Copertina
Generazione Elly Schlein
Le disuguaglianze, l'ambiente, le piazze da far contare dove si decide, i trentenni, il disagio e la possibilità di un nuovo modo di essere politica. Dialogo a tutto campo
Dice: «Siamo pieni di uomini soli al comando, e non sono serviti: preferisco tenermi stretti i miei dubbi». Dice: «Non è un Paese per giovani, e nemmeno per donne, ma proviamoci lo stesso».
Fa volare parole di sinistra che non si usano più, ma tra quelle che usa più spesso ce ne è una che racconta bene il contemporaneo e la sua generazione: «Disagio». Insomma è subito chiaro che Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia-Romagna, è l’animale politico di una specie a rischio estinzione. Governa, vuol portare avanti la lotta per i diritti con quella per l’ecologia, tenere insieme le alchimie politiche e la realtà. Non vuol fare un partito, non ha capicorrente, non ha leader di riferimento, non cita Berlinguer: al massimo Alex Langer, che è tutta un’altra cosa. Ha 35 anni, è donna, sa come si fa a dire di no, sa come si fa a vincere. Per questo adesso la cercano.
Europarlamentare outsider con 53 mila preferenze nel 2014 (ma era l’Era del 40,8 per cento di Renzi), l’ultima vittoria che ha incassato è quella alle cruciali regionali dell’Emilia-Romagna, gennaio 2020, dove ha raccolto oltre 23 mila preferenze e la sua lista femminista ecologista e progressista, Emilia-Romagna Coraggiosa, ed è stata uno degli elementi fondamentali per la vittoria di Stefano Bonaccini e la costruzione della sua maggioranza in Consiglio regionale. Decisiva, fra l’altro, fu in campagna elettorale la volta in cui incrociò Matteo Salvini e gli chiese perché non veniva mai alle riunioni sulla riforma del Regolamento di Dublino: il video della ragazza che fa scappare l’uomo nero è tutt’ora un cult sulla rete. Il prossimo no che si prepara a dire è quello al referendum sul taglio dei parlamentari.
Una posizione opposta a quello del suo presidente in Regione che racconta per la prima volta all’Espresso: «Non posso che votare no, perché è una riforma che non mi convince per niente: noi sulla rappresentanza non abbiamo un problema di quantità, ma di qualità. E avere meno deputati e senatori non garantisce di averne migliori, anzi. Tanto più perché si tratta di un intervento parziale, trainato dagli argomenti sbagliati come quello del taglio dei costi - che è irrisorio - ma senza un disegno complessivo, a partire da una legge che dia la possibilità agli elettori di scegliere chi mandare in parlamento e dia una adeguata rappresentanza dei territori. Non si sfiora la questione morale nei partiti, non si ripensano i metodi di selezione della classe dirigente. Nel complesso si rischia di rafforzare - ancora più di oggi - quei meccanismi che danno ai leader e alle segreterie dei partiti il potere di decidere chi verrà eletto, anche a discapito del dissenso, della libertà di pensiero». Il rischio insomma è chiaro: quello di un Parlamento di yesman.
Prospettiva opposta a quella di Schlein, che costruisce coltivando il dissenso: «Meglio creare problemi», potrebbe essere il motto del suo percorso. Il suo ingresso ufficiale in politica risale ai tempi in cui animò il movimento di Occupy Pd, nato sull’onda della protesta contro i 101 che avevano affossato l’elezione di Romano Prodi al Quirinale ma contro il governo di larghe intese nel 2013 («ci davano dei ragazzini, avevamo visto lontano»). Era europarlamentare quando, nel 2015, lasciò il Pd in polemica con Renzi e con i suoi metodi, preferendogli Possibile di Pippo Civati: e non ha «alcuna intenzione di rientrarci». Nel 2019 disse no a una ricandidatura tra le fila del Pd, offertale da Nicola Zingaretti, perché non la convinceva la coalizione-ammucchiata (da leader di Azione Carlo Calenda al medico di Lampedusa, Pietro Bartolo) che però nello stesso tempo la costringeva a lasciare fuori troppe battaglie di sinistra. Nel 2020 ha di nuovo declinato un invito, sempre di Zingaretti, a divenire presidente del partito: quel posto poi è andato a un’altra donna, Valentina Cuppi. Tutti no che, come sempre accade ai dinieghi motivati, hanno contribuito ad aumentare l’attenzione attorno a lei: «Quando ho detto no all’Europarlamento nel 2019 pensavo che la scelta sarebbe stata incomprensibile per chi mi sostiene: e invece mi hanno capito. La gente non è scema».
Adesso che il Pd e Iv e Leu gli altri pezzi della sinistra arrancano nella corsa alle regionali, in un assetto che vede in bilico non solo Puglia e Marche ma persino la Toscana, già sicuro feudo rosso – per non parlare dell’azione di governo - c’è da constatare come il suo telefono squilli abbastanza spesso. Basta passare qualche ora con lei, tra una riunione in Regione e la realizzazione del servizio fotografico in questa pagina (considerato un supplizio), per accorgersene: cercano un’interlocutrice, una sponda elettorale, un’invitata, un aiuto, dipende. Magari anche di un ponte tra mondi e sinistre che dovrebbero parlarsi, ma invece (eufemismo) «faticano a farlo». E se non è già cominciata, c’è da scommettere che partirà a breve - dipende pure dai risultati del voto - la rincorsa a coinvolgere Schlein nel prossimo progetto della sinistra. Per la verità, tra una prudenza e l’altra, si intuisce come un dialogo sia già in corso, per quanto sia troppo presto, e lei troppo cauta, per parlarne apertamente. Mette avanti i dubbi, le domande: sembra che stia cerando accuratamente il modo per non diventare l’ennesima testa di cervo appesa al muro della vasta collezione di leader e federatori possibili della sinistra italiana. Da Pietro Grasso a Nichi Vendola, passando per Pierluigi Bersani, Giuliano Pisapia e Antonio Ingroia. Per chi ancora ci crede, c’è da sperare sia abbastanza scaltra da riuscirci. Anche perché l’orizzonte è deserto di volti nuovi.
«Li ho studiati, i meccanismi ciclici in cui siamo avvolti. Il tema è come spezzarli. Arrivo da un percorso, ho analizzato le sconfitte: e a sinistra sono tante. E non usciremo facilmente da questo disastro. Perché i ragazzi non si iscrivono ai partiti? Perché non ci votano? Perché invece vanno alle manifestazioni sul clima? O si iscrivono all’Anpi? Le tessere sono in aumento, perché lì si capisce cosa fai, da che parte stai», dice camminando avanti e indietro nel suo ufficio dalla pareti verniciate d’arancio da Elisabetta Gualmini che l’ha preceduta in quella stanza. La sua analisi sul presente è impietosa («Leu è qualcosa che esiste, o che non esiste?»; «Vogliamo parlare del Brancaccio? e che dobbiamo dire?»), e non se ne tira fuori: «Io credo che il quadro nell’insieme, sia estremamente inadeguato e insufficiente: e non credo che non possa continuare così. E non ce la caveremo facilmente. Oggi le cose più interessanti si muovono fuori dalla politica. Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo avuto mobilitazioni su temi cruciali per il futuro: per il clima, contro le discriminazioni, contro il razzismo, e poi le piazze del Black lives matter. E non dimentichiamo che con Salvini al governo abbiamo avuto le manifestazioni di solidarietà ai migranti, le mobilitazioni femministe... Quello che mi ha sempre colpito, frequentandole, è che sembra di vedere in qualche modo gli stessi volti, o comunque le stesse speranze, istanze. È stato così anche per le Sardine, a partire da qui a Bologna: hanno avuto il grande merito di dare un nuovo senso di appartenenza, di entusiasmo. Hanno comunicato più di noi, sono stati più efficaci di quel che proponevamo. Perché sono collegati con la realtà». Un filo che in politica risulta interrotto. «Si può riallacciare, ma serve chiarezza».
Chiarezza è qualcosa che deriva da una formazione politica anche anomala, come quella che a Schlein viene dall’aver partecipato come volontaria alla campagna elettorale per Barack Obama, da studentessa del Dams, a Chicago dai suoi cugini (il padre è statunitense, la famiglia originaria di Leopoli: a Ellis Island, mutarono il cognome da Schleyen a Schlein per americanizzarlo): un certo modo di lavorare in collettivo, di comunicare via social, di partecipare ognuno per come può, di mettersi dalla parte di chi vota. Chiarezza è in fondo quella che a lei è mancata da subito: «Quando nel 2013 facemmo Occupy Pd eravamo contrari alle larghe intese, al governo con Forza Italia che si sarebbe realizzato con Enrico Letta. Ci davano dei ragazzini irresponsabili ma forse avevamo visto giusto quando dicevamo che, governando in quel modo, la sfiducia nei nostri confronti sarebbe aumentata, perché avrebbe ridotto le differenze al centro». È accaduto l’opposto di quel che chiedeva quella piazza, e da allora il centrosinistra si è «raggomitolato al centro». Dove sta tutt’ora, «con un Pd guidato da Zingaretti che è quasi inerte, nonostante la larga maggioranza con la quale è stato eletto segretario». E dove ci si interroga ancora, da ultimo con Goffredo Bettini, sulla famosa «vocazione maggioritaria» che dovrebbe portare a stringere ancora di più i bulloni dell’alleanza coi Cinque stelle.
«Sì, ma per fare che cosa?», è la domanda con cui sbotta Schlein quando le si chiede se è d’accordo per una alleanza organica: «Se è il potere per il potere, non solo non serve, ma probabilmente logorerà». Lo chiede, lei, da persona che governa, che tratta. Che, da relatrice del gruppo dei Socialisti e democratici, è stata capace di lavorare a costruire la maggioranza in parlamento europeo per la riforma del regolamento di Dublino; che l’accordo coi Cinque stelle l’anno scorso l’avrebbe fatto «fossi stata al posto di Zingaretti», tanto quanto a Bonaccini ha poi chiesto precise condizioni per entrare in maggioranza, come la decarbonizzazione entro il 2050, e l’utilizzo delle rinnovabili al cento per cento entro il 2035. «Le piazze chiedono chiarezza di visione, unità e coerenza: l’unità da sola non è un valore, e non esprime un’idea di futuro», specifica chiudendo anni di dibattito nel Pd. «Dobbiamo mettere in campo tre quattro cinque punti, su cui persino i partiti di governo possono essere d’accordo. Giustizia sociale e transizione ecologica, anzitutto, e poi anche realizzarle: perché mi fa piacere che sia citato il green new deal, ma finora abbiamo visto solo l’ecobonus». Diritti ed ecologia, spiega Schlein, sono questioni che nell’orizzonte contemporaneo vanno insieme, si intersecano: «Le conseguenze negative dei cambiamenti climatici di solito si rivolgono per lo più contro chi ha meno diritti, meno tutele. Se il lago Ciad si prosciuga, sono coloro che vivevano introno a quel lago a trovarsi in difficoltà, a dover migrare. È di questo che si parla». L’intersezione tra i temi, mentre a sinistra chiede ancora una volta di scegliere: «Ma se pretendi di dividere la piazza di Carola Rackete da quella Greta Thunberg, la gente ormai ti manda a quel paese», sintetizza brutale. Perché c’è un malloppo di fiducia che a ogni nuovo rassemblement si assottiglia, come i voti del resto.
E invece di parlare della realtà, cosa si ritrova una ragazza che oggi si affaccia alla politica? Può scegliere. «Tra due elefanti, il Pd e i Cinque stelle, abbastanza immobili perché pieni di contraddizioni interne, contenitori che tengono dentro tutto, su alcuni temi sui quali invece la gente chiede chiarezza. E invece sappiamo quale è la linea sull’immigrazione, nel governo? Quella di Minniti o quella di Majorino? Quella di Di Maio o quella di Fico? E i decreti sicurezza, davvero dopo un anno stanno ancora là? Ma sull’aborto, sui diritti Lgbtq, possibile che ci siano ancora dubbi? E lo Ius soli?», elenca Schlein, sapendo che dubbi ci sono eccome. E facendo notare che lei, nata e cresciuta a Lugano, è vissuta in Italia meno tempo di tutti i diciottenni che sono nati in Italia, ma da persone migranti. Ma lei ha il passaporto italiano, perché ha madre italiana, loro no.
Alternativa ai due partiti-elefanti? «Quattordici sigle diverse, tutte di sinistra, le cui differenze fatichiamo persino noi a riconoscere, trattandosi di questioni personali, assai più che politiche. Ma può esserci qualcosa di più respingente?».
Viene in mente a questo punto Corrado Guzzanti, e il suo «compagno Fausto» che ai tempi del secondo governo Prodi predicava: «Troppo facile fare un partito pensando due cose diverse. La cosa difficile è stare in due partiti diversi pensando sostanzialmente la stessa cosa». Ma a quel tempo, invece che disperarsi come tutti gli adulti del centrosinistra dell’epoca, Elly Schlein stava all’università, esultava per la vittoria di Prodi, si precipitava a Roma per festeggiare il professore scoprendo che lui, contemporaneamente, stava salendo a Bologna appunto per festeggiare («una delle prime volte in cui lo incontrai, stava correndo al parco: mi affiancai per raccontargli la mia indignazione verso un certo proclama della Lega. Gli dissi: “Professore, corro con lei?” ma dopo un po' dovetti lasciarlo andare via, avevo il fiatone»). C’è in effetti un filo rosso che unisce questi racconti, la campagna elettorale di Obama, quel modo collettivo di intendere l’impegno. Schlein è del 1985, aveva 4 anni quando è crollato il muro di Berlino, 5 quando il Pci cambiò nome, 7 all’esplodere di Tangentopoli.
È cresciuta con Silvio Berlusconi capo di governo e di Forza Italia, ha cominciato a fare politica nell’anno in cui si votò la sua decadenza da senatore. Da questo punto di vista, è lontana anni luce da tutti i quarantenni, a partire da Matteo Renzi (ma anche Salvini e Giorgia Meloni). Esemplare di una generazione che non ha dovuto confrontarsi con il regno di Arcore, coi suoi conflitti, coi suoi lustrini, anche solo per distinguersene. Sarà anche per questo che rispetto a come digerire l’eredità renziana Schlein è particolarmente fredda. Un po’ perché i conti li ha già fatti, un po’ perché pensa, in sostanza, che sia un problema di Zingaretti. Un po’ perché la storia ha già risposto: «Ora Renzi si trova in un’area politica che per lui è più naturale: il problema era prima. E del resto io non sono mai stata tra quelli che pensavano che fosse Renzi il problema. Quel metodo non mi convincerebbe neanche se al suo posto mettessi un altro, neanche se lo sostituissi con una donna. Ma è l’intero campo di centrosinistra che ha bisogno di una scossa. Non serve un nuovo partito, ma cambiare lo schema. Una rete, riallacciare i fili con tutti i mondi che ora ci guardano con diffidenza o, direttamente, ci ignorano». E come si mantiene, in un panorama così, la passione per farlo? «Resistendo alla voglia, che hai ogni giorno,di mollare tutto».