La lettera contro il professore pubblicata sulla stampa locale è stata una manovra dei vertici regionali, con i medici di Padova «presi per il collo» dalle «alte sfere». Un'inchiesta dell'Espresso svela i retroscena politici della gestione della pandemia nelle zone più colpite, da Milano a Venezia

Un'inchiesta dell'Espresso svela i retroscena politici della gestione dell'emergenza covid nelle regioni più colpite nella prima e nella seconda ondata: Lombardia e Veneto. Nel numero in edicola da domenica 10 gennaio, già disponibile nella versione online, vengono ricostruite con testimonianze e documenti inediti, in particolare, un serie di manovre dei vertici regionali per screditare il professor Andrea Crisanti, l'artefice della massiccia campagna di controlli con i tamponi molecolari organizzata dall'ospedale-università di Padova, che era risultata decisiva per limitare i contagi e il numero di vittime tra febbraio e giugno. Con la tregua estiva, lo scienziato è stato emarginato dalla giunta Zaia, che ha spostato a Treviso e Venezia il coordinamento dei test sul virus. A partire da ottobre, con la seconda ondata della pandemia, il Veneto è diventato la regione italiana con il più alto numero di contagi e morti per covid.

Al centro del caso c'è la questione dei test rapidi, il sistema di controllo, diverso dai tamponi molecolari, a cui si è affidato per primo proprio il Veneto, che ha poi coinvolto altre zone d'Italia grazie agli accordi raggiunti nella Conferenza delle regioni presieduta dal governatore emiliano Stefano Bonaccini. Le prime verifiche cliniche, condotte dallo staff di Crisanti nei laboratori di Padova, evidenziano che questi test veloci hanno alti margini di errore: la cosiddetta sensibilità al virus è del 70 per cento, quindi tre positivi su dieci rischiano di passare per negativi. E in un caso su dieci, la falsa negatività riguarda addirittura pazienti con «carica virale molto elevata»: i cosiddetti super-diffusori, cioè persone in grado di far esplodere nuovi focolai, nella erronea convinzione di non essere contagiosi.

La verifica, condotta dallo staff di Crisanti con la collaborazione dei responsabili del pronto soccorso e delle malattie infettive dell'ospedale universitario di Padova, viene pubblicata il 21 ottobre. In quel momento è in corso una gara d'appalto da 148 milioni di euro per una maxi-fornitura di test rapidi in sette regioni, con capofila il Veneto, che coinvolge anche Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Trentino. All'affare è interessata anche una grande multinazionale straniera.

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Pochi giorni dopo, su un giornale veneto filtra una lettera interna all’ospedale di Padova, indirizzata al direttore Luciano Flor, dove i primari del pronto soccorso, Vito Cianci, e delle malattie infettive, Anna Maria Cattelan, sembrano prendere le distanze dallo studio sui limiti dei test rapidi, sostenendo di non essere «mai stati contattati da Crisanti».

Ora l'Espresso ha scoperto i retroscena politici di quella lettera. Che non metteva in dubbio i risultati della ricerca di Crisanti, ma replicava ad accuse di aver violato la privacy dei pazienti o le formalità procedurali di autorizzazione dei test clinici. E non fu spontanea, ma sollecitata «dalle alte sfere» della Regione Veneto, secondo l'espressione utilizzata nei giorni successivi da uno dei due primari, per spiegare l'accaduto ai collaboratori. Anche l'altro primario, parlando con medici che avevano partecipato ai controlli, ha confermato le pressioni dei vertici regionali, con queste testuali parole: «Siamo stati presi per il collo, con tutte le relative possibili minacce sottostanti».

Dopo la prima lettera, Cianci e Cattelan avevano anche inviato una seconda comunicazione scritta al direttore dell'ospedale, con la precisazione che la verifica sui test rapidi era avvenuta «nell’ambito di un approfondimento diagnostico in pazienti sintomatici per sospetto covid-19 sulla base di criteri clinici e gestionali». Ma alla stampa veneta è stata passata solo la prima lettera, dove sembrava che Crisanti avesse fatto tutto da solo, utilizzando i dati clinici dei pazienti senza autorizzazione.

Già in settembre una direttiva ministeriale firmata dal professor Giovanni Rezza, che è uno dei più importanti scienziati italiani nello specifico settore delle malattie infettive, avvertiva che i test rapidi possono servire a identificare focolai in una massa di persone, ad esempio «in porti, aeroporti o scuole», ma per i singoli individui rischiano di fornire «risultati falso-negativi». Il ministero della Salute e l'Istituto superiore di sanità, quindi, continuano a registrare tra i contagiati solo i pazienti che risultano positivi ai tamponi molecolari.

Dopo il caso della lettera, tra i medici veneti è partita una raccolta di firme, promossa dal sindacato Anaao, per contestare il progetto di sostituire i tamponi molecolari con i test rapidi per i controlli sul personale sanitario. L'appello esortava i vertici della Regione Veneto a «non risparmiare sugli “eroi” della prima ondata lasciando subdolamente aperte le porte degli ospedali al virus, mettendo così in pericolo gli operatori sanitari, le loro famiglie, i cittadini».

Il 20 novembre scorso anche il Comitato tecnico-scientifico (Cts) della stessa regione, mai interpellato prima, ha preso le distanze dai test rapidi, chiedendo di sottoporre medici e infermieri veneti a «esami molecolari»: almeno uno ogni otto giorni. Tra i firmatari, oltre a Crisanti, spicca il nome dell’infettivologa Cattelan.