L'Espresso ha ottenuto i rapporti inediti americani sul periodo in cui in Somalia fu uccisa la giornalista. Si parla di un’azienda molto pericolosa e di trafficanti italiani

Trentadue pagine, dodici documenti classificati “Secret” e “Top Secret”. Report in grado, dopo ventisei anni, di riportarci nelle strade di Mogadiscio poco prima del 20 marzo 1994, la data dell’agguato mortale contro Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Carte oggi declassificate dalla principale agenzia dell’intelligence statunitense, la Cia, dopo una richiesta dell’Espresso in base al Freedom of Information Act (Foia). Un anno e mezzo di istruttoria, una risposta per ora parziale, ma in grado di aggiungere elementi importanti al contesto somalo oggetto dell’ultimo reportage di Ilaria Alpi. Doveva andare in onda la sera di quel 20 marzo, non arrivò mai in Italia, se non per frammenti, filmati incompleti. I report Usa aprono una porta sul mondo che Ilaria seguiva durante il suo ultimo viaggio. Traffici di armi, società della cooperazione italiana, alleanze segrete.

Mogadiscio, 1994. La sconfitta della missione Onu per riappacificare la Somalia era compiuta. È la storia di un fallimento lo scenario che ha visto l’agguato mortale contro Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Roma, 2020. Le indagini per capire chi ha armato il commando di sei uomini sono ancora aperte. Movente, mandanti, esecutori: un foglio bianco.

Mogadiscio era il crocevia di tante storie. Traffico di armi, prima di tutto. Razzi Rpg, Kalashnikov, munizioni di ogni tipo, un flusso inarrestabile che alimentava la guerra tra le due principali fazioni. Ali Mahdi, alleato con le forze Onu. Mohammed Farah Hassan, detto Aidid, il “vittorioso”, a capo delle forze islamiste. Quel mondo Ilaria lo conosceva come pochi suoi colleghi; si era laureata in lingua e cultura araba, con una lunga gavetta, prima di approdare alla Rai, raccontando il nord Africa, spesso in maniera rocambolesca. Delicata e profonda, nelle sue cronache. In grado di capire le sfumature, le alleanze che si nascondevano dietro l’apparenza. La giornalista giusta, per raccontare l’inferno. Un target per chi alimentava il caos.

LA ROTTA DELLE ARMI
Mohammed Aidid era il nemico numero uno della coalizione Onu quando la missione Unosom inizia, con lo spettacolare sbarco dei Marines a Mogadiscio. Almeno in apparenza. Il 3 ottobre del 1993 i Rangers erano sulle sue tracce. Preparano una missione nel cuore di Mogadiscio, un’incursione che doveva durare pochi minuti, giusto il tempo per permettere a reparti speciali di catturare il signore della guerra. Tutto andò storto, i miliziani colpirono uno dei quattro elicotteri Black Hawk, uccidendo 19 soldati americani. Un’azione divenuta famosa con il film di Ridley Scott (“Black Hawk Down”)del 2001, icona cinematografica della sconfitta in Somalia.

Da mesi la Cia era sulle tracce di Aidid, monitorando ogni suo spostamento. L’obiettivo fondamentale, per l’Onu e gli Stati Uniti, era individuarlo, ma anche capire chi finanziasse il capo della fazione islamista e da dove provenissero le armi utilizzate dalle sue milizie. In una nota del 18 settembre 1993, declassificata su richiesta dell’Espresso, gli analisti della Cia scrivono: «L’abilità del signore della guerra nel reperire nuove armi ha senza dubbio contribuito alle recenti indicazioni che Aidid si sente sicuro di vincere contro gli Stati Uniti e le Nazioni Unite». Dal mese di agosto del 1993 gli agenti statunitensi segnalavano un aumento di flussi di armi dirette alla fazione islamista. In realtà la Somalia fin dall’inizio della guerra civile era una vera e propria Santabarbara. Per anni il governo di Siad Barre - stretto alleato dell’Italia - aveva acquistato armi, creando magazzini letali nell’intero paese. L’Italia era stato uno dei principali fornitori, fin dai primi anni ’80. L’ex generale del Sismi Giuseppe Santovito - iscritto alla P2 - in un interrogatorio davanti all’allora giudice istruttore di Trento Carlo Palermo aveva raccontato delle ingenti forniture di armamenti al paese da sempre ritenuto come una e propria estensione geopolitica dell’Italia.

Pochi mesi prima della morte di Ilaria Alpi e Miran Horvatin c’è una accelerazione. Aidid ha l’obiettivo - che ritiene raggiungibile - di far fallire la missione Onu, rimandando a casa i paesi della coalizione. Acquisire armi aveva un doppio scopo, spiegano le note Cia: essere pronti al combattimento, ma soprattutto convincere gli altri signori della guerra ad allearsi con gli islamisti.

L’AIUTO SEGRETO ITALIANO
Il primo ottobre 1993, due giorni prima di Black Hawk Down, a Washington arriva una nota dalla capitale somala: «Le rotte per la fornitura di armamenti, nascondigli e legami operativi delle forze di Aidid». Dal mese di settembre gli Usa avevano iniziato a monitorare le carovane che partivano dal lungo confine con l’Etiopia dirette nell’area di Mogadiscio, dove la situazione era divenuta estremamente critica: «Gli armamenti - che includono mortai e Rpg - sono trasportati lungo le strade che collegano Mogadiscio con Belet Weyne, Tigielo e Afgoi». L’obiettivo era chiaro: «Stanno pianificando di usare i mortai e gli Rpg contro Unosom».

Nella stessa nota la Cia fornisce, per la prima volta, un’indicazione sulla rete logistica di appoggio alla fazione degli islamisti: «I supporter di Aidid stanno utilizzando la società Sitt, che è situata dall’altra parte della strada rispetto al compound Unosom. La società Sitt appartiene a Ahmed Duale “Hef”. (omissis) Commento: questa presenza è una minaccia per il personale Unosom e per chiunque entri nel compound». Duale e Sitt, due nomi da appuntare.

Quando mancano quattro mesi all’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin la situazione a Mogadiscio diventa ancora più critica: «I compratori pro-Aidid stanno acquistando una inusuale grande quantità di munizioni», segnala la Cia in una nota del 23 novembre 1993. Un secondo report, con la stessa data, aggiunge un altro dettaglio: «C’è una consegna di armi e munizioni in una casa nel distretto Halilua’a di Mogadiscio, trasportata da un unico camion di produzione italiana, con sei casse di Ak-47, fucili di assalto Fal, quattro lanciatori di granata russi. L’origine del carico è ignota».

IL DOPPIO GIOCO

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Per l’intelligence Usa, dunque, era la società Sitt lo snodo logistico utilizzato dai supporter di Aidid. «Una minaccia per l’Onu», scrivevano. Il nome era ben noto negli ambienti del contingente italiano. Appena due mesi prima della nota della Cia, la Sitt aveva inviato una serie di fatture per migliaia di dollari al comando Italfor relative alla fornitura di materiale di ogni tipo. Prima del conflitto la stessa società aveva operato come supporto logistico per la cooperazione italiana. A capo di quell’impresa, oltre all’imprenditore somalo Ahmed Duale, citato nella nota Usa, c’era Giancarlo Marocchino, trasportatore originario del Piemonte che operava in Somalia da anni. Fu lui ad intervenire per primo sul luogo dell’attentato mortale contro Alpi e Hrovatin. «Marocchino è stato un collaboratore che ho ritenuto affidabile fino a quando ho trovato le armi nel suo compound diffidandolo ufficialmente», racconta all’Espresso il generale Bruno Loi, a capo del contingente italiano fino al settembre 1993. «Ma per quanto riguarda la nota della Cia - prosegue Loi - mi stupisce che abbiano trovato questa minaccia senza fare nulla per eliminarla; c’è qualcosa che non quadra».

L’INCHIESTA
Sull’agguato del 20 marzo 1994 la Cia sostiene di non avere nessun record in archivio. Eppure l’ultima inchiesta di Ilaria Alpi si intreccia strettamente con quel traffico di armi diretto alla fazione di Aidid. Il 14 marzo 1994 i due reporter di Rai 3 arrivano a Bosaso, nel nord della Somalia. C’era un nome appuntato sul quaderno di Ilaria, la compagnia di pesca italo-somala Shifco. Una nave della società era ferma al largo della costa migiurtina, sequestrata dalle milizie locali. In un appunto del Sismi declassificato nel 2014 dall’allora presidente della Camera Laura Boldrini l’intelligence italiana racconta come quella compagnia, diretta da Said Omar Mugne - imprenditore somalo che aveva vissuto a lungo in Italia - proprio in quei mesi stava preparando il trasporto di un carico di armi «acquistato in Ucraina da tale Osman Ato, cittadino somalo naturalizzato statunitense, per conto del generale Aidid». Sulla Shifco e su Osman Ato la Cia ha risposto con la consueta formula: «Non possiamo confermare o smentire l’esistenza o la non esistenza di record». La questione, in questo caso, sembra avere ombre di segreto ancora oggi.

“CROGIOLO DI MENZOGNE”
Per il generale Bruno Loi la Somalia è ancora una ferita aperta: «Eravamo pronti a catturare Aidid nel giugno 1993 - racconta - avevamo il consenso del governo italiano, ma Unosom ci bloccò». Il fallimento di quella missione, spiega, va cercata nelle stesse regole di ingaggio delle Nazioni Unite: «L’Onu non ha capito che la democrazia non si esporta, ma si costruisce con anni di supporto», commenta Loi. E forse il caso Alpi rimane una ferita aperta perché è bene non entrare in quel labirinto senza fine della missione nel corno d’Africa: «La Somalia è stata un crogiolo di bugie, menzogne, disinformazione», spiega Loi, ventisei anni dopo. E di segreti che durano ancora oggi.