Sotto scorta per le minacce dei boss, Lorenzo Diana è stato accusato di aver agevolato i clan. Per archiviare l'indagine ci sono voluti cinque anni
Lorenzo Diana «è uno di quei politici che hanno deciso di mostrare la complessità del potere casalese e non di denunciare genericamente dei criminali. È nato a San Cipriano d’Aversa, ha vissuto osservando da vicino l’emergere del potere di Bardellino e di Sandokan, le faide, i massacri, gli affari. Può, più di ogni altro, raccontare quel potere, e i clan temono la sua conoscenza e la sua memoria. Temono che da un momento all’altro possa risvegliarsi l’attenzione dei media nazionali sul potere casalese, temono che in Commissione Antimafia il senatore possa denunciare ciò che ormai la stampa ignora, relegando tutto a crimine di provincia. Lorenzo Diana è uno di quei rari uomini che sanno che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina, quella di ricominciare ogni volta da capo, dall’inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale. Lentamente ma con costanza, con rabbia, anche quando ogni attenzione si dilegua, anche quando tutto sembra davvero inutile e perso in una metamorfosi che lascia alternare poteri criminali a poteri criminali, senza sconfiggerli mai».
Non è elegante autocitarsi, ma queste sono le parole che in “Gomorra”, nel 2006, dedicai all’impegno politico e civile di Lorenzo Diana, che per 21 anni ha vissuto sotto scorta per le minacce ricevute dal clan dei casalesi.
Tre volte parlamentare e segretario della commissione Antimafia, per cinque anni e mezzo Lorenzo Diana è stato ostaggio di una vicenda giudiziaria - e umana - che mi ha lasciato dell’amaro in bocca che non so descrivere. Nel luglio 2015 fu raggiunto da un avviso di garanzia, era indagato per concorso esterno in associazione mafiosa per aver agevolato - questa era l’accusa - il clan dei casalesi, lui che era sotto scorta per le minacce ricevute proprio dal clan Zagaria! E poi ancora, indagato per abuso d’ufficio in un altro filone di indagine, viene interdetto dai pubblici uffici e costretto al divieto di dimora in Campania. A maggio 2019 arriva la prima archiviazione su richiesta della stessa Procura, e pochi giorni fa è arrivata la seconda a mettere un doloroso punto. Doloroso perché, per cinque anni e mezzo, la vita di Lorenzo Diana è stata appesa a un avviso di garanzia che in Italia, per (quasi) tutti, è già una sentenza di condanna. Ho letto in questi giorni le parole dolorosissime che ha pronunciato, parole che tutti dovremmo leggere per capire quali sono i risvolti umani e politici di una giustizia che, prima di tutto nei tempi, non è giusta. Cinque anni e mezzo per un’archiviazione… Quanto sarebbe durato un eventuale processo? Circa dieci, dodici anni. La giustizia in Italia è malata, molto, molto malata.
In Italia, la distanza temporale tra l’inizio di un procedimento penale e la sua definizione finiscono per rendere un avviso di garanzia, a dispetto del nome, già di per sé una condanna. E per una persona onesta, che si è opposta a una criminalità potentissima, la condanna peggiore è essere accusato di vicinanza a quei mondi e di conseguenza trattato come un corpo estraneo. La macchina giudiziaria - a volte mi capita di immaginarla come un marchingegno mostruoso - può travolgere tutto ciò che incontra se non gestita con capacità e professionalità, e arriva persino a sacrificare vite sull’altare di un bene superiore che magari neppure esiste o, peggio, sull’altare di ambizioni personali smisurate.
La vicenda di Lorenzo Diana porta con sé riflessioni che partono da ciò che è accaduto a lui per giungere, ancora una volta, alla assoluta necessità di una riforma organica del sistema giudiziario, poiché il processo penale italiano è completamente fallito. Se questo non accadrà, e se non si metteranno realmente al centro dell’accertamento le garanzie di chi subisce un procedimento penale, continueremo a vivere il dramma che stiamo vivendo da troppi anni. Una realtà kafkiana nella quale basta essere indagati per essere colpevoli e interdetti dai pubblici uffici fino a data da destinarsi.
Ho letto che Lorenzo Diana vorrà chiamarmi per dirmi che non ho fatto male a citarlo in “Gomorra,” sarò felice di sentirlo e approfitterò per rispondergli che lo so: lo so che non ho fatto male. Le battaglie di Lorenzo Diana le ho sentite mie e, se non fosse stato per il suo impegno, forse non avrei avuto tanta passione nel raccontare la nostra terra.
Spero che con l’archiviazione arrivi qualcosa di più, non solo tante chiacchiere e poche scuse. Diana, come scrissi in “Gomorra”, ha conoscenza e ha memoria, e queste sono risorse fondamentali per una terra ferita a morte.