Il presidente americano ne ha fatto una bandiera e ora che è iniziata la campagna elettorale i lavori sono diventati frenetici. Tra le proteste degli ecologisti, il plauso dei sovranisti e qualche sospetto di tangenti (Foto di Gaia Squarci)

Muro in costruzione su Monument Hill, al confine tra Messico e Stati Uniti all’interno dell’Organ Pipe Cactus National Monument, Arizona, Stati Uniti.
Quella notte del 9 novembre 1989, a Berlino, Maria Singleton stava celebrando la caduta del muro che divideva l’Europa insieme a suo marito, un militare americano in servizio nella Germania Ovest. «Ricordo tutto di quella serata berlinese, l’atmosfera era indescrivibile», racconta oggi all’Espresso dalla sua casa di Ajo, minuscola cittadina a sud dell’Arizona. Mai si sarebbe aspettata, lei che è nata in Colorado, di combattere trent’anni più tardi contro la costruzione di un altro muro ma nel suo Paese: quello al confine tra Stati Uniti e Messico. «Verso metà febbraio ho capito che i lavori stavano accelerando, quando il passaggio dei camion ha iniziato a svegliarmi al mattino: ne conto a decine ogni ora, non me ne capacito», aggiunge.

Ajo si trova a sessanta chilometri dal confine ed è la prima meta sulle mappe dei migranti provenienti dal Messico. Si trova alle porte di uno dei parchi naturali più amati dagli americani di confine - il Cabeza Prieta National Wildlife Refuge - e di una delle cinquantasei riserve naturali protette degli Stati Uniti, la Organ Pipe Cactus National Monument. Arrivando in macchina qui da Tucson, la strada statale 86 che passa attraverso la riserva dei nativi americani della Tohono O’odham lascia spazio alla 85. Il caldo secco penetra i finestrini dei camion diretti al confine.
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Superato un posto di blocco per il controllo dei documenti, all’orizzonte si staglia una macchia scura che si fa ingombrante alla vista: è il muro di Donald Trump, quello per cui è stato arrestato - e poi rilasciato dietro una cauzione di cinque milioni di dollari - il guru dell’estrema destra Steve Bannon, l’amico di Salvini e Meloni accusato di essersi intascato una parte dei fondi raccolti on line per la costruzione della barriera.

Ma le inchieste giudiziarie non fermano la costruzione: «Ogni volta che torno vedo il cantiere allargarsi: ci avevano promesso di prendersi solo una strisciolina di terra, a inizio lavori, ma non è così», dice Singleton, che fa parte dell’organizzazione dei Samaritani in Arizona e, con un gruppo di volontari dell’organizzazione No More Deaths aiuta i migranti che vengono a piedi dal deserto alla ricerca di Ajo.

Gli effetti della costruzione del muro già si vedono. Seguendo il percorso sabbioso dell’Organ Pipe, al parco naturale si affianca la linea del confine e si passa vicino alla Monument Hill, una collinetta considerata sacra dai nativi della riserva Tohono O’odham: le ruspe ora rischiano di sventrarla. «Vedere elementi naturali della nostra terra giacere per i parchi a causa dei cantieri è un colpo al cuore», spiega Laiken Jordahl, che lavora per il Center for Biological Diversity e testimonia sulla sua pagina Twitter le fasi della costruzione del muro. «È un’opera inutile, un simbolo politico giocato sulla pelle sia delle persone sia dell’ambiente».

Quella che un tempo era la terra dei cactus negli ultimi anni è diventato un luogo di morte. I pochi migranti che riescono ad attraversare questa fetta di confine, a causa del caldo torrido perdono conoscenza. Una volta svenuti, all’Organ Pipe o al Cabeza Prieta, spesso non si risvegliano più. E i loro corpi vengono ritrovati da volontari come Maria Singleton.
Maria Singleton, attivista e membro dei Samaritans of Arizona, è ritratta nella cittadina di Ajo, dove risiede in Arizona, Stati Uniti.

Un tempo questi territori erano trattati con i guanti di velluto, oggi sono la patria delle autovetture del Border Patrol americano a caccia di intrusi, delle betoniere e delle macchine che controllano l’andamento dei lavori. E dei camion a noleggio della Fisher Sand and Gravel, l’azienda del North Dakota che lo scorso maggio ha ottenuto dal governo federale un contratto da 1,28 miliardi di dollari per la costruzione di 42 miglia di muro. Più di trenta milioni per ogni miglio. Si tratta di una piccola parte delle circa 500 miglia che l’amministrazione Trump ha promesso di costruire entro fine anno. Solo 180 di questi sono stati completati. E 31 erano già sotto cantiere dall’anno scorso proprio con la Fisher Sand and Gravel, che aveva ottenuto un contratto da 400 milioni di dollari, finito sotto revisione per presunte sbavature procedurali.

La Fisher Sand and Gravel è conosciuta dai media negli Usa per due ragioni. Da una parte per l’amicizia che il proprietario, Tommy Fisher, intrattiene con il presidente Trump, che lo ha invitato al discorso dell’Unione già nel 2018, e con i rappresentanti repubblicani: secondo i documenti della commissione federale sulle elezioni, Fisher e la moglie hanno donato 5.400 dollari a testa al candidato senatore Kevin Cramer del North Dakota. Fisher ha anche donato, due anni fa, denaro alla campagna della senatrice dell’Arizona, Martha McSally. L’altra ragione riguarda le violazioni ambientali. Secondo quanto riportato alla Cnn da Bob Huhn, portavoce della Maricopa County Air Quality Department, dal 2007 al 2017 l’azienda ha commesso 1.300 violazioni sulla qualità dell’aria, per altri progetti che l’hanno vista coinvolta nella contea in Arizona.
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«Rispetto alle conseguenze sull’ambiente che vedremo con il muro, però, il passato è niente: la fauna, i volatili e i cactus verranno devastati da questa opera», dice Myles Traphagen, coordinatore dei programmi al confine per il Wildlands Network. Munito di cannocchiale, Myles si reca spesso sulla vetta della piccola montagna del Coronado National Memorial, da dove si può vedere lo stato dell’avanzamento dei lavori. «In questa zona abbiamo visto passare persino alcune specie rare di giaguari, che vanno avanti e indietro tra Stati Uniti e Messico senza sapere che stanno oltrepassando un confine».

Dalla vetta si nota la differenza di paesaggio tra la parte dove la barriera non c’è e quella dove invece già c’è. Nella prima, i colori della vegetazione si mischiano a quelli dei rigagnoli d’acqua. Nella seconda, le barriere difensive marroni costruite ai tempi di Bush si allacciano alle lastre color scuro promosse da Trump, alte circa dieci metri e destinate a superare, presto, anche il corso del fiume San Pedro, passando nel mezzo del San Bernardino Refuge, dove il rumore delle ruspe copre il cinguettio delle specie rare di volatili. «Trump non è l’unico ad aver voluto muri in questo Paese, ma è il primo che sta trattando la questione così, invocando l’emergenza nazionale per aggirare le norme sulle riserve naturali e i limiti di budget del Congresso», spiega Traphagen.

La storia del muro tra Stati Uniti e Messico è lunga, del resto. Per primo fu Bill Clinton a ordinare la costruzione di barriere all’altezza di El Paso e San Diego, dove il passaggio di migranti aumentò in modo esponenziale a metà anni Novanta. È poi toccato a George W. Bush, che spinse per l’approvazione del Secure Fence Act del 2006, un documento dove si diede il via libera alla costruzione di altre 700 miglia di muro. Un provvedimento che venne approvato anche con i voti di diversi Democratici, tra cui l’allora senatrice di New York Hillary Clinton e l’allora giovane senatore dell’Illinois, Barack Obama.

«Il muro è un simbolo forte a livello mediatico, ma non risolve i problemi: la differenza tra le barriere di Clinton e Bush e le miglia di Trump è che in questo caso sta cadendo ogni forma di rispetto dei vincoli ambientali e la dignità degli esseri umani viene calpestata», attacca ancora Myles. Nonostante gli sforzi e le battaglie legali nei tribunali, i lavori procedono rapidi: «Continueremo a combatterla, ma temo che questa sia una battaglia che abbiamo già perso», prosegue.

Anche perché c’è chi, nelle terre di confine dell’Arizona, difende l’idea dell’alta parete divisoria. È il caso di Jorge e Betty Rivas, proprietari del ristorante messicano Sammy’s a Catalina, estremo sud dell’Arizona. Il loro locale è a tema Make America Great Again, con le foto e i colori della campagna di Trump in ogni angolo. Dopo essere apparsi nelle prime file di un comizio del presidente a fine febbraio a Phoenix, un lungo elenco di cattive recensioni online ha macchiato la loro reputazione, così il presidente li ha resi famosi.

A inizio marzo ha consigliato su Twitter a tutti i suoi follower in Arizona di andare a mangiare da loro. A maggio li ha invitati a salire sul palco dell’ultimo comizio. «Mi piace Trump perché non è un politico di professione, conosce i valori del nostro Paese e sta proteggendo l’idea del sogno americano che mi ha portato qui», spiega Jorge all’Espresso, mentre si allunga la fila davanti al ristorante. Nella sua storia c’è dentro tutto. Nato in El Salvador, ha combattuto da adolescente la guerra civile dalla parte del governo. «Ho visto morire molti della mia famiglia», dice mentre tiene lo sguardo fisso sul tavolo. A 17 anni si trasferì negli Usa passando da quel confine che ora il muro vuole sigillare. Ha sposato Betty, messicana, ha aperto il ristorante. Ha votato Barack Obama nel 2008 e Trump otto anni più tardi. «Dobbiamo proteggere i nostri confini perché senza quelli non esiste nazione», spiega.

E a chi gli fa notare che, con le regole di oggi, trent’anni fa non avrebbe potuto costruirsi una seconda vita in America, risponde netto: «Se accogliamo tutti non c’è spazio per nessuno. Io arrivai da solo durante una guerra civile, non con una famiglia a carico come succede adesso». El Salvador, da cui molti migranti arrivano oggi negli Usa, è il terzo Paese al mondo con più vittime di violenza per le gang criminali, dopo Siria e Sud Sudan. «Ma se vogliono risolvere i loro problemi possono farlo già oggi: vengo da lì e ho visto, spetta solo a loro. Il muro, così come serve ora, domani può sempre essere buttato giù».

Per i nuovi Jorge, però, l’opportunità di una seconda vita potrebbe non esserci. Complice anche la crisi coronavirus, l’amministrazione Trump ha rafforzato i sigilli al confine per qualsiasi nuova richiesta d’asilo. Chi arriva dal Messico resta in Messico, spesso rischiando la vita in una delle città di confine. Chi riesce a passare negli Stati Uniti in Arizona, la vita la perde tra i cactus della Organ Pipe. «Pensavo avessimo imparato la lezione quella notte a Berlino», riflette Maria Singleton: «Evidentemente mi sbagliavo».