«Mio fratello mi ha accoltellato alla gola. Perché sono gay»
Una testimonianza di discesa all'inferno. Una delle tante, raccolte nel libro "Caccia all'omo" di Simone Alliva. Un viaggio nel paese dell'omofobia nato da un'inchiesta dell'Espresso. Eccone uno stralcio
Il capitolo Caino e Abele che pubblichiamo è tratto dal libro "Caccia all'omo, viaggio nel paese dell'omofobia" di Simone Alliva, in uscita per Fandango
Mentre attraverso le vite di queste persone, di questi ?gli e di queste ?glie che minaccerebbero la famiglia tradizionale e dalla stessa poi vengono messi alla porta, penso al concetto di famiglia. Cerco la voce “famiglia” sulla Treccani: “In senso ampio, comunità umana, diversamente caratterizzata nelle varie situazioni storiche e geogra?che, ma in genere formata da persone legate fra loro da un rapporto di convivenza, di parentela, di a?nità, che costituisce l’elemento fondamentale di ogni società, essendo essa ?nalizzata, nei suoi processi e nelle sue relazioni, alla perpetuazione della specie mediante la riproduzione”.
La famiglia è un concetto culturale, ma ci appare naturale perché la cultura per l’essere umano è come una seconda natura, una specie di seconda pelle. Ma in quale famiglia che sia degna di questo nome gli stessi ?gli, senza aver fatto nulla per meritarlo, sono visti uno come Caino e l’altro come Abele?
Il con?itto che esplode in famiglia mette a rischio l’esistenza. Questo può accadere durante qualsiasi stagione della vita, come sa bene Eugenio: “Sono stato un omosessuale sereno per 50 anni. Poi è morta mia madre. Mio fratello e mio padre si sono presi qualcosa che non so neanche nominare. Forse la mia serenità”. Eugenio è un ex insegnante di religione, diabetico e a?etto da un’ipovisione grave è costretto a lasciare il lavoro, percepisce una pensione misera. Dal 2014 ha vissuto sotto lo stesso tetto della madre e del padre, un appartamento in un piccolo borgo di appena settemila abitanti nel profondo Veneto. Il fratello poco più piccolo di lui come dirimpettaio.
Nel 2016 la sua vita cambia per sempre. È la morte della madre a far precipitare Eugenio dentro un incubo esasperato ed esasperante, angoscioso e cattivo: “Lo rivivo come un ?lm”, dice. La vita di Eugenio è una vita di studio e fatica: “Ho studiato in Vaticano a 16 anni, poi in Umbria. Mi mantenevo con le borse di studio. Ho fatto il militare a Napoli e ho insegnato per 18 anni. Una vita tranquilla, non c’è nulla di eccezionale in me. Ho amato gli uomini, ho vissuto tranquillamente le mie storie in un tempo che era molto diverso da questo. Ho sempre portato avanti, anche se sottotraccia lo ammetto ma erano altri tempi, le battaglie per i diritti gay. Il diritto alla salute per esempio: facevo volontariato per la chiesa, nella casa alloggio della città assistevo i primi malati di Aids. Erano i primi anni Novanta. Ricordo le malelingue, i consigli di chi diceva ‘lascia perdere’, cosa mi importava, avevano bisogno di aiuto. Erano delle persone, solo questo”. Cinquant’anni di vita e mai un pugno, uno schia?o,un insulto.
“La prima esperienza di discriminazione l’ho fatta all’interno delle mura di casa”, racconta. Eugenio ha un linguaggio preciso e sicuro da professore. Parla a lungo, senza sosta e con tale determinazione che non sempre riesco a interromperlo, solo quando riprende ?ato. Fare domande comunque non servirebbe. Tutto il suo racconto ha già le risposte. Come se avesse aspettato mesi per declamarlo ad alta voce. “Il giorno dopo che mandammo mia madre al forno crematorio, mio fratello che viveva al piano di sopra al nostro, era sparito. Mio padre faceva da tramite. Cercavo di informarmi sui miei diritti successori ma niente, mio padre non faceva che minacciarmi di mandarmi fuori di casa dandomi del brutto stronzo, mantenuto, nulla facente.” Forse era il dolore, pensava Eugenio. Quello della perdita della moglie. Ma il fratello? “C’era qualcosa che non andava, ma non capivo cosa.” La vita scorre dentro quella casa dove l’assenza della madre rivela uno sfondamento degli argini che avevano ?no ad allora protetto Eugenio: “Negli ultimi anni non partecipavo più alle riunioni di famiglia, alle feste comandate con i parenti. Era stata una scelta presa in accordo con mia madre. Mi sentivo un intruso. Mia madre sapeva di me, naturalmente, sapeva tutto della mia vita sin dal lontano 1988. E chissà, forse faceva da argine. Manteneva un equilibrio che poi si è rotto nel giro di 24 ore”.
Il primo scontro ?sico con il fratello avviene nel mese di ottobre. Eugenio è sul balcone di casa che fuma un sigaro, viene raggiunto dal fratello che lo spintona contro il muro facendolo cadere contro il pavimento, mentre lo trascina dentro sbatte la testa. Perde conoscenza e viene lasciato lì. “Si è limitato a chiamare il 118, almeno quello.” Dalle carte del Pronto Soccorso si legge “trauma cranico non commotivo” ferite guaribili in 18 giorni. Non querela. Vuole ancora capire il silenzio e la violenza che lo circondano. “Io non so neanche reagire alla violenza, non l’ho mai fatto.” Poche settimane dopo il fratello gli parla, per minacciarlo. Il fratello detiene legalmente cinque pistole. La vita di Eugenio continua così e alle aggressioni del fratello si aggiungono quelle del padre: uno spintone contro il muro gli causa la lesione della spalla “in corrispondenza del margine superiore del glenoide”, dopo che Eugenio rientra a casa con indosso il tutore, viene nuovamente aggredito. Eugenio tenta di chiamare i carabinieri. È il 13 febbraio, “contusione della regione della spalla”. Sono tutte lesioni non procedibili per tardiva querela. Denunciare la propria famiglia o aspettare che quell’incubo si plachi, si trasformi in dialogo? Il giorno dopo però Eugenio decide di andarsene per far posare la rabbia del padre e del fratello. E pensare al da farsi. “Decido di partire alle 10 di mattina. La situazione era ingestibile. La prossima volta mi faranno male sul serio, penso. Per cinque giorni se ne va a Venezia da un amico che gli dice chiaramente: non puoi tornare lì, ti ammazzeranno.” Ma le alternative non ci sono. Rientra a casa. Piccoli dispetti: il frigorifero svuotato e rotto, i riscaldamenti manomessi. “Il freddo, ricordo il freddo di quei giorni dentro ma anche fuori.” Poi l’escalation raggiunge un punto che segna il non ritorno: Eugenio è sul letto della sua camera. Improvvisamente un fracasso, la porta che viene sfondata dal fratello con una spallata, poi è un attimo: “Ricordo mio fratello che mi stringe il collo e vuole strangolarmi. Un pugno nell’occhio sinistro e poi quelle frasi oscene, ‘te goti adesso brutto frocio”. Eugenio perde conoscenza, si risveglia con l’intervento dei carabinieri (“Forse li ho chiamati io, non ricordo neanche”) ma non placano il fratello che inizia a sfasciare la stanza, tirar loro addosso cinque quadri: “Quello che non ?nisco oggi posso ?nirlo domani”. La solidarietà non esiste.
“All’interno della mia famiglia tutti sapevano. Ma io ero la mela marcia, loro la famiglia. Quelli normali.” Dopo l’ultima aggressione si rivolge alla barista del paese. Una donna di 40 anni. “Non che fossimo amici, ma non sapevo chi chiamare in quel momento. Il Pronto Soccorso non mi lasciava andare senza qualcuno che venisse a prendermi. Ero fuori casa, in pigiama e dolorante dalle botte. Non ha esitato e quella sera mi fece dormire a casa del suo ?danzato. La solidarietà è arrivata da persone che non mi aspettavo.” È folle questa famiglia che aggredisce senza sosta, che soffoca, vuole eliminare il proprio ?glio, il proprio fratello. Così folle che all’inizio non ci si crede, rileggiamo insieme gli atti della procura, percorriamo a ritroso quei giorni “sereni” che non lasciavano presagire l’incubo. Adesso Eugenio recupera la serenità a Torino, nella struttura di To-Housing che accoglie le persone Lgbt in condizioni di estrema vulnerabilità.
“Ho recuperato la luce negli occhi” dice. “Anche nei momenti più disperati ho sempre trovato la forza di andare avanti nei miei ricordi, nella mia vita serena. No, non mi guardi così, so cosa sta pensando: ‘Ha attraversato l’inferno e parla di vita serena’. Le sembrerà strano ma è così. Forse mio padre e mio fratello pensavano che mi sarei suicidato, che non avrei retto a tutti quei soprusi, quelle cattiverie ma vede: io amo la mia vita. La mia vita è. Dopo una curva ci deve essere sempre, per forza, qualcosa di dritto. Noi montanari dopo la curva dobbiamo per forza trovare qualcosa. La cerchiamo a tutti i costi, facciamo molta attenzione, siamo cauti nel percorso. Se non lo sei, cadi nel burrone”. Forse è la fede che tiene in vita? “La fede non è la scelta migliore per risolvere i propri problemi, sono arrivato a 50 anni e ho fatto una vita serena tranquilla e bella. C’è so?erenza. Rimane. Ma io so quanto può essere bella la vita. Voglio viverla per quello che mi resta. Pienamente.”
Ascoltai Eugenio senza replicare. Dopo tutto ero lì per intervistarlo, non dargli consigli. Alla ?ne dell’incontro avevo l’intervista in tasca. Tornai a Roma con la promessa che ci saremmo aggiornati per il processo il giorno dopo. Verso l’una di notte squillò il cellulare, era un messaggio di Eugenio: “Scusa per l’ora. Oggi pomeriggio sono stato accoltellato alla gola da mio fratello, io sto meglio mentre lui è stato portato nel carcere di Trento. ’notte Eugenio”.