C'è un altro virus che colpisce l'Italia: quello della divisione nazionale. E lo spettacolo penoso offerto dalla politica in questi giorni ne è la sua massima rappresentazione

«La democrazia è preziosa, la democrazia è fragile, la democrazia ha vinto», ha detto Joe Biden nel formidabile incipit del discorso con cui ha inaugurato i suoi quattro anni di presidenza degli Stati Uniti, la mattina di Washington del 20 gennaio, alla stessa ora in cui, due settimane prima, il Parlamento era stato profanato da un attacco di stampo terroristico. Il cattolico democratico Biden conosce bene la seconda lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo: «Perché, quando sono debole, allora sono forte». Vale per la singola persona, vale per una comunità. La democrazia è un sistema fragile. Un meccanismo delicato di istituzioni e di rappresentanza del popolo, delle sue aspirazioni e delle sue inquietudini. E solo a partire dal riconoscimento della sua fragilità la democrazia è forte. La democrazia non è la conquista di un giorno, è una tensione, un processo che non si appaga mai, come ha ripetuto Biden: «il dissenso e il disaccordo non devono portare alla disunione... la nostra storia è stata una lotta costante tra l’ideale americano, che siamo stati creati uguali, e la dura e brutta realtà dove il razzismo, il nativismo e la paura ci hanno diviso. La battaglia è perenne e la vittoria non è mai certa».


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Nell’Inauguration Day erano rappresentate tutte le battaglie di due secoli e mezzo di storia americana: la lotta contro la discriminazione di genere, per l’emancipazione razziale, per il pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza di tutti. Le donne e gli afroamericani, calpestati dal predecessore di Biden Donald Trump, protagonisti della nuova stagione: la forza della vice-presidente Kamala Harris, certo, ma anche la fragile fierezza della poetessa Amanda Gorman, la «magra ragazzina afro-americana cresciuta da una mamma single» di 23 anni, come si è definita, che ha letto i suoi versi davanti al nuovo presidente, come fece Robert Frost davanti a John Kennedy nel 1961: «Dove possiamo trovare la luce in questa ombra infinita? La nuova alba sorge mentre la liberiamo. Perché ci sarà sempre luce se avremo il coraggio di vederla. Se avremo il coraggio di essere quella luce».

La notte è sempre più scura quando il mattino sta arrivando, lo sa bene la sentinella del profeta Isaia. C’è anche questo nella nuova alba della democrazia americana: lo spirito religioso che è la barriera alla tentazione di trasformare la politica o il capitale, lo Stato o il mercato, in idoli da adorare. L’opposto del clericalismo, della pretesa della Chiesa di farsi le leggi da sé o della politica di utilizzare la religione a fini di consenso. «La tesi americana è che il governo non può essere giuridicamente onnipotente, che i suoi poteri sono limitati e che uno dei principi che regolano questa limitazione è la distinzione tra Stato e Chiesa nei loro metodi, scopi e forme di organizzazione», scriveva il padre gesuita John Murray nel 1960, in un testo appena ristampato (“Noi crediamo in queste verità. Riflessioni cattoliche sul principio americano”, Morcelliana), con l’introduzione di Stefano Ceccanti che l’Osservatore Romano ha pubblicato il giorno dell’insediamento di Biden. Una scelta non casuale, l’ennesimo segno di collegamento tra la nuova presidenza americana e la Chiesa di papa Francesco.


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I predecessori di Biden hanno affrontato numerosi nemici esterni: il nazismo, il comunismo, l’Unione sovietica, il terrorismo islamico che venti anni fa attaccò sul suolo americano, a New York e a Washington. Il nuovo presidente e la sua vice Harris devono fronteggiare e sconfiggere il pericolo più insidioso, il nemico interno. Il terrorismo fascista e nazista, il suprematismo bianco che negli anni di Trump ha dilagato anche nelle forze di sicurezza, come raccontano Paolo Biondani e Leo Sisti nell’inchiesta di copertina, una versione americana della strategia della tensione che l’Italia conosce bene. Ma il nemico interno si alimenta di nuovo carburante: la sfiducia, la disgregazione che è un altro effetto indesiderato e spaventoso della pandemia, la pretesa di farsi ognuno una verità da sé, con i social che sono stanze chiuse, inaccessibili al dibattito democratico, che trasformano ossessioni, complottismi, paranoie in dogmi assoluti, armi da scagliare contro chi la pensa in modo diverso, quelli che «non leggono le notizie dalla vostra stessa fonte», come ha detto Biden. Il nemico interno che si nutre della fragilità della democrazia per corroderla dalle fondamenta.

Anche l’Italia ha il suo nemico interno. In parte è lo stesso: il virus della divisione nazionale aggravato dalla tragedia del covid e delle sue conseguenze economiche e sociali. Enrico Giovannini parla del pericolo per il 2021 su donne e giovani, quando finirà il blocco dei licenziamenti. Di fronte a tutto questo lo spettacolo offerto in questi giorni è stato pietoso. Siamo al governo Rossi-Ciampolillo, la strana coppia, Maria Rosaria Rossi, l’ex tesoriera di Forza Italia, con l’ex grillino Alfonso Ciampolillo che ha preso la residenza sotto un ulivo per difenderlo dalla xylella da combattere, secondo lui, con le onde elettromagnetiche o con il sapone. Con questo curriculum vorrebbe fare il ministro.

Sarebbe folklore, se non fosse dramma. In America le donne sono protagoniste della svolta, noi abbiamo visto ministre dimissionarie rese mute dal leader maschio, un altro capo politico intervistato al posto della moglie senatrice: una crisi testosteronica, di maschi insicuri impegnati a predominare uno sull’altro, come dice Elly Schlein a Susanna Turco. C’è un partito che ha lasciato la maggioranza in una resa dei conti (Italia Viva di Matteo Renzi), quello che aveva vinto le elezioni del 2018, il Movimento 5 Stelle, oggi è inerte, muto, è lo scaffale di un supermercato in cui fare shopping. C’è l’assembramento dei partitini e dei casi singoli, l’Udc di Lorenzo Cesa in guai giudiziari e i reduci teo-dem alla Paola Binetti che miniaturizzano lo spirito di fede della democrazia americana, che hanno consegnato il terzo settore e il cattolicesimo politico a una piccola schiera di sacrestani ambiziosi. C’è la destra sociale di Renata Polverini e c’è il muratore Riccardo Nencini. C’è, infine, l’opposizione di centro-destra, divisa su tutto. Se avessero preso un’iniziativa seria, il governo sarebbe caduto. Ma dietro i proclami i tre partiti hanno tre linee diverse: Giorgia Meloni insegue ogni protesta, Forza Italia vorrebbe sostenere dall’esterno la maggioranza, in mezzo Matteo Salvini che ha smesso di fare politica al Papeete, o all’hotel Metropol di Mosca.

Come tutto questo possa comporsi in un progetto è il rovello che interroga i due assi portanti del sistema, gli unici che restano. Un soggetto politico: il Pd di Nicola Zingaretti, che può consolarsi con la sconfitta di Renzi ma che non può farsi carico di una situazione imbarazzante, in cui diventa impossibile governare. Un soggetto istituzionale, il più alto: il Quirinale, il presidente Sergio Mattarella, il punto di equilibrio ma anche di sfogo di ogni tensione, sociale e politica. Il senso di tutta una legislatura vissuta all’insegna dell’emergenza, prima il governo gialloverde, poi il virus, rischia di naufragare se l’istinto di sopravvivenza dei protagonisti finisce per danneggiare il Paese, la necessità di realizzare il Piano di riforme richiesto dall’Europa, la crescita che non può essere confusa con i ristori, l’urgenza delle scelte.

Quello che si prova a costruire è un impasto di spesa pubblica a debito, il manuale Cencelli delle poltrone, la legge elettorale proporzionale che impedirà ai cittadini di indicare con il voto un governo e una coalizione, oltre che i propri rappresentanti. Per l’Italia è un drammatico salto all’indietro, nella fase terminale della Prima Repubblica, senza che a gestirlo siano i partiti dell’epoca. Quell’avventura collettiva e esistenziale per cui si è speso fino all’ultimo un dirigente del partito comunista italiano come Emanuele Macaluso. Tocca a chi ha una responsabilità politica e istituzionale evitare questo scenario disastroso. Il trasformismo è l’altro volto del populismo, un male alimenta l’altro: è stato così negli anni Venti del secolo scorso, è così oggi. Se ne esce con la politica democratica: cultura di riferimento, partiti, rapporto con i territori e con la società.

È la nostra «collina da scalare», per citare ancora Amanda Gorman. E siamo lontani dalla fragile forza del rito democratico americano. Il presidente Biden ha firmato in pochi minuti 17 provvedimenti, con decine di milioni di voti popolari alle spalle, dopo aver combattuto e vinto contro la destra peggiore. Noi abbiamo impiegato più di un anno per emendare i decreti Salvini con una maggioranza che gli elettori non volevano. La cosa stupefacente è che si lavora per moltiplicare questa situazione all’infinito. La nostra è la liturgia dell’impotenza.