
Un successo dopo l’altro nelle elezioni regionali e poi in quelle europee, a quarant’anni dalla loro fondazione, sono diventati la stella polare europea di un’ideologia che la modernità sembrava avere soffocato ma di cui oggi non può fare a meno. Sono loro, fino al 2017 il più piccolo partito del Bundestag e oggi seconda forza politica tedesca pronta a sostituire i socialisti nella coalizione di governo con le elezioni dell’anno prossimo, il modello da emulare nel resto del Vecchio Continente.
Ma il volto e l’atteggiamento moderato di entrambi ha poco in comune con i loro predecessori hippie, digiuni di economia, anti-establishment, per la pace del mondo e contro l’energia nucleare. Di radicale resta il concetto della rivoluzione del sistema: il percorso per arrivarvi è però intriso di realismo e pragmatismo. «I Verdi che sono solo pro o solo contro il sistema non raggiungeranno mai il 20 per cento», sentenzia Philippe Lamberts, co-leader dei Verdi europei. Ed è quella la percentuale che serve per contare adesso che, dopo un anno di successi elettorali in mezza Europa, è arrivato il momento della prova di governo. «La frammentazione dei partiti politici europei a cui stiamo assistendo aiuta tutti i partiti pronti alla sfida, e in particolare i Verdi», dice Sara Hobolt, professoressa di politica europea alla London School of Economics: «Questo è un momento di una potenziale trasformazione del sistema politico europeo».
Finita l’epoca dei Verdi tutti lotta, cannabis e arcobaleno, la svolta pragmatica e moderata tedesca ha di fatto marcato in Europa l’apertura a compromessi e coalizioni tanto diverse quante sono le espressioni ecologiste dei territori. «In comune i Verdi di tutta Europa hanno la protezione dell’ambiente, il rapporto con la natura e la lotta ai cambiamenti climatici», spiega Pascal Delwit, professore di Scienze politiche alla ULB di Bruxelles: «Le differenze importanti sono invece sulle questioni economiche e sociali, e sulle scelte degli alleati politici, dentro e fuori il governo». Ed è lungo questi crinali che si sono moltiplicate, negli ultimi mesi soprattutto, le tante sfumature ideologiche di Verde che stanno ridipingendo l’arco ideologico, dall’estrema sinistra al centrodestra.
Come per il resto della politica europea, anche l’asse portante dell’identità verde è dettata da Germania e Francia, i cui partiti verdi hanno sia conquistato rispettivamente 25 e 13 seggi alle elezioni europee sia trionfato localmente. E adesso guardano con fiducia e ambizione alle elezioni nazionali del 2021 in Germania e del 2022 in Francia.
In entrambi i Paesi l’opportunità di crescita elettorale è stata offerta dalla crisi dei rispettivi partiti di sinistra. In Germania, anni di “grande coalizione” con il centro destra di Angela Merkel, fiscalmente intransigente non solo a Bruxelles ma anche verso i suoi concittadini, e per molto tempo anche verso gli immigrati, hanno indebolito i socialisti nelle urne, soprattutto tra i più giovani, aprendo lo spazio a una nuova forza di sinistra con un profilo di governo e non di lotta (come la Linke). A Parigi invece è stato il presidente Emmanuele Macron ad approfittare delle indecisioni ideologiche della sinistra di François Hollande per decretarne la morte con la creazione di un soggetto ibrido come En Marche. Poi, con il progressivo spostamento a destra del partito presidenziale e lo smembramento dei socialisti a seguito della sconfitta, si è aperto lo spazio per un partito capace di coniugare istanze marcatamente di sinistra con pulsioni nuove, come quelle ambientali.
Ma il concetto di Verde a Berlino non è lo stesso che a Parigi: Bruxelles è spesso camera di compensazione di posizioni diverse. I tedeschi hanno una visione liberale del commercio e dell’economia, e hanno preso a sedurre il potente mondo imprenditoriale teutonico per convincerlo che la transizione ecologica può avvenire anche nel suo interesse, un compromesso e una soluzione innovativa alla volta. Non hanno paura della tecnologia che coniugano con ecologia, e vedono con favore il 5G come chiave della futura società digitale. Sono favorevoli al libero scambio, a cui chiedono non di arretrare ma di rispettare diritti umani, tutele sociali e salvaguardia ambientale. Dunque sì al Ceta, il trattato di libero scambio con il Canada, seppur con riserva, e no al Mercosur, che beneficia i dittatori e fa male alla Terra. Di contro non sono disposti a compromessi sui valori della democrazia e dei diritti umani.
Oltreconfine, i colleghi del carismatico europarlamentare Yannick Jadot e del sindaco di Grenoble Eric Piolle, entrambi candidati alle primarie interne per le presidenziali del 2022, hanno come linee guida la giustizia sociale e il contrasto degli oligopoli, in una rielaborazione moderna della vecchia lotta di classe che contrappone il proletariato ecologico alle élites economiche, responsabili dell’inquinamento e del degrado del territorio, dai magazzini-mostro delle multinazionali all’alta velocità della Tav. La nuova tecnologia del 5G poi è vista con timore, in ragione del principio di precauzione che deve guidare ogni scelta economica. «Le differenze con i verdi francesi sono di grado, non di principio», dice la neoeuroparlamentare verde Alexandra Geese, che fa un esempio: «I francesi vorrebbero la rilocalizzazione della produzione industriale in Europa mentre a noi tedeschi basterebbe rimpatriare settori chiave come il farmaceutico e l’agricoltura».
Queste due gradazioni di verde sono quelle che guidano anche gli altri partiti ecologisti d’Europa: il Sud guarda con ammirazione e tanta invidia alla Francia, il resto del continente studia soprattutto le mosse tedesche. Con alcune differenze regionali. Nel Nord, e dunque in Finlandia, Svezia, Danimarca e Gran Bretagna, le battaglie verdi ruotano intorno alla protezione ambientale e alla lotta contro i cambiamenti climatici, non a caso Greta Thunberg è svedese, mentre in Europa centrale, ovvero in Olanda, Belgio, Lussemburgo e anche in Austria, le preoccupazioni per l’ecosistema coesistono con l’attenzione alle questioni sociali e ai diritti civili. Nell’ultra-liberale Olanda il partito verde dei Groenlinks, la cui traduzione letterale “Verdisocialisti” non lascia spazio a fraintendimenti, è da sempre sostenitore dell’uguaglianza delle donne, paladino della liberazione delle droghe leggere e ha una visione molto progressista della scuola, che considera un centro di apprendimento e non di indottrinamento. «Più in generale in tutta l’Europa centrale il credo verde è universalista e inclusivo di ogni forma di diversità, contrapponendosi alla visione chiusa e etnocentrica dei partiti di destra e di estrema destra», dice Delwit.
L’inclusività non è invece un tratto dei Verdi delle recenti democrazie dell’Europa dell’Est, il cui cuore batte molto meno a sinistra, e che sono più concentrati sulle questioni ambientali. Che però, a differenza che nel Nord, non sono considerate urgenti e funzionali al miglioramento della quotidianità dai cittadini, e dunque i risultati elettorali scarseggiano. L’eccezione, non nei risultati ma nelle battaglie, è il piccolo partito verde e conservatore fondato nel 2008 in Ungheria dall’ex socialista András Schiffer che, al motto di “una politica diversa”, ha avuto fin dall’inizio l’obiettivo dell’opposizione al premier autoritario Viktor Orbán. E ora, con il nuovo leader Gergely Karácsony, in preparazione alle elezioni presidenziali del 2022, sta tessendo un’alleanza con i socialisti liberali di Párbeszéd (partito nato da una previa scissione) e i socialisti.
A condividere le flebili fortune dei colleghi dell’Europa dell’Est sono i Verdi del Sud Europa, il famoso Club Med, da almeno una decade ventre molle delle ambizioni politiche del Gruppo dei Verdi europei, nonostante i ripetuti tentativi di rinascita quando non di rianimazione. D’altronde la mappa elettorale è disarmante. Gli ecologisti collezionano successi soprattutto nei Paesi ricchi, in cui il Pil è alto e le disuguaglianze sociali basse, in particolare nelle città, soprattutto se universitarie. «Lo hanno dimostrato nuovamente le recenti elezioni comunali francesi in cui i Verdi hanno vinto nelle città universitarie di Lione, Marsiglia e Bordeaux», dice Delwit, che ci tiene a sottolineare come infatti in Italia Milano e Bologna siano già terreni fertili per costruzioni politiche verdi.
Nell’Europa meridionale, dove i bisogni della popolazione vertono soprattutto su casa e lavoro e, più in generale, su tutte le questioni strettamente materiali, e dove la concezione della famiglia è ancora tradizionale e la parità uomo-donna più retorica che realtà, i Verdi non hanno il lusso dei temi liberali e inclusivi dell’Europa centrale ma sono schiacciati sui temi dei partiti di sinistra, dalla riduzione delle disparità alla tutela dei più deboli. Non solo. Sulle sponde del Mediterraneo, a sinistra raramente si crea un vuoto politico. Al contrario, con l’eccezione dell’Italia in cui il movimento dei 5Stelle ha sparigliato gli schemi, la frattura tra destra e sinistra è marcata e lascia poco spazio a nuovi partiti, seppure innovatori e ideologicamente flessibili. I Verdi greci finiscono così per essere eclissati da Syriza mentre in Spagna Podemos è diventato portatore di tante istanze ecologiche, sia sociali sia ambientali.
Più che a sinistra - ed è una novità per la politica europea - è nelle coalizioni di governo con partiti di destra che i Verdi sono recentemente riusciti a trovare spazio e visibilità, seppur dovendo pagare il prezzo di compromessi difficili. In Austria sono entrati al governo con la destra di Sebastian Kurz, sostituendo i vecchi partner dell’estrema destra (Fpö). In cambio della non ingerenza nella politica immigratoria, Leonore Gewessler, dirigente politica molto conosciuta a Bruxelles per l’abilità diplomatica, ha ottenuto un super ministero Verde che spazia dall’ambiente all’energia, dai trasporti all’innovazione. In Irlanda, dopo avere ottenuto nelle elezioni nazionali di febbraio il loro miglior risultato di sempre, hanno appena siglato l’accordo di governo in cui sostengono la coalizione tra i due partiti di destra Fianna Fail e Fine Gael, storicamente rivali, contro la sinistra del Sinn Féin, che pur aveva vinto il voto popolare. In cambio i Verdi hanno ottenuto la riduzione annuale delle emissioni di carbonio del 7 per cento fino al 2030, un aumento della carbon tax, il potenziamento del trasporto pubblico e nuove infrastrutture sia per le biciclette che per i pedoni.
Non tutti vedono con favore le alleanze con la destra. L’accusa è quella di farsi strumentalizzare da partiti che vogliono nascondere fallite politiche di austerità con una verniciata di verde. Altri invece intravedono opportunità. «È un rischio che hanno deciso di correre», sostiene Paul Schmidt del think tank austriaco Tepsa: «Stando al governo hanno la possibilità di cambiare davvero le cose. Se sapranno farlo». Mentre cresce l’interesse per questi inediti esperimenti di governo, gli occhi rimangono puntati su Berlino e Parigi. Solo quando i Verdi riusciranno a entrare nella stanza dei bottoni di almeno una delle due capitali, la transizione ambientale e sostenibile europea potrà dirsi acquisita.