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Beirut addio, volto di un mondo impazzito

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Senza acqua e senza elettricità, occupata da eserciti stranieri, allo stremo. E infine la grande esplosione. In cui sono rimaste uccise centinaia di persone chiuse in casa per il lockdown. L'ex Parigi del Medio Oriente è una città senza tregua, maledetta, troppo piccola per fare i conti con tanta ingiustizia

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Una “meravigliosa catastrofe” è la definizione che l’architetto Bernard Khoury ha dato di Beirut qualche anno fa, sottolineando la sua bellezza selvaggia, irregolare, non classificabile, abusiva. Ed è sin troppo facile, all’indomani della tremenda esplosione al porto cittadino che ha portato via centinaia di vite umane e devastato metà della capitale, assorbire questa definizione facendo decadere con naturalezza tutto ciò che può rimandare alla nozione di meraviglia.

Beirut è una “città disastrata”, come l’ha ufficialmente dichiarata il premier Hassan Diab prima di proclamare il lutto nazionale: una città senza tregua, maledetta, troppo piccola per fare i conti con tanta ingiustizia, perseguitata da tutti gli dèi che vegliano sulle 18 comunità religiose presenti nel piccolo paese del mediterraneo. Ci vorrà ben più dell’evocativa e celebre “fenice” per far risorgere una città martoriata in così tanti modi.
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L’ultimo dramma beirutino non poteva che contenere elementi beffardi. Il lockdown disposto dalle autorità pochi giorni prima per l’aggravarsi della pandemia ha fatto sì che migliaia di persone siano rimaste uccise e ferite in casa, spesso l’unico bene tangibile di una popolazione che stava già facendo i conti con la più grave crisi economica dai tempi della guerra civile (1975-1990), con il 60% dei libanesi destinati a vivere sotto la soglia di povertà entro fine anno. Un recente rapporto di Save the children aveva già avvertito che circa 910mila residenti della “greater Beirut” (circa 2,2 milioni di abitanti), di cui la metà bambini, non hanno cibo a sufficienza, stritolati dal crollo della moneta locale che negli ultimi 8 mesi ha perso l’80% del suo artificioso valore, polverizzando i conti bancari di migliaia di persone.
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Nell’hangar 12, l’epicentro dell’esplosione, sono stati distrutti dei silos contenenti diverse centinaia di tonnellate di grano, in un paese che fa i conti con la penuria di carne rossa - a tutti gli effetti divenuto un bene di lusso, eliminato anche dal rancio delle Forze armate - e il rischio di un destino simile anche per la carne bianca, il cui prezzo è aumentato del 50%. Il ministro dell’Economia Raul Nehme, nell’annunciare la polverizzazione di questi depositi, ha affermato che il Libano dovrà importarlo.
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Il Libano - un’economia di servizi, rinomata per il settore bancario che oggi crolla su se stesso - produce poco e importa quasi tutto quello che consuma. Confinante a sud con Israele - paese col quale è ancora formalmente in guerra - e per il resto con la Siria, è proprio dal porto di Beirut che arriva circa l’80% dell’import. Il porto di Beirut, adesso, quasi non esiste più. E sarà complicato rivitalizzare e potenziare quelli di Tripoli, seconda città libanese, che dall’inizio della crisi economica aggravatasi un anno fa ha raggiunto un tasso di disoccupazione del 60%, non tenendo neanche conto dei tanti lavoratori informali.
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La sede della Electricitè du Liban (EDL), un “carrozzone” che perde 2 miliardi di dollari l’anno e deve essere finanziato in deficit, è rimasta in piedi dopo l’esplosione, trapassata dall’onda d’urto ma paradossalmente ancor più visibile alla luce della distruzione attorno ad essa. È il simbolo della disfunzionalità e del livello patologico di corruzione del sistema istituzionale libanese: non riesce a coprire nemmeno il 65% del fabbisogno di elettricità nazionale. Non è forse un caso che poche ore dopo la detonazione, mentre l’aria di Mar Mikhail - il quartiere in cui sorge, famoso per la movida permanente e ora irriconoscibile - si saturava di grida di disperazione, c’era chi esultava per i danni alla Edl. I libanesi sanno scherzare anche quando piangono.
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Sembra assurdo ma in una città celebre per i servizi finanziari, ricordata da alcuni come la “Parigi del medioriente”, non viene assicurata la corrente elettrica. Fuori dalla municipalità di Beirut i blackout “programmati” dal governo vanno dalle 9 alle 21 ore al giorno, buchi che chi può cerca di colmare con i generatori privati alimentati a benzina, il cui usufrutto obbligato arricchisce - beffardamente - una serie di politici locali proprietari delle imprese che li producono.

A Beirut, fino a qualche mese fa, veniva percepito quasi come un agio il fatto di avere dalle 3 alle 6 ore di blackout. Già da qualche mese non è più così: i blackout si sono allungati a 9 e 12 ore, ed un recente sovraccarico dei generatori del centro di Beirut ha fatto saltare per 24 ore la corrente di tutta la downtown, provocando danni rilevanti alle compagnie dell’area.
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È ancora più assurdo ciò che è accaduto ad inizio giugno: almeno la metà dei semafori cittadini ha smesso di funzionare per via di una “faida” tra la municipalità della capitale e l’autorità per la regolamentazione del traffico, su chi dovesse usufruire dei 6 milioni di dollari derivanti dal pagamento dei parchimetri. Il contratto con la joint company libano-americana Duncan-Nead, che si occupa dei semafori, non è stato rinnovato a maggio. Il risultato è stato un aumento del 74% dei feriti e del 120% dei morti in incidenti stradali rispetto ad aprile. Beirut è una città al buio, costellata da sporadici neon - sopratutto nell’area di Zaytuna Bay - che sanno di schiaffo alla povertà delle baraccopoli nel sud della città. Una città di mare, che sopratutto nella zona ovest fa i conti con la carenza di acqua, o con la mancanza o il malfunzionamento di depuratori, che costringono gli abitanti di quartieri come Sanayeh e Manara - considerati benestanti - a farsi la doccia salata.
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L’esplosione avvenuta nel porto - una delle più potenti della storia: circa 3 kilotoni, laddove la bomba atomica di Nagasaki ne generò 12 - è stata il colpo di grazia ad una città in coma, che oggi ricorda l’autobomba che nel 2005 uccise il premier Rafiq Hariri come un evento quasi “minore”. Una città che dopo la fine della guerra civile ha avviato una ricostruzione fortemente diseguale, senza peraltro passare per una riconciliazione nazionale, infilando gli attriti sotto al tappeto; che ha visto eserciti - quello siriano e quello israeliano - occuparla per decenni, che ha permesso una accumulazione di ricchezza spropositata a beneficio di pochissimi - l’1% della popolazione detiene il 25% della ricchezza -, che si è vista bombardare da ogni lato e in diversi momenti, che vive nel timore di rinnovate tensioni confessionali e soprattuto socioeconomiche.

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