L'universo virtuale lo immaginiamo nello spazio. Ma ha le sue radici sulla Terra, tra laboratori, centrali di dati, antenne e recettori. È sulla efficienza di questa rete materiale che si misura lo sviluppo di un Paese

Il cloud è una nuvola. Immense quantità di dati e di applicazioni sono disponibili in ogni momento, senza risiedere fisicamente nei nostri dispositivi. La singola macchina è sostituita da un gruppo distribuito di server interconnessi. L’immagine della nuvola ha avuto enorme successo, nel descrivere una parte fondamentale della nostra vita digitale. Con un equivoco: non tendiamo a identificare le nuvole con la concretezza o la materialità. Non vediamo le nuvole come infrastrutture.

Ma senza infrastrutture non può esistere alcuna nuvola digitale. Nella “Tempesta” di Shakespeare, mentre descrive l’isola che lo ospita e allo stesso tempo lo imprigiona, lo schiavo Calibano sogna che le nuvole si aprano e gettino su di lui le loro ricchezze. L’illusione di Calibano coinvolge anche noi, perché le ricchezze del cloud computing riguardano pochi grandi attori. Il mercato dell’infrastruttura basata su cloud come servizio a livello globale è dominato da Amazon Web Services con circa il 45 per cento, seguita da Microsoft Azure con il 19 per cento e Alibaba con il 9 per cento.

La nostra civiltà delle macchine sarà sempre più legata alla nuova consapevolezza della dimensione fisica del mondo digitale. Questo risveglio viene dopo la grande rimozione del corpo della tecnologia, sotto una patina di immaterialità. La Commissione Europea ha appena annunciato un piano d’azione per le “materie prime critiche”: in sintesi, per rendere il nostro continente più “verde” abbiamo bisogno di alcune cose, di cui ci eravamo scordati. Come il litio, il cui fabbisogno europeo dovrebbe aumentare fino a 18 volte entro il 2030. Altrimenti, la nostra capacità di essere “verdi” o “resilienti” sarà stabilita dagli altri.

L’efficacia del nostro mondo digitale, e del nostro modo di comunicare, dipende ancora da spazi e territori. E da punti di interscambio, router, cavi a fibra ottica, costellazioni di satelliti, torri, antenne, linee, recettori. Anche la storia contemporanea dell’Italia si può scrivere attraverso i corpi della connettività. A Ostia si può ancora vedere il celebre cippo dell’Italcable, che ricorda i lavoratori dell’azienda. Italcable nacque negli anni ’20 del Novecento come Compagnia Italiana dei Cavi Telegrafici Sottomarini, grazie alla volontà degli emigrati in Argentina di connettersi all’Italia in modo indipendente.

A raccogliere l’eredità di Italcable è oggi Telecom Italia Sparkle, presente in 34 Paesi e leader nel Mediterraneo, con una rete di 540.000 chilometri di fibra. È soprattutto per via del ruolo sensibile di questa società (oltre alla piccola Telsy, passione da crittografi) che nel 2017 il governo italiano ha applicato il golden power a Vivendi, perché la direzione della società dei francesi, senza la supervisione dell’intelligence italiana, poneva rischi per la sicurezza nazionale. E non a caso nel 2019 Alessandro Pansa, già al vertice del DIS, è diventato presidente di Sparkle. Quasi un secolo fa, a collaborare con Italcable nelle comunicazioni tra Italia e Sud America c’era la società dei cavi di Pirelli, oggi evoluta in un gruppo internazionale, Prysmian, forse l’unico vero successo italiano nella public company.

I corpi digitali comprendono ovviamente le torri, i centri di dati, le infrastrutture di calcolo. Ne fanno parte i centri di ricerca, come il glorioso CSELT di Torino, chiuso nel 2001, nella parabola discendente di Telecom Italia. Le infrastrutture della connettività si innestano nel corpo della nazione, mostrandone il ritardo e l’impoverimento. Ci è difficile credere, oggi, che alla fine del 1998 Tim fosse leader della telefonia mobile a livello mondiale sotto numerose categorie: qualità dei servizi, penetrazione del mercato domestico, diffusione nei mercati internazionali, capitalizzazione di Borsa, basso livello di indebitamento. In quella storia italiana di cultura industriale, prima del grande e mai abbastanza celebrato lavoro dei manager degli anni ’90 (Ernesto Pascale, Vito Gamberale e la loro squadra), vi fu l’attenzione per le infrastrutture di Guglielmo Reiss Romoli, storico direttore generale della STET.

Anche i migliori elementi della classe dirigente italiana stentavano a capire le innovazioni di Reiss Romoli. Guido Carli ha raccontato che Donato Menichella (uno dei più grandi servitori dello Stato della nostra storia, un gigante della ricostruzione) guardava con grade scetticismo la diffusione capillare della telefonia. Secondo Carli, Menichella «non accettava l’idea di un telefono in ogni nucleo familiare, gli sembrava un’inutile avventura consumistica, il telefono serviva soltanto al medico condotto, al farmacista e all’ostetrica, per il resto, se ne era fatto a meno per tanti secoli».

Carli invece capì la centralità delle telecomunicazioni, che considerava uno dei settori principali su cui puntare dopo la nazionalizzazione elettrica del 1962, anche se le famiglie del capitalismo italiano snobbarono i suoi consigli. Nell’impeto di Reiss Romoli di connettere l’Italia attraverso le telecomunicazioni, Carli sentiva l’eco del grande progetto infrastrutturale e geopolitico di Cavour, il quale già nel 1846 vedeva nelle ferrovie il vettore dell’unità nazionale, per la prosperità di un’Italia «destinata a connettere l’Europa e l’Africa».

I corpi digitali, oltre a descrivere la storia di una nazione e delle sue occasioni perdute, determinano i conflitti contemporanei, dove le potenze schierano le loro armi vecchie e nuove. Nelle nuvole, sopra e sotto la terra.

Alessandro Aresu sarà tra i protagonisti del Festivalfilosofia che si terrà dal 18 al 20 settembre tra Modena, Carpi e Sassuolo