Scuola, alla ricerca del tempo perduto. Per arginare il disastro
Molti ragazzi abbandonano. Troppi non imparano anche se frequentano. Situazioni gravi che la chiusura per il Covid ha ancora peggiorato. E la risposta viene dal basso: presidi, docenti, volontari lavorano a iniziative per recuperare tutto quello che si è perso
Angelo Lucio Rossi è al telefono dalle sette di mattina. Prima gli educatori, poi i rappresentanti del consiglio docenti, quindi i genitori, i volontari, l’ufficio scolastico, la responsabile di Save the Children, i referenti alla fondazione Milan, il signore della Kia Motors, il dirigente di Naturasì, quello del Banco Alimentare, e via di seguito. Perché dal primo settembre vuole trasformare l’intera scuola che dirige, per alcune settimane, in un villaggio sportivo aperto a tutti i bambini del quartiere. «Dobbiamo ripartire dall’educazione informale, prima di inchiodare ai banchi ragazzi che da sei mesi non vedono una lavagna», spiega: «Sto immaginando uno spazio flessibile, aperto ogni mattina, che proponga attività sportive e motorie in un contesto educativo. È un antidoto. Per rimettere in azione gli studenti, sia quelli che sono già motivati sia chi rischia di allontanarsi dai libri».
Rossi è il preside dell’istituto comprensivo Alda Merini, che ha classi dall’infanzia alle medie dall’altro lato della tangenziale rispetto a Quarto Oggiaro, periferia di Milano. Da circa otto anni Rossi porta avanti un piano ambizioso per aprire la scuola alla comunità e al quartiere, tenendo aperte le strutture dalla mattina alle undici di sera, coinvolgendo tutti gli attori possibili presenti nel territorio, dalla banda degli Ottoni alle associazioni di volontariato, alle imprese-sponsor. Tutto, per fermare la dispersione scolastica e proporre un nuovo modello di partecipazione. «Il punto non è l’emergenza ma l’ordinario, la capacità di andare incontro al bisogno dei ragazzi e non viceversa; questa volontà però implica delle scelte», racconta: «Abbiamo deciso che questa scuola fosse aperta fino alla sera tardi per restituire la scuola alla comunità. Non è quello che dice la Costituzione? La scuola aperta deve servire per chi fa fatica come per i talenti. L’istituzione non può essere solo recupero o eccellenza. Deve saper fare crescere tutti».
L’abbandono scolastico è e sarà un problema sempre più forte. I contraccolpi del Covid sulla formazione diventeranno presto evidenti in una delle conseguenze più ostili: il vuoto di futuro per i più giovani. Dopo un semestre di istruzione a distanza, dove la didattica online è passata di fianco a 2 studenti su 10 senza essere vista nemmeno da lontano, appunto, e per altri è stata spesso solo un surrogato dell’esperienza educativa, ricominciare sarà un’impresa difficile, soprattutto per chi questi mesi li ha trascorsi in un contesto economicamente e socialmente fragile.
«La cosa più importante è mettere a fuoco il centro della questione, come sempre. E il centro sono i ragazzi. Non è “recuperare il semestre perso”, ma riattivare la motivazione, il desiderio», riflette Federico Batini, professore dell’università di Perugia che per il suo dipartimento sta dirigendo un progetto sperimentale con la Regione Toscana intitolato “Leggere: forte!”: «La distanza si è acuita, durante il lockdown. Chi era chiuso in una ambiente culturalmente povero ha sicuramente perso di più. Socialmente hanno perso tutti. Ora, di fronte a queste ferite, partire dal programma è l’approccio sbagliato. L’essenziale è capire che ora più che mai sono i ragazzi, e non i fenici o il teorema di Pitagora, il punto di partenza. Gli apprendimenti senza le persone cadono nel vuoto, come dimostra il problema enorme in Italia di quella che Save the Children definisce “dispersione implicita”: ovvero il percorso dei ragazzi che stanno a scuola ma non riescono ad approfittare dell’esperienza formativa. Arrivando così a diventare adulti con un titolo, sì, ma senza le competenze di base per comprendere un testo, essere cittadini, come mostrano le indagini sull’alfabetizzazione degli adulti».
Una delle strategie che Batini sostiene e porta avanti da anni per rinsaldare quei semi che altrimenti slittano verso l’indifferenza e la chiusura è la lettura ad alta voce. «Con “Leggere: forte!” abbiamo coinvolto ad oggi circa 1600 bambini di 80 sezioni di nido, e abbiamo potuto dimostrare, attraverso il confronto con dei gruppi di controllo, l’enorme potenziale equitativo della lettura ad alta voce: ovvero il fatto che migliora gli strumenti di tutti, sia di chi parte da un livello alto di capacità sia di chi parte da zero». In alcune province la sperimentazione è già arrivata anche agli adolescenti. «L’altro giorno una collega che sta leggendo Lansdale in un istituto professionale mi ha raccontato che un ragazzo a un certo punto l’ha interrotta e le ha detto: «Prof, scusi, ma in questi libri prendono la vita di noi ragazzi e la mettono dentro?». Significa sentirsi rappresentati, provare l’emozione che potrà farti tornare a leggere e imparare», racconta. «Ma al di là delle soluzioni che si possono portare, dallo sport alla lettura, la questione fondamentale resta la riattivazione della motivazione, prima di tutto.».
Dopo mesi di stasi, di paura, e di isolamento, il dibattito sulla riapertura a settembre delle scuole dovrebbe insomma andare oltre i banchi con le rotelle o il plexiglass. Pur nelle incertezze sul virus, dovrebbe concentrarsi su come far sì che l’istruzione possa rimanere fedele a quella missione per cui Charles Péguy nel Denaro ringraziava ancora il sistema pubblico che aveva portato in uno sperduto paese di provincia un maestro elementare capace di farlo crescere. «La mia preoccupazione principale oggi è sulla perdita di apprendimento, più che sulla dispersione in sé», riflette Andrea Gavosto, economista e direttore della fondazione Agnelli: «L’Annenberg institute dell’americana Brown University ha pubblicato il primo studio solido sul tema. Mostrando proiezioni oggettivamente preoccupanti. Gli autori parlano di competenze ridotte del cinquanta per cento in matematica, rispetto alla frequentazione “normale”, e del 35 per cento in lettura. Iniziano ad esserci anche le prime stime economiche, su cosa significa questo buco formativo in termini di capitale umano che evapora: per l’Italia la prospettiva è di perdere nel prossimo futuro il dieci per cento del Pil. Il vuoto didattico di questi mesi è una zavorra che un’intera generazione rischia di portarsi dietro per tutta la vita». Anche Gavosto insiste sul fatto che il problema non è più solo la “dispersione tradizionale”, ovvero l’abbandono dei ragazzi prima di arrivare al diploma - che tra l’altro, spiega, riguarda sempre più le ragazze, e non solo i maschi come si registrava un tempo; quanto la dispersione implicita, ovvero l’attraversamento muto di anni di scuola. «A preoccuparmi è quel trenta per cento di ragazzi che arrivano in terza media, a livello nazionale, e che non sanno capire un testo elementare. Non si tratta di saper leggere Dante, ma di avere la possibilità di esercitare la propria cittadinanza; al Sud si arriva al 50 per cento. È questo il fallimento che mi preoccupa di più. Cosa hanno imparato a scuola quei futuri adulti? Il mancato raggiungimento di quella soglia minima è il dramma da cui dovremmo ripartire». A questo vuoto si è aggiunta l’emergenza Covid. Di fronte alla quale, pur nello sforzo di attivare una presenza didattica a distanza, la scuola ha mantenuto il calendario standard. Il ministero non ha ritenuto di dover imporre misure straordinarie in un momento tanto eccezionale. «Così a settembre la parte organizzativa sarà immutata», commenta Gavosto: «comprese le possibili richieste di trasferimenti, la ricerca di supplenti. I ragazzi non vedono il loro insegnante da febbraio. E ora rischiano di tornare a settembre e trovarsene un altro. Andrà così per il 25/30 per cento delle classi. Non andava resa obbligatoria almeno per quest’anno la continuità educativa?» La confusione burocratica standard della ripartenza, insomma, quel bailamme che porta i presidi a definire gli organici spesso solo ad ottobre inoltrato, si sommerà così alla gestione delle procedure Covid. In un momento particolarmente importante, il primo passo in classe dopo una stagione lunga di paura del contagio, lontani dai libri e dalla presenza dei professori. «Ci siamo interrogati fin da subito su come dare uno risposa a questa nuova emergenza», racconta Camilla Bianchi, responsabile di Arcipelago educativo per Save the Children: «Siamo partiti dalla volontà di mettere insieme delle isole, appunto, le isole separate che erano i bambini durante il lockdown. Abbiamo iniziato da otto centri dove già portavamo avanti attività contro la dispersione, scolastica a Milano (nella scuola Merini), Marghera, Torino, Aprilia, Bari e Napoli, portando degli “spazi futuro”, ovvero dei gazebo dove poter trascorrere delle ore insieme lavorando sulle esperienze, la socialità e l’apprendimento; a questa attività “in presenza” è affiancata una parte online. Per la quale abbiamo ricevuto una risposta straordinaria sul fronte dei volontari, tantissimi, giovani laureati di Torino o che vivono all’estero che si mettono in contatto ogni giorno con ragazzi più piccoli che sono lontani. Ci siamo resi conto che c’è una zona grigia di studenti e famiglie che oggi ha bisogno di molto più supporto. I tutor individuali, anche a distanza, possono fare molto».
Angelo Lucio Rossi, il preside dell’Istituto Merini, ora sta controllando la posta. Quando è iniziato il lockdown ha invitato tutti gli studenti (più di mille) che frequentano la scuola, a condividere con lui le loro riflessioni. «Ricevo circa quaranta mail al giorno. E non posso certo rispondere di fretta. È un lavoro, ma sono felice. Condivido con i ragazzi le stesse domande». Il suo modello di scuola aperta è faticoso, ma necessario, spiega. «Mi vergogno della mia condizione di adulto che ha fatto più convegni che altro. Per questo ho deciso di rimettere insieme i pezzi del quartiere dove abito e lavoro. Lo dobbiamo ai ragazzi, alla comunità».
Non chiedetegli come fa a tenere aperto l’istituto pomeriggio, come trova i soldi per i custodi, gli assistenti, per gli straordinari dei bidelli. Perché si arrabbia e aumenta l’inflessione abruzzese nella voce. «Bisogna dare le chiavi», risponde. «Ogni associazione qui si prende una responsabilità. Entra in un patto educativo territoriale che mette in chiaro chi fa cosa. Solo così la scuola può rimanere aperta dalla mattina alla sera. Ognuno deve esercitare la propria responsabilità nella fiducia che li è accordata dal consiglio d’istituto. Io non distinguo fra attività curricolari e non. Il centro sono i ragazzi. Ogni aderente al patto deve mettersi in un ottica di collaborazione, uscire dall’autoreferenzialità. Abbiamo Naturasì? Allora facciamo gli orti, ma perché non pensiamo alle piante anche nella scuola post-covid, sia come divisori che come aule all’aperto per fare più attività possibili fuori dall’aula? Il patto dev’essere dinamico, si deve adattare alle esigenze. Kia Mortors, l’azienda, è in quartiere? Bene: non devi limitarti a venire due giorni e imbiancare dei muri. Ma darci una mano con gli spazi all’esterno».
E poi la musica. «La musica è importantissima qui. Non perché “è strano”. Ma perché dà risultati straordinari, nel coinvolgimento e nella partecipazione dei ragazzi. Quando è partita la banda era solo un esperimento. Oggi ha una trentina di musici oltre ai tutor, spesso ex studenti che danno una mano ai più piccoli. Per l’istituto è uno sforzo non indifferente: riusciamo a recuperare solo pochi strumenti l’anno, visto che ci teniamo a che tutti possano portarli a casa per sentirli propri. Ma col passaparola riusciamo a recuperare sempre più offerte. Fra le progettualità di settembre c’è anche l’ampliamento del fondo per la musica». La musica è stata anche in passato terreno di conflitto, perché i tutor, giovani della Banda degli Ottoni, portavano gli studenti a fare delle prove in Torchiera, storico centro sociale milanese, autogestito, ora a rischio sgombero nonostante l’attività sociale portata avanti negli anni. Ci furono polemiche, racconta il preside. Nello stesso territorio c’è la sede milanese del gruppo di estrema destra “Lealtà Azione”. «Io ho difeso solo una pratica concreta e positiva. Siamo con chi costruisce», racconta il preside: «Non è scontato riuscire a fare un lavoro inclusivo e generativo sulla diversità religiosa, sociale e culturale, in periferia. Noi ci proviamo». Per i ragazzi. Per la loro possibilità di conoscere, e voler conoscere. Sono loro il centro da cui la scuola deve saper ripartire, a settembre.