo: le manovre politiche che riconquistano le prime pagine dei giornali e le parti iniziali dei talk show, voci di ribaltoni nella maggioranza e di elezioni anticipate. E spaccatura nel governo sul tema sensibile della regolarizzazione dei lavoratori immigrati, con il Movimento 5 Stelle che torna a parlare la stessa lingua della Lega di Matteo Salvini e ripete il suo no a sanatorie e permessi temporanei e il Pd e Italia Viva che si ritrovano dalla stessa parte. Un frastuono di parole a vuoto, dopo il silenzio delle città, mentre le stime della Commissione europea condannano l’Italia a sprofondare al Pil meno 9,5 per cento, il debito pubblico al 160 per cento, il deficit all’11 per cento, la disoccupazione vicina al 12 per cento.

È il bollettino della nuova guerra che dovremo affrontare. Il Paese arriva all’appuntamento stremato da due mesi di chiusura e di isolamento, affrontati con spirito civico e senso di responsabilità, e si ritrova in mezzo a un dibattito politico lunare. Per esempio, quello animato in questi giorni dalla pubblicazione di un manifesto firmato da decine di giuristi, politologi, economisti, giornalisti, intitolato “Basta con gli agguati”: «retroscena che impazzano», una «narrazione artificiosa e irresponsabile», «l’accanimento che ha raggiunto livelli insopportabili»... Intendevano dire: gli agguati contro il governo.

Così il premier Conte, che già di suo si è paragonato più volte a Winston Churchill, sarebbe in realtà una specie di Salvator Allende, Palazzo Chigi il palazzo della Moneda assediato da presunti militari golpisti, mascherati da cronisti di Transatlantico. Al di là della buona fede e delle ottime intenzioni di quasi tutti i firmatari - mai mi sarei aspettato di veder allineati alcuni di loro sotto l’imperativo di non disturbare il manovratore - c’è che questa rappresentazione non ha nulla a che fare con lo scenario politico della primavera 2020. Che vede semmai un Conte inamovibile per mancanza di alternative. Una situazione che dovrebbe preoccupare non tanto le opposizioni sovraniste, che mai hanno avuto a cuore il buon funzionamento delle istituzioni repubblicane, ma molti dei firmatari di questo e di altri appelli analoghi.
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Tra un mese, il primo giugno, il presidente del Consiglio festeggerà due anni di permanenza a Palazzo Chigi, un traguardo che nessuno sarebbe stato disposto a prevedere per lui al momento del giuramento. In questi due anni è successo di tutto, dal crollo del ponte Morandi alla stagione più drammatica del settantennio repubblicano, con trentamila morti e il blocco dell’intero Paese. Conte li ha attraversati con agilità, alla guida di due governi e di due maggioranze diverse, una con la Lega e l’altra con il Pd, con la gestione del potere come unico elemento di continuità, insieme alla smania di esserci dei suoi (ex) sponsor politici del Movimento 5 Stelle. Ed è finito per rappresentare, lui sì, il superamento più limpido della politica così come l’abbiamo conosciuta per decenni.

Incarna una politica che è pura amministrazione, se non addirittura soltanto gestione, che non ha nulla a che fare con valori, ideali, pensieri, una politica che non si conta con il voto ma che è pura comunicazione di sé, indifferente agli schieramenti, sia sul piano interno che internazionale. Parla di questo anche il dubbio degli ultimi tempi sulla collocazione internazionale dell’Italia tra Occidente e Oriente, tra l’antica fedeltà atlantica e la recente attrazione cinese, in parte dovuta a un processo di allontanamento di Washington dall’Europa, che non è imputabile soltanto a Donald Trump, come scrive Antonio Funiciello, in parte all’aggressiva propaganda della Cina in Europa (Federica Bianchi).

Parla di questo anche la divisione all’interno del governo tra ispirazioni diverse su questioni di fondo come la regolarizzazione dei lavoratori immigrati nelle campagne o nel lavoro domestico, ma anche sulla giustizia e sulla lotta alla mafia, al centro di un isterico bisticcio tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo, chiamalo equivoco. È l’effetto di quanto accaduto negli ultimi anni. Con le elezioni del 2018 si è spezzato, o almeno si è fortemente interrotto, il cammino del sistema politico italiano verso il bipolarismo, una compiuta e moderna democrazia dell’alternanza che intanto stava per entrare in crisi nel resto d’Europa con la comparsa in scena dei partiti sovranisti.

Il primo schema che i sovranisti di ogni nazione vogliono frantumare è la dialettica tra destra e sinistra, per poi proporre, sia chiaro, ricette di destra, o addirittura di estrema destra, mascherata da rinnovamento e da rivoluzione. Hanno avuto gioco facile perché la sinistra si era ridotta a pallida epigona dei dogmi liberisti dei decenni precedenti e le formazioni moderate, centriste, liberali erano diventate territorio di scorribande per le destre muscolari, con l’eccezione della Germania. Il governo Conte uno e due nasce in questo contesto, tipicamente populista. Non esistono più le differenze tra destra e sinistra, ci sono gli avvocati ambiziosi, bene educati, dal portamento presentabile, dalle convinzioni pieghevoli, dalle identità mutevoli, un giorno liberale, un altro cattolico e moroteo, un altro ancora populista.

Il refrain degli anni precedenti che accomunava berlusconiani e grillini, «gli ultimi premier non sono stati eletti dal popolo», inaccettabile perché fuori dalla Costituzione italiana, è in ogni caso rientrato nei cassetti. Oggi Conte può pensare di utilizzare il suo essere politicamente incolore per fondare un partito dal governo. Trasformare l’acronimo Pdc, che sta per presidente del Consiglio, in PdC, Partito di Conte. Il PdC, il partito di Conte, può contare in Parlamento su una massa di manovra, i deputati e i senatori smarriti e impauriti del Movimento 5 Stelle (ne parla Susanna Turco), trasformato in una federazione di lobby minori, su alcuni organi di informazione e su un gruppo di giornalisti cani da guardia del palazzo pronti ad azzannare chiunque osi esprimere qualche ragionevole riserva sull’operato del premier, dagli intellettuali per definizione critici che firmano contro il pensiero critico, e nel Paese su un vasto consenso, certificato dai sondaggi, di cui però non si conoscono solidità e tenuta elettorale. I principali sostenitori del PdC, però, sono i suoi oppositori: finché ci saranno Matteo Salvini e Giorgia Meloni a strepitare dietro le loro mascherine abbrunate Conte può stare tranquillo. E puntare a tramutare il suo governo in un progetto politico, che per ora non si è visto.

C’è un altro modo, più laico e più disincantato, di sostenere Conte. Ritenere che anche questo governo, come i precedenti, sia uno strumento e non un fine. E chiedersi se sia lo strumento migliore in questo momento, o almeno migliore di altri. Credo che sia questo il pensiero di tanti cittadini progressisti, democratici, liberal, di sinistra. Se vedi alcuni ministri, per esempio quello del Sud Peppe Provenzano, ti viene da pensare di sì. Se devi giudicarne altri, il ministro della Giustizia o della Scuola, ti viene voglia di ritornare di corsa in isolamento in casa, e senza neppure il rischio di sentire i decibel di alcuni componenti del governo che urlano in televisione.

In mezzo a questi due estremi, c’è la possibilità di sfruttare questo tempo sospeso per un radicale cambiamento di rotta rispetto al passato, come scrivono, da punti di vista diversi, Massimo Cacciari e Fabrizio Barca e Andrea Morniroli. L’ambiente. Il lavoro. La ricerca. La presenza dello Stato nella ripresa dell’economia, il cuore del ragionamento di Romano Prodi (Il Messaggero, 3 maggio). Il ruolo dell’Italia nella nuova Europa (ne scrive Guido Crainz) e dell’Europa nel nuovo scenario internazionale condizionato dalla sfida Usa-Cina nell’anno elettorale americano. Raccontiamo qui con le nostre inchieste i due volti della sanità lombarda: i lottizzati della Lega e di Forza Italia (inchiesta di Paolo Biondani e Andrea Tornago) e la prima linea in campo, con i racconti degli anestesisti (ne scrive Francesca Sironi). E il caos delle regioni (ne scrive Gianfrancesco Turano) e le prime avvisaglie di un business sulle mascherine di Stato (l’inchiesta di Vittorio Malagutti). Oltre alle infrastrutture materiali, urgentissime, e a quelle informatiche, bisognerà ricostruire quelle infrastrutture immateriali che tengono unito il Paese: l’insieme di associazioni, reti civiche, terzo settore, rappresentanze di categoria, comitati di quartiere che sono rimasti chiusi per quarantena. Tra queste infrastrutture ci sono (c’erano?) i partiti, sbarrati e silenziosi in questi mesi, abbandonati agli arguti uffici di comunicazione che scambiano la politica con un meme su internet. E ci sono i giornali, di carta o sul digitale, che hanno raccontato la tragedia più oscura e oggi la possibilità di una ricostruzione.

Per questo dedichiamo la copertina al reportage di Francesca Mannocchi tra le donne italiane: dal Nord al Sud, da Bergamo a Palermo, storie di resistenza, nel Paese che non ama le donne, le tiene lontane dalle sue classi dirigenti, le ignora nei suoi provvedimenti, di emergenza o di ripartenza che siano. «Ho registrato una maggiore reattività al cambiamento nell’ambiente militare che in quello politico», ha detto in un’intervista la senatrice del Pd Roberta Pinotti, la prima a occupare l’incarico di ministra della Difesa. Con grave responsabilità delle formazioni di sinistra che hanno la ragione sociale dell’uguaglianza e del progresso. In ogni angolo d’Italia c’è una donna temuta o ostacolata da un primario, da un dirigente scolastico, da un sindaco, costretta a lasciare il lavoro per tornare a casa per il lavoro di cura familiare, come dimostrano tra gli altri i dati della Rete Urbana delle Rappresentanze. Eppure non c’è Ripartenza senza il protagonismo delle donne che significa prima di tutto ridistribuire il potere. È il primo indicatore dell’arretratezza del Paese e della sua classe politica. O della sua rinascita possibile.

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