Non si sa chi faceva parte del commando di sette uomini che sparò sull’auto che trasportava i due giornalisti, né chi sia il mandante del duplice omicidio. A pagare è stato un innocente: Omar Hassan Hashi, condannato nel 2003 a 26 anni di carcere.
Giustizia è stata fatta, almeno per lui. Nel 2015, il programma televisivo ‘Chi l’ha visto?’ aveva rintracciato il suo principale accusatore, Ahmed Ali Rage detto “Gelle”. Alle telecamere dichiarò di essere stato pagato per mentire. Così nel gennaio di quest’anno il tribunale di Perugia ha ridato la libertà ad Hashi.
Nelle motivazioni della sentenza, i giudici perugini parlano chiaramente di “attività di depistaggio” che hanno portato alla condanna di un innocente. La procura di Roma ha aperto dunque un nuovo fascicolo, ma il 4 luglio 2017 ne ha chiesta l’archivazione: “Dopo 23 anni è impossibile accertare killer e movente - scrive nella richiesta il pubblico ministero Elisabetta Ceniccola - e non c’è nessuna prova di depistaggi”.

“Non sarà un’archiviazione a mettere fine alla ricerca della verità”, dichiara Domenico D’Amato, avvocato della famiglia Alpi. Una ricerca che ha scavato le radici nel lavoro di inchiesta di Ilaria, che cercava le prove di un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia.
L'inchiesta e l'agguato
20 marzo 1994. Mogadiscio, un commando di sette uomini ferma la jeep con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a pochi metri dall’ambaciata italiana. Una raffica di kalashnikov toglie la vita ai due giornalisti del Tg3, in Somalia per seguire il ritorno in Italia del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. Ma Ilaria stava seguendo anche un’altra pista, un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva sia i signori della guerra locali sia delle navi provenienti dall’Italia.
Per questo la settimana prima Ilaria e Miran erano andati a Bosaso, una città portuale nel nord del Paese, per intervistarne il “sultano” Abdullahi Moussa Bogor, riguardo una nave sequestrata dai pirati, forse utilizzata per i traffici illeciti. “Non è stata una rapina” dirà subito Giancarlo Marocchino, imprenditore italiano con affari in Somalia, “si vede che erano andati in posti in cui non dovevano andare”.
E forse avevano scoperto qualcosa che non dovevano scoprire. I corpi dei due giornalisti vengono riportati in Italia. Ma nel viaggio di ritorno succede qualcosa: i sigilli dei bagagli vengono aperti, spariscono gli appunti di Ilaria e i nastri di Miran.
Un colpevole di comodo
Gennaio 1998. Dopo tre anni di indagini, la svolta. L’ambasciatore in Somalia Giuseppe Cassini, incaricato dal Governo Prodi di cercare i responsabili dell’omicidio Alpi, torna in Italia con tre somali. Con lui sull’aereo c’è Omar Hassan Hashi, fatto venire in Italia per testimoniare alla Commissione d’inchiesta “Gallo” sulle violenze perpetrate in Somalia dal contingente italiano durante la missione di pace. Ci sono anche Sid Abdi, l’autista di Ilaria e Miran; e Ali Ahmed Ragi, detto “Gelle”, testimone oculare dell’agguato. Abdi e Gelle dichiarano alla magistratura che Hashi era uno dei sette uomini del commando che ha fatto fuoco su Ilaria: viene subito arrestato.
Assoluzione e condanna
Luglio 1999. Omar Hassan Hashi viene assolto dal Tribunale di Roma. I giudici considerano poco attendibili le testimonianze dell’autista di Ilaria e Miran, Sid Abdi, e quella di Gelle. Nelle motivazioni, i giudici scrivono che Gelle ha cambiato versione più volte ed è sparito prima di poter testimoniare al processo. Inoltre l’altro testimone chiave, Sid Abdi, dichiara di non aver visto Gelle tra le persone presenti il giorno dell’assassinio. Più credibili i tre somali che si sono presentati davanti ai giudici confermando l’alibi di Hashi: il 20 marzo 1994 non si trovava a Mogadiscio, ma ad Adale, a 200km dalla capitale.
Il pubblico ministero, che aveva chiesto l’ergastolo per Hashi, fa ricorso. Nel novembre del 2000, i giudici della Corte di Appello di Roma ribaltano la prima sentenza, condannando Hashi al fine pena mai. Tre anni dopo, la Corte di Cassazione rende definitiva la condanna: la pena per il somalo è di 26 anni di carcere.
La Commissione: "Ma quale inchiesta, erano in vacanza"
Gennaio 2004. Il Parlamento istituisce una Commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È presieduta dall’avvocato e deputato di Forza Italia Carlo Taormina. Il suo compito è quello di approfondire le indagini sull’omicidio e le ricerche sui traffici che Ilaria Alpi stava conducendo. La Commissione desta molte critiche. Taormina si scaglia contro i giornalisti Rai che continuano a lavorare sul Caso Alpi: accusati di essere “depistatori”, subiscono la perquisizione delle proprie abitazioni e delle redazioni in cui lavorano.
Dopo due anni di lavori, la Commissione fece emergere forti dubbi sulla veridicità delle testimonianze che indicavano Hashi come membro del commando che uccise Ilaria. Ma non fece luce sui mandanti, né sui traffici illeciti. Il presidente Taormina dichiarò che i due giornalisti uccisi “erano in vacanza in Somalia, non stavano conducendo nessuna inchiesta: la Commissione lo ha accertato”. La procura acquisisce gli atti della Commissione e riapre le indagini sul Caso.
Il giudice: "Omicidio su commissione"
Dicembre 2007. La procura di Roma chiede l’archiviazione del nuovo fascicolo sul Caso Alpi. Viene respinta dal Gip Emanuele Cersosimo che dispone nuovi accertamenti. “Fu un omicidio su commissione” viene scritto nel testo con cui si respinge l’archiviazione “con l’intento di far tacere i due reporter ed evitare che le loro scoperte sui traffici di armi e rifiuti venissero resi noti”
Il Sismi: "Uccisi per il loro lavoro sui traffici"
Dicembre 2013. La presidente della Camera Laura Bordini avvia la procedura di desecretazione degli atti della Commissione d’inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le note del Sismi del 1994 confermano i risultati delle tante inchieste giornalistiche svolte negli anni: “Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione”.
In un’informativa riservata dei giorni successivi all’omicidio il Servizio segreto militare fa quattro nomi: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d’armi del clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish), Mohamed Ali Abukar e Mohmaed Samatar. In un’altra nota del 1994 il Sismi indica come “mandanti o mediatori” due imprenditori italiani: Ennio Sommavilla e Giancarlo Marocchino, tra i primi ad accorrere sul luogo dell’agguato. In una nota del 1996 viene infine indicato come possibile mandante il generale Aidid, signore della guerra somalo, utilizzatore finale del traffico d’armi che Ilaria avrebbe scoperto.
Il testimone ritratta
Marzo 2015. Una nuova svolta. ll programma ‘Chi l’ha visto?’ manda in onda l’intervista di Chiara Cazzaniga a Ali Ahmed Ragi “Gelle”, il testimone chiave nel processo contro Omar Hashi. Rintracciato a Birmingham dopo un’inchiesta lunga un anno, il somalo racconta dell’accordo propostogli dall’ambasciatore Cassini: una falsa testimonianza in cambio di un visto per lasciare la Somalia. “Non ero presente sul luogo dell’omicidio, il nome di Hashi mi è stato fatto dall’ambasciatore” ha dichiarato Gelle che, per evitare che con le sue false accuse venisse condannato un innocente, decise di scomparire dopo la testimonianza resa agli inquirenti. Gli avvocati di Hashi chiedono subito la revisione del processo.
"Fu depistaggio"
Gennaio 2017. La Corte d’Assise di Perugia rimette in libertà Omar Hassan Hashi. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici di Perugia parlano di “attività di depistaggio che possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate concrete ricerche”. Non bastasse la facilità con cui la giornalista di Chi l’ha visto? ha rintracciato Gelle, a sostegno di tale tesi vi è anche l’attività di sorveglianza della Polizia sull’ex “testimone chiave”: negli spostamenti durante la sua permanenza nella Capitale, Gelle era sempre accompagnato dalla Polizia. Poi da un giorno all’altro sparì.
La Procura di Roma apre nuovamente le indagini ma con scarsi risultati: il 4 luglio il Pm Ceniccola chiede l’archiviazione del procedimento. “Ero ottimista e certa che avrei avuto giustizia dalla Procura di Roma sul duplice omicidio di Mogadiscio” ha dichiarato Luciana Alpi il 6 luglio nel corso di una conferenza alla Federazione Nazionale della Stampa. “Non è vero che non ci sono i moventi e le prove dei depistaggi” afferma Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi “ce ne sono in abbondanza, non si vogliono leggere”. La famiglia ha dichiarato che si opporrà alla richiesta di archiviazione della Procura.
Dopo 23 anni di indagini, processi, inchieste e depistaggi, non può essere solo un giudice a decidere se si possono accertare fatti e responsabilità: la verità storica non può essere ostaggio della verità giudiziaria.