Nel dopoguerra fu un progetto con indirizzi condivisi e strategici. Il contrario dei finanziamenti a pioggia

La firma del piano Marshall a Roma nel 1947
Immancabile e persino rituale il riferimento al Piano Marshall quando s’inizia a parlare di aiuto e sostentamento. Lo vediamo in queste settimane con tanto d’immagini d’epoca per immortalare momenti e situazioni: i primi pacchi di riso o di zucchero, i trasporti transoceanici, le strutture operative del piano, la mole di aiuti che giunge nei porti e nelle città di mezza Europa.

Una generosa strategia di collaborazione per rinascere, ricominciare, dare slancio e vigore a economie piegate dalla guerra o, nel nostro strano mondo, dagli effetti incerti di una pandemia imprevista e indecifrabile. Un nesso tra presente e passato che merita attenzione: non si tratta di semplice coincidenza, né può funzionare la scorciatoia di uno sguardo a ritroso che non consideri analogie e differenze con una stagione lontana, un tempo perduto.

A oltre settant’anni di distanza dalla sua approvazione, il Piano Marshall viene evocato, invocato e talvolta rimpianto. È avvenuto sotto gli effetti della grande recessione scoppiata in America alla fine del 2007 quando il richiamo allo European Recovery Program è servito a sottolineare l’esigenza di un nuovo modello di intervento capace di sostenere la ripresa degli investimenti pubblici e privati. Il progetto del piano viene sovente richiamato come possibile risposta a temi epocali quali lo squilibrio tra Nord e Sud del mondo o la frattura tra i Paesi a più forte crescita e quelli del continente africano segnati da arretratezza economica e quindi più facilmente soggetti alla esplosione di guerre, alle migrazioni di migliaia di uomini e donne verso aree del mondo più sicure. Non di rado lo si chiama in causa come percorso possibile per un intervento propositivo della comunità internazionale nello scacchiere mediorientale, in America Latina o in quella parte d’Europa uscita dall’esperienza del comunismo. Non sono mancati i risvolti di marcata attualità (o di moda estemporanea) invocando a gran voce un Piano Marshall capace di incidere sulle emergenze ambientali.

Una sorta di crinale salvifico dove cercare risposte per gli interrogativi più difficili, per le soluzioni non trovate. Ma così facendo si rischia di indebolire la dimensione storica dell’evento, la sua necessaria collocazione nello spazio e nel tempo. Serve rigore, consapevolezza di scelte e indirizzi condivisi e definiti. Altrimenti si oscilla tra il rimpianto di ciò che è stato e l’impossibilità di riproporre situazioni e contesti. Ecco il significato che guida chi cerca di interrogarsi sulle ragioni della forza evocativa di un progetto storico, “Piano Marshall”, che nel corso degli anni ha superato la dimensione tecnica per la quale era stato configurato alla fine del 1947, per divenire il simbolo di un modello di organizzazione dell’economia e delle relazioni internazionali.

Nella congiuntura europea che stiamo attraversando la questione degli aiuti (nelle forme e nelle modalità in discussione) presenta i rischi di una superficiale lettura segnata dalla prevalenza quantitativa (quanti sono i fondi disponibili, come avviene la ripartizione tra gli Stati coinvolti) piuttosto che dalla discontinuità di un passaggio che potrebbe restituire all’Europa uno smalto perduto e una centralità non episodica: investire sul domani scegliendo gli assi da privilegiare, cogliere l’occasione dell’ingente disponibilità di risorse per programmare e costruire futuro intervenendo sui ritardi accumulati e sulle inadeguatezze antiche e recenti. Una logica inversa rispetto ai finanziamenti a pioggia, alle richieste di attenzione fondate su relazioni consolidate, ambiti privilegiati o colleganze di vario genere o natura. A questo livello, per le distinzioni di merito e di metodo, il richiamo all’impianto del Dopoguerra può non essere un esercizio banale o insignificante.

Vediamo i punti qualificanti di un parallelismo che può risultare un’utile premessa al confronto contemporaneo. Le radici di quella gigantesca operazione politica ed economica affondano nella convinzione di poter proporre una strategia globale, dal respiro ampio e condiviso, fino a mettere in questione i perimetri rassicuranti delle cornici nazionali. Alcune parole hanno perso purtroppo il significato pieno e condizionante che avevano in passato: cooperazione internazionale, multilateralismo, architettura condivisa.

Non era poca cosa immaginare che potessero affermarsi pratiche e principi solidi e trasversali pur in presenza di contrapposizioni e linguaggi tipici della guerra fredda. A fatica, con passi avanti e battute d’arresto, la logica di una convergenza possibile si fa strada nei tornanti decisivi del lungo Dopoguerra che abbiamo alle spalle.

Il piano di aiuti è molto di più di un progetto di sostegno o assistenza. Si colloca su un terreno strategico, quello dell’incontro tra quadro interno e contesto internazionale di tanti paesi contribuendo a irrobustire lo spessore di interdipendenze e relazioni reciproche. Atlantismo ed europeismo si sollecitano a vicenda fino a diffondere culture e comportamenti virtuosi anche tra coloro che scettici o contrari prendono le distanze. Il rifiuto dei nazionalismi (politici o economici) unisce percorsi e tradizioni. La prospettiva comune ha come posta in palio la salvezza e il benessere del genere umano, dopo gli orrori delle guerre, le armi distruzione di massa, le tragedie della prima metà del secolo.

Analisi
Non sprechiamo i soldi europei in inutili sussidi: adottiamo una vera strategia
10/9/2020
Liberalizzare scambi e relazioni significa avvicinare angoli del pianeta, abbattere distanze e barriere, stabilizzare intere aree del vecchio continente come strategia di fondo per lasciarsi alle spalle il peso di violenze e conflitti incontrollabili. Gli aiuti rappresentano un volano straordinario perché dalla ricostruzione materiale si possa immaginare un orizzonte più ambizioso. La stessa nozione di aiuto non è sufficiente, non irrobustisce la tensione a comprendere. Spesso viene utilizzata per proporre scorciatoie o paragoni azzardati, semplicistici. La gamma degli stessi indirizzi d’intervento è plurale e differenziata: aiuti alimentari contro la fame, investimenti per la salute diffusa (streptomicina, penicillina, attrezzature per gli ospedali), costruzione di abitazioni e infrastrutture (ponti, strade, acquedotti), fornitura di macchinari per innovare la produzione agricola e industriale. I risultati meritano attenzione e conoscenza.

Secondo gli studi più attendibili, dopo lo scioglimento dell’UNRRA l’insieme delle politiche per gli aiuti venne consegnata ai meccanismi del Piano Marshall che, pur progettato per finalità diverse dall’assistenza, si concentrò nei primi anni di vita sulle emergenze delle popolazioni europee colpite dagli effetti del conflitto. Tali fondi riuscirono a garantire oltre il 20 per cento delle calorie medie giornaliere per abitante nell’Europa post bellica. Uno sguardo lungo segnato dall’incontro irrinunciabile tra l’economia, la politica, le competenze dei tecnici, le passioni degli aspiranti cittadini. Un insieme coordinato di strategie che lega l’espansività economica della crescita produttiva all’inclusività sociale per segmenti significativi della società italiana. Combattere le arretratezze per costruire nuovi scenari capaci di promuovere ricchezza e partecipazione. Il sapere diventa così un bene prezioso per uscire dalle strettoie di false alternative: l’irrilevanza a fronte del peso delle super potenze o il declino annunciato e irreversibile come paradigma di riferimento.

Al contrario quella classe dirigente diffusa riesce a declinare il peso della crisi verso le ragioni di un’opportunità sconosciuta e a portata di mano. Una scelta di fondo per costruire dove si era distrutto, per ragionare dove si era insultato, per condividere dove si era lacerato un tessuto sociale. Una combinazione originale tra la pazienza e la parsimonia di generazioni d’italiani (emblematico in tal senso il monologo di Eduardo De Filippo sul suo piano Marshall e sulle modalità per prolungare la vita a vestiti, calzini, camice fino a un’altra guerra) e le sfide di un tempo nuovo, incerto e difficile, ma tutto da costruire.