Vergogne
Il diritto di aborto trasformato in tortura. Vi racconto la mia cicatrice, in nome di tutte
Il feto malformato, l’urgenza di un’interruzione terapeutica di gravidanza. L’inizio di un calvario fatto di umiliazioni, silenzi, disprezzo. A Roma: dove ci sono 5 medici non obiettori per 3 milioni di abitanti
È il 22 febbraio 2020. In televisione passano le notizie di una possibile zona rossa nel Lodigiano provocata dal primo caso italiano di Coronavirus. Codogno è in sottofondo. Al tavolo siamo in tre. Tre generazioni diverse. Tre storie. Una di noi ha una figlia ormai avviata alla vita adulta, l’altra di figli non ne ha e forse non ne vuole avere. E poi c’è lei che, pochi mesi fa, si è sottoposta a un aborto terapeutico.
Tiriamo fuori uno smartphone per registrare. Ogni parola deve rimanere, lo decidiamo mentre il Covid-19 entra da una tv accesa. Lei ha un parka verde, i capelli stretti in una coda arruffata. «Me lo posso togliere?», dice mentre è già con solo il maglione indosso e il vassoio di pasticcini appoggiati sul tavolo. Calma, lucida, affilata: «Vi dico già che non voglio un nome di fantasia, anzi non voglio proprio un nome perché quello che è accaduto a me può accadere a tutte». Ci indica con il dito e poi si mette seduta, fa cenno di procedere con la registrazione. Che diventa in un attimo una chiacchierata tra amiche, tra donne che ne conoscono altre nella stessa situazione, che hanno già sentito questa storia. La stessa ripetuta tra generazioni diverse ma che ha sempre la medesima procedura. L’unica cosa che cambia è la sensazione che ti lascia. La cicatrice, la chiamano.
Lei comincia a parlare, parte la registrazione: «Quella mattina, il 5 settembre, accompagno mia figlia a scuola con mio marito. Ha cinque anni, è sveglissima, forse anche tro ppo. Fuori le madri mi vedono con la pancia. Ero quasi al sesto mese».
Non fa mai una pausa, mai una lacrima, mai qualcosa che ci spinga a farle prendere un secondo di attesa dal ricordo. «Dopo averla lasciata andiamo a fare la “morfologica”. Sono eccezionali queste nuove tecnologie, vedi tutto, riesci persino a capire a chi assomiglierà». L’ecografia morfologica serve per accertare l’esistenza di eventuali malformazioni, ma quasi sempre di fronte allo schermo che proietta l’immagine del feto ti concentri nei tratti somatici. È una caccia ai lineamenti. «A un certo punto il ginecologo smette di parlare, poi ci dice che qualcosa non va. Il feto è malformato, ha un ventricolo solo e l’aorta schiacciata. Il giorno dopo ci manda da un’altra specialista. Conferma la diagnosi, ci dice che potremmo farla nascere comunque con un’operazione fatta da un luminare. Avrei dovuto metterla al mondo e farla intubare; al sesto mese sottoporla a una nuova operazione per un’aspettativa di vita massimo di tre anni. Mi sono rifiutata. La specialista era una neocatecumenale».
Per arrivare a questo breve inizio è servita un’ora, intervallata da frasi, domande. Un buco di dubbi di fronte a un feto che cresce ma è “inadeguato alla vita”, questa la formula lessicale usata dai medici. «Quando ho deciso che non avrei messo al mondo una bambina così malata, pensavo che sarei riuscita a fare tutto presto, subito. Pensavo che trovare un ospedale in grado di farmi abortire non fosse un’odissea, pensavo di aver bisogno di un chirurgo, pensavo di non dover sentire dolore. Pensavo che una legge sarebbe bastata. Invece sono entrata in un inferno infinito, in cui le informazioni e l’aiuto ricevuto sono stati pari a zero, in cui ogni giorno venivo rimandata al successivo. Dal giovedì al venerdì, dal venerdì al sabato, poi c’è il week end, forse lunedì, forse no. E per tutti quei giorni sono rimasta in piedi, in piedi come un cavallo, per non sentirla muovere, sperando solo che finisse presto, imbottita di vino e di Xanax».
Questa donna, che non vuole un nome e vuole essere il nome di tutte, ha la stessa storia di molte altre: l’aborto, che sia terapeutico o no, ha dei tempi di attesa che assomigliano a una pena da scontare. Un silenzio di giorni durante i quali devi trovare un ginecologo che non sia obiettore di coscienza, che abbia un turno libero e che sia disponibile a prendere in carico il tuo caso. A Roma i medici disposti a praticare un aborto terapeutico sono cinque in tutta la città. Cinque medici per quasi tre milioni di abitanti. Poi c’è la visita psichiatrica. Secondo la legge 194 chi si sottopone ad aborto terapeutico può procedere solo nel caso in cui la propria salute fisica o psichica sia in pericolo. L’incompatibilità del feto con la vita non viene presa in considerazione. E quindi uno psichiatra deve accertare che la salute mentale della donna sia a rischio, nonostante la motivazione sia un’altra.
In ospedale entri in mezzo alla vita che scorre, mentre quella che porti in grembo sai che non nascerà. Felicità che si mischia al dramma. Al tavolo la registrazione non viene mai bloccata. Le parole continuano, poche domande che si intrecciano al racconto: «Ho atteso un’ora e quaranta prima che qualcuno si accorgesse di me, ho dovuto urlare per farmi notare. Poi c’è stato l’incontro con lo psichiatra. Un incontro freddo, una pratica da sbrigare senza empatia». È l’inizio della tortura di un diritto riconosciuto per legge. Partoriscono, in alcuni casi, senza che nessuno spieghi loro come avverrà. Non esiste uno sportello informativo. Sentono frasi crudeli e inutili, come «Io ne conosco di persone nate con un ventricolo solo, e stanno benissimo».
Vedono il figlio desiderato uscire dal loro corpo. Sole, spesso dentro un bagno, abbandonate. Ritrovate sopra una tazza del cesso mentre spingono il feto, perché un’ostetrica ha deciso che in sala parto non ci devono stare.
C’è chi si rifiuta di praticare loro la terapia del dolore perché gli anestesisti obiettori di coscienza, per esempio nel Lazio, sono quasi la totalità. C’è chi invece inietta morfina quando ormai è troppo tardi. Sono costrette a risentire il battito prima del parto. A rimanere ricoverate per giorni perché l’unico medico non obiettore ha ormai terminato il turno e bisogna attendere che torni. E allora le culle intorno a loro si riempiono e sentono la gioia della nascita della compagna di stanza. Il travaglio dell’altra. Con le ostetriche, anch’esse obiettrici, che ti guardano con disprezzo.
«Ricordo che c’era solo gente che partoriva, palloncini, fiocchetti e gridolini», lo dice con rabbia, ma con un sorriso, tra le labbra strette: «Mi hanno fatta stare in quell’ospedale a forza, per quattro lunghissimi giorni, nel silenzio. Non sapevo quando sarebbe successo, non sapevo che sarei rimasta ricoverata tutto quel tempo. Non sapevo che nessuno mi avrebbe praticato l’epidurale. Non sapevo i medicinali che mi avrebbero somministrato». Chiede se è giusto, chiede se è normale. Chiede. E noi ascoltiamo con un registratore acceso, consapevoli che quelle domande sono state già fatte tante volte, troppe volte, da altre donne. Da altre coppie.
«Quando è arrivato il giorno, mi hanno dato alcune pasticche, senza spiegarmi niente. Neppure dopo ho potuto capire cosa fossero, visto che la cartella clinica che mi è stata consegnata subito dopo le dimissioni, conteneva solo la data di accettazione e quella di uscita».
Il Covid-19 continua in un fruscìo lontano, lo commentiamo mentre l’inviato di una tv all-news tenta una diretta. Nessuna di noi sa che il Sistema sanitario nazionale verrà completamente messo in discussione da lì a pochi mesi, mentre noi lo stiamo già facendo. «È stato un attimo: appena prese quelle pillole è iniziato un dolore che non si può descrivere. Il parto è cominciato, un vero parto, non un’operazione. E nessuno mi aveva preparata a questo. Urlavo come una pazza e alla fine mio marito ha creduto che sarei morta. È uscito per chiedere aiuto e chi è entrato nella mia stanza mi ha sbeffeggiata: “Ma che è tutta questa scena, sei al secondo figlio, che non sai come si fa?”». Passano le ore, senza aiuti, senza epidurale. Il feto è scivolato via, non si ricorda se lo abbia visto. Semplicemente non ricorda o non vuole farlo.
Di questa registrazione, datata 22 febbraio, abbiamo tolto tanto, il sangue, la vista, la crudeltà eccessiva. Lo abbiamo fatto per rispetto di chi ha voluto denunciare e rileggerà la sua esperienza. Per rispetto di tutte quelle donne che hanno vissuto lo stesso atroce diritto violato e garantito dalla legge italiana. Lo abbiamo fatto perché quello che è stato trascritto è sufficiente per comprendere.
La donna, che un nome non vuole avere e che vedete nelle foto, è stata costretta a sottoporsi alla Emdr, tecnica di psicoterapia praticata ai reduci di guerra per superare i traumi subiti e lo ha potuto fare perché «benestante, colta e con un marito e una famiglia capace di aiutarla», come lei stessa ha detto. Ma non sempre è così. Ci sono donne che non possono permettersi un percorso terapeutico dopo un trauma. Famiglie distrutte e aborti negati. Donne costrette come ladre a emigrare in Paesi stranieri perché non riescono a trovare un medico che prenda in carico la loro cartella clinica, mentre in Italia si discute se la Ru-486, conosciuta come aborto farmacologico, possa essere applicato in day hospital, senza necessità di un ricovero di tre giorni. Quando quei tre giorni significano dover subire violenze psicologiche e fisiche.
La pietas negata e conquistata con la legge 194 del 1978, più di 40 anni fa e ancora male accettata con un numero di medici obiettori di coscienza che sfiora il 70 percento nella maggiore parte delle regioni italiane.
Silvana Agatone, presidente Laiga, racconta come tutto sia peggiorato con il Covid-19: «Non trovavamo ospedali dove poterle indirizzare, soprattutto in Lombardia. Venivano respinte, le diagnosi prenatali arrivavano tardi e allora molte di loro si sono viste costrette ad andare in Inghilterra o in altri Paesi europei, dove i tempi per praticare un aborto terapeutico sono più lunghi».
Alla domanda come mai è così difficile trovare un medico che ti aiuti, spiega: «Molti di noi vengono denunciati dai colleghi e allora iniziano anni di lotte in tribunale, Laiga nasce ad esempio perché nel 2008 la polizia fece irruzione in un ospedale di Napoli, accusando madre e medico di eseguire un aborto illegittimo. Così, oltre al trauma, devi anche finire di fronte al giudice». Reparti fermi, medici che si rifiutano, un ministero della Salute che non rende noti i dati e le donne costrette ad attaccarsi al telefono con la speranza che non finisca il termine previsto di 22 settimane. Laiga per aiutarle ha deciso di creare una mappa che almeno indichi loro in quale ospedale andare. Per il resto solo silenzio.