Il ruolo delle milizie, la supremazia dei poteri locali, lo Stato bloccato. L’analisi dell’esperto Gastone Breccia

Il ventennio 1911-1931, gli anni dell’impero dopo la guerra ottomana, il colpo di Stato del 1969 che porta al potere Muammar Gheddafi, inaugurando un regime quarantennale, e il decennio post rivoluzionario che fa emergere tutte le inalterate fratture del Paese. Sono le fasi della storia libica raccontate nel libro di Gastone Breccia e Stefano Marcuzzi, “Le guerre di Libia” (il Mulino ), a dieci anni dalla morte di Gheddafi.

Partirei dal sottotitolo: un secolo di conquiste e rivoluzioni. In un quadro generale, tutte le conquiste e le rivoluzioni sembrano essere rimaste incompiute, nella vecchia e nella nuova Libia.

«È così. La Libia si è rivelata difficilissima da conquistare per motivi legati alla morfologia del territorio, al clima e alla frammentazione etnico-politica interna. Ogni tassello del mosaico libico va occupato e controllato, non si può sperare in un effetto domino a vantaggio di chi tenta di estendere la propria egemonia sul Paese. Allo stesso tempo il desiderio di rinnovamento sociale e politico che mette in movimento e dà slancio alle rivoluzioni non si è mai manifestato in tutta la sua forza, perché sempre limitato da legami di fedeltà e interesse locali e tribali. Per questo le rivoluzioni libiche si sono risolte in una ridefinizione degli equilibri di potere interni, più che in una trasformazione strutturale della società».

 

La prima parte del libro compie un’attenta ricostruzione della guerra Italo-turca combattuta tra il 1911 e il 1912. La Libia era considerata allora un fertile territorio da coltivare, ricco di giacimenti di zolfo. Erano gli anni di “Tripoli bel suol d’amore”, il brano scritto da Giovanni Corvetto per propagandare la guerra del Regno d’Italia contro l’Impero ottomano per la conquista della Libia. A distanza di oltre un secolo i protagonisti delle competizioni sul territorio restano gli stessi. L’Italia con i suoi interessi in Tripolitania, e la Turchia, peraltro di nuovo con ispirazioni ottomane. Quali sono gli aspetti di quel conflitto che dovrebbero darci degli insegnamenti ancora oggi?

«Da storico confesso che è difficile non subire il fascino della “longue durée”: a più di un secolo di distanza Erdogan si fa interprete dei vecchi interessi geopolitici ottomani, e pensa di riutilizzare la Libia come avamposto nel Mediterraneo occidentale; l’Italia, più modestamente, cerca di non perdere del tutto il controllo sulla vecchia “quarta sponda” per arginare i flussi migratori, destinati, secondo ogni verosimiglianza, ad aumentare nel prossimo futuro, e per non perdere terreno  in campo energetico. Le parti si sono rovesciate: nel 1911 l’Italia invase le province ottomane di Tripolitania e Cirenaica, oggi invece è la Turchia a tenere un atteggiamento aggressivo, mentre il nostro paese è costretto a lottare - quasi esclusivamente con le armi della diplomazia - per non perdere del tutto le proprie posizioni in Libia. Quanto agli insegnamenti della guerra Italo-turca ne indicherei soprattutto uno: la “vittoria”, in conflitti di questo tipo, non viene dall’aver sconfitto sul campo le forze armate avversarie, ma dall’essere riusciti con pazienza, nello spazio di molti anni, a portare avanti sia un’azione militare di soffocamento dell’insurrezione armata, sia un’azione politico-sociale capace di coinvolgere elementi locali nella gestione del potere e di avviare lo sviluppo economico».

 

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Lei ripercorre la storia dell’esperienza coloniale italiana in un lungo, dettagliato capitolo. Quali sono stati, secondo le sue ricerche e analisi, gli aspetti che abbiamo sottovalutato, trascurato, nell’analisi della vicenda coloniale italiana?

«Durante il periodo fascista, l’analisi è stata condizionata dall’ideologia: la missione civilizzatrice dell’Italia mussoliniana è stata la lente deformante che ha impedito una valutazione corretta di quello che stava accadendo in Libia. Nel secondo dopoguerra, specularmente, l’analisi è stata spesso parziale e viziata dal peso delle colpe del regime fascista. La Libia del 1939 era un Paese timidamente avviato sulla strada dell’integrazione e dello sviluppo: non c’era più un’opposizione interna degna di nota, i fuoriusciti stavano rientrando, l’economia era in crescita lenta ma costante. Direi quindi che abbiamo sottovalutato sia gli aspetti più crudeli della repressione degli anni ‘20 e dei primi anni ‘30, sia gli sforzi fatti per dare un futuro migliore alla colonia pacificata».

 

Aspetti che a mio avviso continuiamo a sottovalutare. È memorabile, e lei lo ricorda, il momento in cui nel 2009, Gheddafi arriva in Italia con, appuntata sul petto, la fotografia in bianco e nero di Omar al-Mukhtar, l’anziano capo dei guerriglieri senussiti che venne impiccato di fronte a 20 mila persone dopo un processo farsa su richiesta di Roma. Quella storia fa parte di un rimosso italiano sulle vicende libiche.

«La rimozione della violenza usata dagli italiani in Libia per soffocare la resistenza armata - non un caso isolato: abbiamo preferito dimenticare anche i crimini commessi in Etiopia, in Grecia, nei Balcani - rende più difficile, oggi, comprendere l’atteggiamento dei libici nei nostri confronti. Gheddafi usò la memoria della resistenza cirenaica guidata da Omar al-Mukhtar per i propri scopi politici immediati: ma quella memoria è genuina e ancor oggi vivissima, e se in futuro vogliamo avere rapporti costruttivi con la Libia dobbiamo tenerne conto, non ignorarla».

 

Nel libro sottolineate che il Paese fatica ad abbandonare gli spettri del passato: da un lato la frammentazione politica, dall’altro l’ingerenza straniera e la tendenza all’autoritarismo. Inoltre, sempre nel libro, viene sottolineata la natura ambigua dell’intervento internazionale, che ha determinato un incremento della fragilità libica anziché veicolare il Paese verso un processo di transizione democratica.

«L’azione di varie potenze straniere in competizione fra loro ha esasperato le contraddizioni e le divisioni interne. Non credo si possa nemmeno parlare di un processo di transizione democratica avviato nel Paese. Non esistono, infatti, ancora i presupposti per una libera partecipazione dei cittadini alla vita politica. Del resto è facile constatare che senza sicurezza non c’è libertà, né sviluppo: è un assioma di quelle che sono state definite le guerre tra la popolazione del terzo millennio - guerre combattute non da eserciti lungo fronti ben definiti, ma da milizie che agiscono tra la gente, sfruttando la situazione a proprio vantaggio. Non vedo, purtroppo, all’orizzonte una forza interna capace di superare le divisioni attuali e avviare un vero processo di pacificazione».

 

Uno dei principali problemi del Paese, dopo il 2011, è stato il fallimento nel disarmare le milizie che avevano portato alla deposizione dell’ex rais e che sono diventante negli anni il vero potere libico. Su questo punto in particolare, la comunità internazionale ha dimostrato tutta la sua debolezza. Le milizie, poi in parte inglobate nei ministeri dell’Interno e della Difesa, hanno preso via via il controllo di asset strategici, strade, pozzi di petrolio, confini. Nonché il controllo dei traffici illeciti, armi, carburante, e tristemente il traffico di uomini. Quali sono state e quali saranno a suo avviso le conseguenze a lungo termine di questo antico e irrisolto problema?

«La conseguenza più grave è rappresentata dal consolidarsi di gruppi armati che sono emanazione di interesse e potere economico locale. Verosimilmente continueranno a vendere al miglior offerente esterno i propri servizi, ovvero la messa in sicurezza e la sorveglianza degli asset strategici a cui faceva riferimento. È un circolo vizioso. La sopravvivenza di milizie che trovano la propria ragione d’essere e il proprio guadagno nel gestire una situazione di pericolo oggettivo rende molto probabile il perdurare o addirittura l’aggravarsi di quella situazione in Libia, che può incancrenirsi sino a diventare inguaribile. E quindi, presto o tardi, a richiedere un intervento drastico».

 

Cosa intende?

«Chi sfrutta delle risorse in un Paese in preda a una guerra civile è disposto a sopportare un livello di rischio “ragionevole”, che può comportare ad esempio interruzioni sporadiche nell’estrazione del greggio, o simili. Ma se l’insicurezza diventa tale da minacciare la redditività degli investimenti, non resta che abbandonarli o intervenire per ripristinare l’ordine. In futuro chi avrà speso di più per sfruttare le risorse libiche potrebbe usare la forza - quasi di sicuro indirettamente, attraverso il potenziamento dei propri alleati locali - per difendere i propri interessi. Le società di servizi di sicurezza servono anche a questo: sia russi che turchi hanno già molti mercenari in Libia».

 

Oggi in Libia si gioca una grande partita regionale, che vede schierati da una parte la Turchia e il Qatar, dall’altra la Russia e gli Emirati Arabi. È una guerra economica, religiosa e militare. L’Europa sostiene un percorso diplomatico che sembra, però, sempre più essere scollato dalla realtà del Paese. Penso all’attuale governo Dbeibah, nato sotto l’egida della comunità internazionale per essere un governo di transizione verso elezioni che con ogni probabilità non si terranno. Quali sono gli scenari di questo conflitto regionale, e dello scollamento tra ambizioni militari degli attori regionali e la timidezza europea?

«Sono d’accordo con lei, l’Europa sta dimostrandosi una volta di più incapace sia di trovare una politica comune, basti pensare all’antagonismo tra Francia, Gran Bretagna e Italia, sia di formulare proposte realistiche per la soluzione della crisi. Non c’è stato un coordinamento efficace di azione diplomatica, pressione politico-economica e uso della forza militare. Lo spazio lasciato dall’Europa è stato rapidamente occupato da altri: questa seconda fase della guerra civile libica, infatti, ha già avuto un effetto geopolitico rilevante, ovvero aprire il Mediterraneo centrale all’azione militare per procura di Russia e Turchia. L’intera regione sembra destinata ad attraversare un periodo di grave instabilità: perché  il controllo dei campi petroliferi e dei porti di Tripolitania e Cirenaica, e di alcune tra le maggiori vie di comunicazione attraverso il Sahara, costituiscono uno degli obiettivi principali del nuovo “scramble for Africa” - la corsa ad accaparrarsi posizioni di vantaggio nel continente - il cui esito e le cui conseguenze a più lungo termine sono una delle maggiori incognite che pesano sul nostro futuro».

 

Libia è terra dove «tutto si muove e nulla cambia». A dieci anni dalla morte dell’ex rais Muammar Gheddafi quanto pesa l’eredità simbolica di quarant’anni di regime?

«Gheddafi aveva perso consenso tra la maggior parte della popolazione. Purtroppo la guerra civile seguita alla fine del suo regime sta facendo riemergere nostalgie legate alla sua capacità di garantire sicurezza interna, non importa a che prezzo, e un certo prestigio internazionale, almeno tra i Paesi “antagonisti” dell’Occidente. È qualcosa che abbiamo già visto in casi simili, non tutti “postumi”. Penso ad Assad in Siria. Quella di Gheddafi è dunque un’eredità dannosa per i libici, che dovrebbero liberarsi dall’illusione di risolvere la crisi attuale attraverso un altro uomo forte. Ma non possono farlo senza aiuto».