Non sprechiamo i soldi europei in inutili sussidi: adottiamo una vera strategia
Pompare denaro in imprese fuori mercato prima del Covid non farà che posticipare il loro fallimento, e altrettanto inutile è riciclare vecchi progetti presi dai cassetti dei ministeri. Vanno definite nuove priorità
Milioni di persone, da noi come in tutto il mondo, stanno modificando i propri piani di vita. Anche nel migliore scenario sanitario per i prossimi mesi, la caduta dell’attività produttiva, la modifica delle preferenze di consumo, l’alterazione delle filiere produttive internazionali tagliano via imprese e lavori. Ma fanno anche intravedere una nuova domanda. Di abitazioni dignitose che favoriscano relazioni comunitarie; di cura e assistenza della persona luogo per luogo; di servizi a chi è in difficoltà in cui la tutela dei diritti si lega a percorsi di emancipazione al lavoro; di istruzione di qualità sin dall’infanzia e poi lungo l’intera vita (per attrezzarsi al cambiamento); di lavoro a distanza che riduca il pendolarismo e non divenga isolamento subalterno o invasivo dei propri spazi di vita a discapito primario delle donne; di mobilità flessibile e verde governata da piattaforme digitali collettive; di alimentazione a chilometro zero, sicura e frutto di lavoro agricolo senza abusi umani; di turismo di prossimità e “rarefatto”; di vita in luoghi che sostengano il cambiamento climatico; di energia elettrica auto-prodotta; di riutilizzo di materiali.
Questa nuova domanda potenziale sta attivando ovunque nel paese, sul lato dell’offerta, gli “spiriti animali” di un paese creativo e imprenditoriale, quell’«ottimismo spontaneo», quello «stimolo spontaneo all’azione […] che non è il risultato di una media ponderata di vantaggi quantitativi, moltiplicati per probabilità quantitative», come scriveva John Maynard Keynes.
Questa domanda che sale dal paese, e la pulsione a soddisfarla da parte di lavoratori e imprenditori, privati, sociali e pubblici, devono diventare la stella polare della politica pubblica.
Se i fondi europei Sure e React sono destinati a mitigare i rischi di disoccupazione - e il governo dia massima attenzione a precari e irregolari! - e quelli del Supporto Mes alla crisi pandemica sono destinati a correggere distorsioni e buchi maturati nel sistema sanitario, i fondi nazionali liberi e quelli comunitari da programmare del budget Ue ordinario e di quello straordinario approvato dal Consiglio (la Recovery and Resilience Facility) devono servire a promuovere il cambiamento che è nelle corde del paese.
Devono cogliere, valorizzare e consolidare la domanda nuova che si manifesta. E, assieme, devono rimuovere gli ostacoli che frenano i nuovi piani di vita, specie dei giovani e delle donne, e l’offerta di beni e servizi che essi esprimono. È questo il modo concreto con cui giustizia sociale e ambientale diventano gli obiettivi guida di un nuovo sviluppo, che superi le gravissime disuguaglianze che Covid-19 ha trovato nelle nostre terre e in cui si è incuneato, aggravandole. È - sia ben chiaro - nulla di più di quanto l’Ue chiede a tutti i paesi nell’uso di quei fondi, prevedendo che il Piano alla cui valutazione i fondi sono subordinati spieghi come intende «contribuire alla transizione verde e digitale» e a «promuovere la coesione e la convergenza economica, sociale e territoriale».
È allora prima di tutto chiarissimo cosa non serve. Non serve un “keynesismo bastardo” in cui l’azione pubblica viene vista come il pompaggio di domanda nell’economia quando c’è disoccupazione: non importa per cosa e come, poi ci penserà il mercato. Non servono ovviamente sussidi che, senza indirizzo e senza condizionalità, tengano in vita imprese già fuori mercato prima della crisi, posponendo il momento della verità, che poi saranno i lavoratori a pagare. Ma soprattutto non servono liste di “progetti cantierabili”, tirati fuori dai cassetti dei ministeri o delle regioni e affastellati gli uni sugli altri, con un solo obiettivo: spendere rapidamente.
Certo, alla fine, ogni piano, pubblico o privato che sia, deve tradursi in progetti. Ma prima ci vuole una strategia con poche chiare missioni e obiettivi, e ci vuole un metodo per assicurare che le scelte fatte raccolgano tutti i saperi disponibili e rispondano ai bisogni e alle aspirazioni delle persone, territorio per territorio. Se non sarà così, avremo gettato un’occasione irripetibile. Al meglio, se ci sarà spesa, avremo sostenuto salari e profitti dei settori delle costruzioni e della formazione. Ma, assieme, avremo accresciuto in modo spropositato le rendite di chi ha il potere di spingere i “propri progetti” - quanti ne ho visti nella mia vita, la parte peggiore del paese, i frenatori di ogni cambiamento - creando anche le premesse di una nuova stagione giudiziaria. E avremo dato un calcio in faccia a quei milioni di persone che nei territori esprimono una nuova domanda o offrono nuove ipotesi di lavoro e d’impresa. È un rischio concreto. Accresciuto da un’urgenza che tutto giustifica. E che il nostro governo ha poche settimane per scongiurare. Per questo dobbiamo parlarne. E dobbiamo mobilitarci.
Possiamo e dobbiamo farlo perché esiste un’alternativa. Il Forum Disuguaglianze Diversità l’ha messa nero su bianco da quaranta giorni (si veda il sito Forumdisuguaglianzediversita.org) assieme al Politecnico di Milano e con il contributo e la condivisione di quattro grandi città italiane (Bologna, Milano, Napoli e Palermo) e di un’alleanza di piccoli comuni delle aree interne (l’area progetto Basso Sangro Trigno della Strategia Aree Interne). Contiene un metodo, che viene da innumerevoli esperienze europee e con solide basi concettuali, e l’indicazione di priorità, esplorate a fondo.
Il metodo è semplice. È la combinazione di due mosse, che si tengono l’una con l’altra: da una parte, una scelta nazionale delle missioni strategiche attorno a cui costruire l’intero Piano e di forti indirizzi nazionali concordati con le regioni per ognuno dei settori toccati; dall’altra, strategie integrate che, territorio per territorio, adattino missioni e indirizzi ai diversi contesti, governate da omuni o da loro alleanze e partecipate con cittadini, lavoro e imprese, private e sociali. Per corrispondere alle pulsioni del paese, le missioni devono mirare sia a migliorare la qualità dei servizi pubblici e delle infrastrutture fondamentali - indichiamo come priorità casa, scuola, salute, mobilità sostenibile e spazi collettivi, aperti e chiusi - sia a rimuovere gli ostacoli all’espressione delle capacità imprenditoriali. Cosa intendiamo? Promuovere un possente trasferimento tecnologico alle Pmi dalle università e dalle imprese pubbliche. Consentire l’uso di terre incolte, private e pubbliche, da parte di giovani innovatori che salgono dalle città nelle aree interne. Accelerare le autorizzazioni per riqualificare e rendere fruibili i luoghi dell’accoglienza e della ristorazione per il turismo.
Gli indirizzi nazionali devono stabilire i principi. Ma non devono essere invasivi, moltiplicando standard e criteri, in genere immaginati per “contesti medi” nella realtà inesistenti, e quindi inadatti per tutti. Quei principi saranno interpretati dalle strategie territoriali, che in modo trasparente individueranno i progetti attraverso un pubblico confronto che vedrà presenti tutte le voci e i saperi e metterà in difficoltà i rentier di sempre. E allora il progetto della nuova scuola si legherà a quello delle nuove imprese e assieme essi indurranno il progetto della mobilità e quello sulla casa: perché nel mondo reale è così che le cose possono cambiare, non realizzando interventi isolati che lasciano solo infrastrutture inutilizzate e “incompiute”. Questo metodo sarà particolarmente importante nelle aree marginalizzate del paese dove i meccanismi endogeni del mercato e della democrazia hanno bisogno di una scossa: nelle aree interne, dove la Strategia esistente, da rilanciare, già offre la “piattaforma” per questa nuova politica; nelle periferie; nelle campagne deindustrializzate.
Il paese ha le idee e le forze per seguire questa strada. Dobbiamo pretendere che il governo e il parlamento lo facciano. La società civile, i sindacati, la migliore cultura d’impresa non si accontentino di ricevere ciascuno la propria parte, la propria “fetta di progetti”. Pensino ai milioni di italiani che stanno ridisegnando i piani di vita. Misurino su di loro il proprio agire.