Elly Schlein: «Con Joe Biden il potere alle donne. E un altro modo di governare»
«Mentre in Italia va in scena una crisi al testosterone, il presidente americano mette al centro la diversità, marginalizzata da Trump. Non è una questione estetica: sono simboli che diventano atti». «Conte fatica a dirgli "bravo"? Si adatterà, l'ha già fatto cambiando maggioranza»
La sapiente costruzione simbolica di un’America diversa, dove già dal giuramento ogni cosa – l’icona Lgbtqi lady Gaga, il grido “Libertad y justicia para todos” di J-Lo, i guanti di Bernie Sanders, per non parlare della poetessa Amanda Gorman - sembra pensato per fare bye bye a Trump. Il mantra dell’unità, che ricorda Romano Prodi. I primi atti di governo, dove già si comincia a tradurre in concreto la «ricucitura» delle disuguaglianze. Un orizzonte italiano pieno di similitudini ma ancora troppo arretrato, persino nella crisi di governo «tanto testosteronica», per potervi immaginare una versione nostrana del duo presidenziale che vede ora per la prima volta una vicepresidente, donna, di colore e figlia di immigrati. Così, una e trina, Elly Schlein studia i primi passi dell’Era Biden: americana per parte di padre, attivista dieci anni fa in entrambe le campagne elettorali di Barack Obama, rappresentante della sinistra che governa, da vicepresidente dell’Emilia Romagna di Stefano Bonaccini, Schlein osserva, paragona, prende appunti. Spera. Che funzioni, intanto.
Dopo quattro anni di tossicità trumpiana, Biden è chiamato a riportare la normalità. Che effetto fa? È un momento denso di significato, soprattutto per ciò da cui veniamo, anni di polarizzazione che è arrivata al suo culmine con l’assalto al congresso, quando la protesta voluta da Trump è diventata una irruzione armata: un fatto gravissimo, che dice tanto anche sulla responsabilità di chi governa e fa politica, rispetto al messaggio che veicola. Non si è arrivati lì dall’oggi al domani: ci sono voluti anni di lavoro per polarizzare, aizzare rabbia e divisioni, addirittura attraverso le bugie: la bugia principale che era sui cartelli di quel giorno, “stop the steal”. Veniamo da lì, quindi è chiaro che il presidente Biden come primo messaggio abbia mostrato la consapevolezza che il più difficile compito sarà ricucire un Paese profondamente diviso. Lo era anche prima, grandi disuguaglianze ci sono sempre state: ma ora si è caricato di un odio che avvelena i pozzi dell’ordinamento democratico, svelandone tutta la fragilità.
La democrazia è fragile, ha detto Biden insediandosi. È questa l’eredità più pesante del trumpismo?
La fragilità delle democrazie è stata resa evidente con i fatti del 6 gennaio: ma è un rischio, un campanello di allarme forte ben oltre i confini degli Stati Uniti, perché la polarizzazione della politica è un processo che conosciamo perfettamente anche in Europa e in Italia. Non è un caso che il secondo messaggio più forte di Biden sia stato di dover riportare al centro del discorso pubblico la verità. Trump è stato un maestro dell’utilizzo di realtà mistificate, e questo ha avuto ripercussioni nel resto del mondo, ha saldato un metodo che ha preso molto fiato sotto la sua presidenza. Siamo vasi comunicanti da questo punto di vista, c’è un filo conduttore nero che unisce le vicende dei nazionalisti oltreoceano e quelli europei e italiani. Ed è stata anche una grande occasione mancata, per Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non prendere distanze da quanto accaduto con l’attacco al cuore della democrazia americana.
Quanto è difficile, adesso, girare pagina? Già con la cerimonia di insediamento abbiamo visto l’immagine di un’America che apre una stagione diversa, partendo dalla sua costruzione simbolica: dopo il primo giuramento da vicepresidente di una donna di colore e figlia di immigrati, Kamala Harris, abbiamo visto al microfono una giovane poetessa di 23 anni: Amanda Gorman, antirazzista, femminista, con una disabilità auditiva, voce della intersezionalità. Perché siamo fatti di dimensioni identitarie sovrapposte e le diseguaglianze non si elidono fra loro, ma si sommano: è quindi stato importante vederla sul palco, già quella scelta trascende la dimensione del simbolo e si fa atto, riconoscimento. Kamala Harris aveva citato John Lewis, nel discorso dopo la vittoria, dicendo che la democrazia non è uno stato ma è un atto. Ecco, mi è sembrato di cominciare a vedere questo atto, dopo che per quattro anni Trump ha tentato di marginalizzare la diversità. Adesso è momento di capire se questa attenzione si traduca anche in politiche redistributive che sanino le disuguaglianze. Questo è lo scatto in avanti che ora serve: dopo l’immagine di una America diversa, politiche tese a ridurre quei divari che secondo tanti analisti spiegano il consenso raccolto dai nazionalisti. Qualcosa che è mancata alla stagione di Barack Obama, che era riuscito a rilanciare una economia in crisi, ma probabilmente non a redistribuire gli effetti di quel rilancio tra le classi più fragili.
Biden ha molto insistito, in campagna elettorale sui divari da ricucire: quelli di ricchezza e di reddito, territoriali, di genere, ma anche quelli che hanno visto crescere il razzismo. Ora sono centrali politiche che ridistribuiscano, perché gli Usa sono il Paese del culto del merito, e questo ha rimosso la questione delle diseguaglianze, ha rimosso - spesso anche nei discorsi dei democratici - la questione della disparità nelle condizioni di partenza. L’idea, lì, è sempre stata quella che se ti impegni, ce la puoi fare. Ma invece dipende: da dove nasci, di che colore, cosa fanno i tuoi. È perciò che non posso che pensare, anche di fronte a scene simboliche così importanti, alle parole di Michela Murgia: avere successo e basta non è femminista. Femminista è usare quel successo per rendere possibile anche ad altre il superamento degli ostacoli sessisti che in una cultura patriarcale impediscono di essere riconosciute e valorizzate.
I primi atti esecutivi di Biden vanno in questa direzione?
Fanno ben sperare. Sembra deciso a cancellare volto più nefasto dell’amministrazione Trump. A partire da mascherine obbligatorie e rientro nell’Oms. E poi in tutta la questione climatica, si vede una attenzione diversa: rientra negli accordi di Parigi ma non solo; conferma, dalle nomine, di aver capito che serve un approccio trasversale, che guardi a tutti i settori del governo. E dunque via la deregulation sulle emissioni delle auto, moratoria sulle trivellazione nelle parti più remote dell’Alaska, protezione di parchi e riserve, ma anche revoche di permessi per le condutture petrolifere. Anche il fatto di aver nominato Kerry, a lungo impegnato in diplomazia internazionale sui cambiamenti climatici, e di farlo sedere nel consiglio di sicurezza. Sono primi segnali. Sulle disuguaglianze ha iniziato forte: c’è la regolarizzazione, la fine del muslim ban, ha cancellato la costruzione del muro, l’intendimento di escludere dal censimento le persone irregolari. E c’è l’ordine agli uffici federali di considerare la piena uguaglianza, la parità di genere. Ci sono già dei buoni motivi di sperare che si apra una stagione nuova, di politiche redistribuitive e coraggiose, che sono piaciute molto ai progressisti: l’american rescue plan, un piano di millenovecento miliardi per contenere gli effetti devastanti della pandemia, un Next generation Ue versione Biden, nel quale il presidente ha anche preso su di sé quello che era un obiettivo di Sanders: alzare il salario minimo a 15 dollari l’ora, per sollevare dalla povertà 12 milioni di americani.
La preoccupazione di superare le divisioni, di riunire il Paese, potrebbe portare Biden a scontentare la sinistra che ha contribuito in maniera essenziale alla sua elezione? È presto per dire quale strategia adotterà, se questo richiamo all’unità segna anche l’intenzione di un dialogo bipartisan, oppure se, forte della maggioranza anche al Senato, sarà più libero di accogliere proposte forti che arrivano dall’ala progressista. Interessante sarà capire i movimenti tra i repubblicani: molti hanno preso le distanze a fronte degli ultimi eccessi di Trump. Biden tenderà loro la mano? In una fase di emergenza, sta cercando i trovare un compromesso alto: una crisi senza precedenti richiede strumenti senza precedenti. Fa anche uscire da molti dogmi.
La pandemia ha avuto effetti inaspettati sulla politica, in tutto il mondo. Ha segnato un risveglio per l’Europa, anche quello senza precedenti, facendo venir meno in poche settimane dogmi che avevano ingessato per anni il dibattito. Ha tolto molto terreno ai nazionalisti, da un certo punto di vista: non solo perché siamo tutti più vicini, ma perché sono salite in superficie le loro contraddizioni. Questo non vuol dire che il rischio sia diminuito: la minaccia anzi è ancora più viva, perché rischiamo fratture ancora più profonde del tessuto sociale, se non interveniamo in modo adeguato. Ma si possono fare politiche redistributive con la pandemia: in Emilia-Romagna, nel nostro piccolo, lo stiamo dimostrando.
I presidenti democratici sono sempre stati un modello per le sinistre europee: è accaduto con Clinton, con Obama. Che modello è per l’Italia il duo Biden-Harris? E come faccio a rispondere? Penso che i contesti siano troppo diversi per parlare di un modello. Lo dicevo dopo aver partecipato alle campagne di Obama, figuriamoci adesso. Molto interessante sarà vedere cosa arriverà di questa attenzione alle diversità che negli Stati uniti è stata già trasmessa in molte nomine. Abbiamo ad esempio una donna a guidare l’intelligence, una donna di colore a rappresentare gli Usa alle Nazioni unite. E non è una questione estetica. È un metodo diverso di intendere il governo di un Paese che è fatto di diversità. Rispetto a questo in Italia c’è ancora troppo poco: anche questa crisi di governo che abbiamo appena visto, molto muscolare e troppo testosteronica.
Che giudizio dà di un presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che dopo gli anni da «Giuseppi», di grande sintonia con Trump ha fatto così fatica a dire «viva Biden»?
Non ci dobbiamo dimenticare che Conte ha iniziato la sua esperienza come componente di una maggioranza in cui c’erano diretti sostenitori di Trump. Ma così come si è adattato a una maggioranza così diversa dalla prima in Italia, sono certa che con l’America riprenderà una relazione assolutamente positiva, per affrontare le sfide della nuova fase. Sperando che si chiuda del tutto, il prima possibile, questa crisi che ho trovato irresponsabile aprire ora e che è stata molto incomprensibile, sia per il Paese che per i nostri interlocutori esterni. In questo momento serve un rilancio, bisogna mettere giù un programma di cose da fare, e trovare in Parlamento la forza per realizzarle. Ci sono ferite da sanare, e non sono tanto diverse da quelle americane.
In queste settimane la fragilità della democrazia americana e della nostra si sono intersecate in molti modi. Quanto sono lontane e quanto vicine, America e Italia? Alcune sfide cruciali su cui ci giochiamo il futuro, come la crisi climatica e la lotta alle disuguaglianze, sono comuni. Dal punto di vista politico, mi viene in mente che l’Italia è stata un precursore di questa polarizzazione che vediamo dispiegata in America. La cultura che mistifica i fatti, il non avere una base di verità. L’aver avuto per anni attacchi al mondo accademico, alla stampa, al sistema giudiziario. Tutto questo alla fine mi ha fatto ricordar gli anni del berlusconismo. Noi abbiamo avuto già un miliardario che ha consolidato in quel modo il proprio consenso, ritenendosi al di sopra delle leggi. E allora forse non è un caso se in Italia già qualcun altro, in passato, era arrivato a contrapporre come rimedio a quella polarizzazione la ricerca, anzitutto, di unità: Romano Prodi.