Serve un lungimirante accompagnamento dei lavoratori nell’ambito di quei settori destinati a chiudere. E non si può continuare a ignorare la società civile

La transizione ecologica sarà un “bagno di sangue” come preconizzava quest’estate il ministro Cingolani, oppure è possibile una “giusta” transizione e il 37% delle risorse vincolate al green nel Pnrr offrono una possibilità?


Come sappiamo, la storia procede per salti e non è mai la lineare prosecuzione del passato e la pandemia sta lì a ricordarcelo. È proprio qui il ruolo della politica e della società organizzata. Anche per la Transizione ecologica nulla è automatico: è un fatto di scelte.


Già un anno e mezzo fa il Forum Disuguaglianze e Diversità delineava tre scenari possibili di uscita dalla crisi sanitaria e sociale scatenata dal Covid 19: quello basato sulla prosecuzione dell’attuale modello as usual, quello incentrato sulla sicurezza e le chiusure identitarie e, il terzo, teso ad un “futuro più giusto” necessariamente costruito intorno all’intreccio tra giustizia ambientale e sociale. Se si vuole dare una risposta “capace di futuro”, in grado di uscire dall’emergenza e dai limiti e gli errori che l’hanno provocata, dando speranza e risposte ai bisogni delle persone, occorre esplicitare le scelte di medio e breve periodo, guardando senza occhiali ideologici quanto è già in campo nella società.

 


Qui sta la nostra preoccupazione per il rischio che il Pnrr si traduca in un’enorme perdita di opportunità, avvalorata dalle gravi incongruenze tra la cornice europea e le scelte progettuali nazionali. Eclatanti, al riguardo, alcuni passaggi. Ad esempio, uno dei passaggi del documento inviato a Bruxelles, riguardo all’idrogeno recita così: «Il percorso è la graduale sostituzione del carbone con gas naturale, che a sua volta sarà sostituito, ove disponibile, da idrogeno a basse emissioni di carbonio, e progressivamente con quello verde, in prospettiva prodotto da fonti energetiche rinnovabili». Insomma nessun impegno temporale certo per l’idrogeno verde: per ora solo e sempre “metano”. Tanto che la Commissione Ue si è sentita in dovere di stigmatizzare questa scelta. Inoltre si prevede l’investimento di 2,42 miliardi per l’acquisto di 3.360 bus “a basse emissioni”, di cui la metà almeno sarà a metano; o ancora, gli 8.55 miliardi nella Missione 5 per la rigenerazione urbana non prevedono alcun vincolo di standard energetici.


Eppure il quadro verso cui ci stiamo muovendo è chiaro e lo scenario che l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha pubblicato a maggio dà precise indicazioni: i 2/3 degli sforzi al 2030 per ridurre la CO2 verranno dai paesi sviluppati, serviranno investimenti 3 volte superiori rispetto all’ultimo decennio, si produrranno 30 milioni di nuovi posti di lavoro (a fronte di 5 milioni che scompariranno), mentre si avrà una riduzione di 2 milioni di morti l’anno per inquinamento atmosferico.


In questo scenario l’Italia dovrà aver eliminato il gas dal suo sistema nel 2035, e l’Aie consiglia di terminare la vendita di caldaie a gas entro il 2025, mentre rileva come già oggi le energie rinnovabili siano più economiche dei combustibili fossili, compreso il gas, e garantiscano e garantiranno un progressivo calo dei costi in bolletta. Se questa è la prospettiva, non si tratta di un “bagno di sangue” ma di un lungimirante e doveroso accompagnamento dei lavoratori - condiviso con i sindacati - nell’ambito di quei settori destinati a chiudere: una grande rivoluzione culturale negli stili di vita e di produzione, che passa dal coinvolgimento delle persone e dalla loro motivazione, che scatta se c’è la speranza di migliorare (l’esperienza dei gilet gialli dovrebbe insegnare qualcosa su cosa non va fatto).


Ma a preoccuparci ulteriormente per il quadro che il governo sta delineando è la marginalizzazione della società civile (con poche eccezioni) che ha segnato la stesura del Piano a vantaggio di derive tecnocratiche e su cui oggi non si vedono significative inversioni di tendenza. Eppure “la società è spesso più avanti della politica”: da qui vengono esempi e indicazioni preziose, e nei territori, grazie anche a sindaci illuminati, si possono già trovare soluzioni a nodi irrisolti nella politica nazionale.


Per questo il Forum Disuguaglianze e Diversità e Asvis organizzano il prossimo 6 ottobre a Roma, nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile, un incontro per aprire un pubblico confronto e raccontare alla politica, attraverso alcune esperienze che si stanno già realizzando in Italia, come la Transizione ecologica possa essere “giusta”, e come sia possibile accrescere la ricchezza comune a vantaggio delle fasce sociali più marginalizzate, nell’intreccio tra giustizia ambientale e sociale.
Assume valore simbolico che questo avvenga due giorni dopo le elezioni amministrative: perché il ruolo dei territori e dei governi locali (sul doppio fronte del coinvolgimento delle persone e della promozione dell’innovazione sociale) è, oggi più che mai, irrinunciabile.