A due mesi dalle elezioni, la sfida tra Donald Trump e Joe Biden è aperta. E non dipende tutto da Ohio e Florida come sempre perché la geografia del voto è profondamente cambiata

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Mancano due mesi alle elezioni del 3 novembre e il candidato democratico Joe Biden, dicono i sondaggi, ha ancora un discreto margine di vantaggio (circa 7 punti, seconda la media di RealClearPolitics) su Donald Trump.

Tra gli uomini dell’ex vice-presidente di Obama inizia però a serpeggiare un po’ di inquietudine. L’entusiasmo suscitato dalla Convention (virtuale) di Milwaukee, con i discorsi di Michelle e Barack (i veri leader del partito), gli appelli all’unità di Bernie Sanders, la grinta della candidata vicepresidente Kamala Harris: tutto questo è durato giusto il tempo di lasciare la tribuna del prime time tv ai ripetuti show di The Donald alla Convention repubblicana di Charlotte. «Solo Joe può perdere queste elezioni e purtroppo temo che stia iniziando a perderle», ci dice un collaboratore che lavora a stretto contatto con Biden e chiede, ovviamente, l’anonimato.

A mettere pubblicamente in guardia il candidato democratico sono invece diversi analisti, alcuni columnist dei grandi giornali nazionali e qualche politologo. Di fronte alla ingombrante presenza del presidente in carica, a otto settimane dal voto “Sleepy Joe” sembra dare ragione al nomignolo con cui lo irride quotidianamente Trump. In due mesi può accadere di tutto e il futuro della campagna elettorale è ancora tutto da scrivere. Sondaggi e dati hanno i loro limiti (ne sa qualcosa Hillary Clinton), le sorprese possono arrivare inaspettate, gli Stati Uniti possono cambiare rotta rapidamente come hanno dimostrato le elezioni del 2016 e i primi otto mesi di questo drammatico 2020. È un paese profondamente diviso e polarizzato, con le grandi metropoli e le due coste in mano ai democratici e l’immensa America rurale schierata con The Donald. E per il complicato sistema elettorale saranno decisive poche migliaia di voti in una decina di Stati in bilico e in un centinaio di contee bianche.

I sondaggi
Se fossero la realtà, Joe Biden potrebbe dormire sonni tranquilli. Il modello di previsione statistica dell’Economist dà al candidato democratico il 98 per cento di probabilità di successo nel voto popolare (che non conta nulla) ma anche l’87 per cento di probabilità di vincere il collegio elettorale (servono almeno 270 voti su 538) che garantisce la conquista della Casa Bianca. Per FiveThirtyEight, il sito di Nate Silver che ha quasi sempre azzeccato le previsioni (ma nel 2016 no) Biden ha il 68 per cento di chance. Il Princeton Election Consortium prevede per l’ex vicepresidente 349 voti elettorali. Alan Abramowitz, analista politico che ha creato un modello di previsioni molto diverso da quelli tradizionali e che nel 2016 predisse la vittoria di Trump, dà al candidato dem il 70 per cento di probabilità di vittoria. I modelli elettorali si basano su dati storici (come elezioni passate e fedeltà dell’elettorato) che non tengono però conto dell’imprevedibile. Nel 2016 non colsero il fenomeno The Donald, quest’anno non sono in grado di testare eventi come il decorso della pandemia nei prossimi due mesi, una sempre possibile “sorpresa d’ottobre” o anche eventuali problemi di salute per due candidati ultra-settantenni.

Gli Stati in bilico
Per conquistare la Casa Bianca devi vincere nei “Battleground States”. Da un ventennio questa massima è scolpita nella pietra degli staff elettorali, che per mesi prima di ogni voto analizzano nei dettagli quanto accade in Florida e Ohio.

Fino a otto anni fa erano questi due gli Stati decisivi e non solo per via dell’alto numero di voti elettorali (29 e 18). Poche centinaia di voti in Florida erano costati la Casa Bianca ad Al Gore contro George W. Bush; chi vinceva l’Ohio diventava presidente, visto che dal 1900 solo due candidati vittoriosi (Franklin D. Roosevelt e John F. Kennedy) avevano perso il grande Stato del Midwest.

Il 2016 però ha cambiato tutto: Trump ha trionfato a sorpresa in tre Stati tradizionalmente democratici (Pennsylvania, Michigan e Wisconsin) e nei suoi quattro anni di presidenza (complice anche la demografia) gli Stati in bilico sono mutati. Se escludiamo l’Ohio (dove Trump è passato in vantaggio nell’ultimo sondaggio Cbs-YouGov) e il Texas (che è considerato conquistabile solo da super-ottimisti democratici) in questi ultimi due mesi ci sarà una sfida all’ultimo voto in ben sei Stati (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Florida, North Carolina, Arizona) più uno, il Minnesota, che potrebbe essere la grande sorpresa della Casa Bianca 2020.

In Florida il candidato democratico ha il 3,7 per cento di vantaggio ed è lo Stato dove sta andando meglio. In quelli che gli hanno dato la vittoria quattro anni fa, Trump insegue Biden di circa 3 punti e nelle ultime settimane ha quasi dimezzato il distacco. Nell’Arizona, roccaforte repubblicana da oltre mezzo secolo, ha due punti di svantaggio, mentre in North Carolina, dove il voto dei neri può fare la differenza, è in leggerissimo vantaggio. Sono tutte cifre che, con i margini di errore dei sondaggi, danno i due candidati alla Casa Bianca praticamente alla pari in questi Stati.

Il Minnesota
In quello che un tempo era il mitico Blue Wall, il muro blu degli Stati storicamente democratici, il Minnesota era la pietra angolare. Dal 1972, quando lo conquistò Richard Nixon, nessun candidato del Grand Old Party è mai riuscito a vincere nella “terra dei diecimila laghi”. Perfino nel 1984, quando Ronald Reagan venne rieletto trionfalmente, i democratici vinsero il Minnesota, unico di tutti gli Stati Usa. E con quella del 2016 hanno infilato una striscia consecutiva di 11 vittorie, record nella storia degli Stati Uniti.

All’interno del Minnesota nessun repubblicano ha mai vinto un’elezione dal 2006, che fosse per il Senato o per la poltrona di governatore. Con questa storia alle spalle dovrebbe essere un “Blue State” sicuro, ma in realtà non è più così. E già nel 2016 Trump perse per soli due punti, ora punta a vincerlo.

La svolta a destra del Minnesota ha diverse ragioni. Il 53 per cento della popolazione di età superiore ai 25 anni è composto da bianchi senza una laurea, un dato demografico che gioca a favore di The Donald. Storicamente nello Stato la classe operaia bianca era progressista, con la sua popolazione di discendenti dagli immigrati tedeschi scandinavi e un attivissimo movimento sindacale: ma le posizioni dei democratici sull’ambiente e contro le armi ha fatto diminuire l’elettorato democratico durante il secondo mandato di Obama dal 7,7 del 2012 all’1,5 del 2016. E nelle contee della Iron Range, l’area mineraria del Minnesota, Trump potrebbe raddoppiare i voti.

I dati
I sofisticati dati sulle abitudini degli elettori hanno un ruolo decisivo nella strategia elettorale, che mira a stimolare il massimo di affluenza al voto del 3 novembre. Grazie a centinaia di milioni di “data point”, permettono di elaborare una sorta di profilo personalizzato per ogni singolo elettore che serve per capirne lo stato d’animo: se è registrato (come repubblicano, democratico o indipendente), se intende recarsi alle urne, se preferisce votare per posta, se ha già scelto un candidato, se è ancora indeciso, se è meglio contattarlo con un sms o con una email. Questi dati sono considerati particolarmente importanti nelle elezioni 2020 a causa della pandemia che farà incrementare notevolmente il voto per corrispondenza e che costringerà gli staff di Trump e Biden a fare più affidamento sulla strategia digitale (invio di messaggi agli elettori, pubblicità mirata, contatti online) piuttosto che su quella tradizionale (comizi, propaganda porta a porta).

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Su questo terreno il Grand Old Party era partito con un grande vantaggio che i democratici hanno recuperato solo in parte. Nel 2016 la campagna di The Donald ha utilizzato (con successo) Data Trust, società privata controllata da grandi finanziatori repubblicani, che attraverso capillari messaggi digitali (e l’uso spregiudicato dei social network) ha convinto migliaia di elettori democratici delle contee bianche e operaie di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin a votare per Trump. Come nel 2008 e nel 2012 erano stati Obama e il suo staff a vincere largamente la battaglia digitale, così Hillary Clinton l’ha persa nel 2016. Nonostante l’aiuto di grandi e piccole società della Silicon Valley - che hanno innovato e reso più fluida la raccolta dati del partito democratico - a due mesi dalle elezioni negli Stati in bilico la campagna di Biden (per sua stessa ammissione) non è ancora riuscita a raccogliere e a condividere la stessa mole di informazioni sugli elettori che ha quella di Trump.

La violenza
Un tempo a decidere le elezioni presidenziali erano grandi temi come l’economia, la politica estera, la guerra al terrorismo. In questo atipico anno elettorale al centro della campagna troviamo la pandemia (con le sue ripercussioni economiche, sanitarie e sociali) e il problema della giustizia (o ingiustizia) razziale, con il suo corollario di proteste e violenza urbana. Prima Kenosha, poi Portland. Sono i primi morti - e rischiano di non essere gli ultimi - di un’escalation di violenze di piazza che vede su barricate contrapposte i militanti della sinistra e i gruppi armati di suprematisti bianchi e di “patrioti per Trump”. Tra la primavera e l’estate le proteste spontanee, dopo l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto bianco di Minneapolis, si sono trasformante in un movimento organizzato che ha raggiunto le città di ogni angolo d’America. Sotto la bandiera di Black Lives Matter in centinaia di migliaia sono scesi nelle strade d’America, manifestazioni in larga maggioranza pacifiche ma che in diversi casi sono diventate violente, con saccheggi e aggressioni. Trump e i leader repubblicani gridano al caos, promettono legge e ordine e di fatto sobillano le autoproclamatesi “milizie patriottiche” all’autodifesa. Cioè allo scontro armato, che è lo scenario preferito da Trump.