Nel 1971 il democristiano era il nome forte per il Colle. Ma colpi bassi, tradimenti e pressioni finirono per favorire la destra e Giovanni Leone. Sulla scelta del Capo dello Stato si scrive la storia segreta della Repubblica: è stato così in passato, sarà così anche nel 2022. Come racconta un libro (e un podcast)

Non ci sono regole, non c’è campagna elettorale, non c’è un programma da presentare e nessun pubblico criterio di valutazione. È un gran bazar, un suq, un mercato parallelo, una borsa nera. Una corsa di cavalli, ma del genere palio, dove conta molto più quello che avviene dietro la linea di partenza, in cui la gara comincia prima della rottura del canapo: i colpi bassi, le provocazioni, le eliminazioni. Per arrivare al traguardo servono tenuta nervosa, resistenza agli attacchi, disponibilità a ricevere gli appoggi più inaspettati, una rete di sostenitori che lavora per la candidatura. La virtù della discrezione, l’ostentazione del distacco, la scomparsa dalla scena al momento giusto.

 

Nella Prima repubblica l’elezione presidenziale era una cerimonia sacrificale dominata da regole oscure (…). Alla fine del 1971 termina il mandato di Giuseppe Saragat e i grandi elettori tornano a riunirsi per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Dopo il laico tocca di nuovo a un democristiano. La Dc può contare sui due cavalli di razza: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Tra le elezioni presidenziali è la più lunga, 23 votazioni, la più incerta: il presidente, Giovanni Leone, passò con appena 518 voti su 1008, il 51,4 per cento, la percentuale più bassa della storia. E la più inquinata da influenze esterne.

 

Il primo che prova a inserirsi nella partita è Eugenio Cefis, uno dei personaggi più oscuri e discussi della storia repubblicana, presidente dell’Eni dopo il fondatore Enrico Mattei. Mattei era il finanziatore della corrente di Base, giocò la sua partita per l’elezione di Giovanni Gronchi nel 1955 e avrebbe voluto la sua rielezione nel 1962. Eugenio Cefis, il suo successore alla presidenza dell’Eni, dopo il misterioso incidente aereo di cui Mattei rimase vittima, si era già segretamente speso nel 1964. Di fronte all’impasse della candidatura di Giovanni Leone, Mariano Rumor, segretario della Dc, chiese un incontro diretto al capo dei comunisti Luigi Longo. Per il loro faccia a faccia, di cui mai si seppe nulla, scelsero un luogo riservato e sorprendente: l’abitazione di Cefis. L’incontro avvenne alle diciotto del 22 dicembre e finì in un nulla di fatto: che i leader della Dc e del Pci si incontrassero a casa sua, dice molto sull’influenza del Dottore, com’era stato soprannominato Cefis.

 

Sette anni dopo, il Dottore vuole essere il grande elettore del presidente, e sostiene la candidatura di Fanfani che lo aveva voluto alla guida dell’Eni dopo Mattei.

«Cefis è convinto che Fanfani sia l’uomo giusto per il Quirinale, il più adatto a guidare una Seconda repubblica», scrive Giampaolo Pansa in “Comprati e venduti”. «Una volta arrivato su quel Colle potrà tentare di porre rimedio alla disgregazione del sistema parlamentare e avrà certo la forza per richiamare la classe politica ai doveri di operosità e di efficienza da troppo tempo dimenticati. Cefis si dà un gran da fare. Incontra gente. Tenta di convincere, o di far convincere, quel pugno di grandi elettori bianchi che insistono nel rifiutare Fanfani. E forse mette in moto coloro che poi verranno chiamati “i parlamentari-squillo” della Montedison, per colmare i vuoti prodotti nel fronte fanfaniano dai franchi tiratori del partito di maggioranza».

 

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Non c’è niente da fare. La candidatura di Fanfani non decolla, anzi, tramonta. E salgono altri nomi. Uno è quello del capo socialista Pietro Nenni. Come andò, me lo racconta Rino Formica, al suo esordio da grande elettore come senatore del Psi: «Ci fu una riunione della direzione socialista alla Camera e si decise di lanciare Nenni. Ero preoccupato, temevo che la manovra potesse spaccare il Parlamento. La sera irruppe nelle nostre stanze una delegazione del Pci guidata da Giorgio Amendola e ci comunicò che i comunisti erano pronti a votare per il nostro capo. Cercammo allora di sondare altri gruppi politici, in tutte le direzioni. Io fui spedito a parlare con gli esponenti missini Ernesto De Marzio e Araldo di Crollalanza, erano entrambi di Bari, li conoscevo da tempo. Parlai prima con Di Marzio, capogruppo alla Camera, mi disse: niente da fare, ho già un accordo con Fanfani. Di Crollalanza lo incontrai di nascosto, in un corridoio laterale. Mi prese di sorpresa: “Ma io Nenni lo sto già votando”, mi rispose. Lo faceva in omaggio alla memoria di Mussolini che il 23 marzo 1945, un mese prima di essere fucilato, a Salò gli aveva affidato un compito: salvare il salvabile, organizzarsi, appoggiare i socialisti e Nenni».

 

«Craxi e io», prosegue Formica, «eravamo gli autonomisti nenniani, una minoranza nel PSI. Prendemmo un ascensore e incontrammo Ugo La Malfa. Anche con lui parlammo di Nenni ma la sua risposta mi colpì, non ci fece neppure parlare, fu tranchant, feroce. “Siete fuori strada”, ci disse. “Dobbiamo votare un candidato Dc qualsiasi, basta che non sia Moro”, proseguì. “Il nostro compito storico è sbarrare a Moro la strada del Quirinale».

 

Sette anni dopo, al momento del rapimento del presidente democristiano, La Malfa sarà così sconvolto da richiedere alla Camera la pena di morte per i terroristi. Ma nel 1971 è determinato a sbarrargli la strada per il Quirinale.

 

Eppure Moro è il nome più forte, il più autorevole e prestigioso. L’unico democristiano che può ottenere i voti anche della sinistra. Già nel mese di ottobre è stato contattato dal vicesegretario del Pci Enrico Berlinguer, designato per succedere alla segreteria a Luigi Longo. Berlinguer non ritiene prudente un incontro diretto e spedisce dal leader democristiano il suo emissario, un uomo di fiducia, il deputato Luciano Barca. «Moro ringrazia Berlinguer di averlo scelto come interlocutore. Manifesta l’imbarazzo di dover dare risposte che possono sembrare dettate dalla necessità di trovare appoggi per la presidenza, ma poiché Berlinguer è stato netto nel chiarire che per ora l’argomento è fuori dal discorso, anch’egli ne prescinde», annota Barca sul suo diario. «Sul piano internazionale Berlinguer ha compiuto scelte importanti, dice Moro, ma occorre che l’abbandono della “scelta di campo” sia percepita chiaramente sia dagli americani che dalle forze moderate italiane». Il leader democristiano ha già cominciato a tessere la lunga tela che nelle sue intenzioni deve portare il Pci nel quadro delle alleanze occidentali dell’Italia.

 

Quando cominciano le votazioni, Berlinguer torna a sondare la Dc. «Forlani insiste in un primo momento perché il Pci indichi una rosa di almeno tre nomi, ma Berlinguer è molto netto», scrive Barca. Spiega al segretario Arnaldo Forlani che l’unico democristiano per cui il Pci sarebbe disposto a votare è Moro. Forlani e il capogruppo alla Camera Giulio Andreotti promettono che in caso di fallimento di Fanfani si impegneranno a fare passare nella Dc la candidatura. E per dare prova di buona volontà i due capi democristiani concordano con i comunisti di lasciare aperta una porta di servizio a Montecitorio, per continuare a tenere i contatti senza essere visti da nessuno, neppure dai commessi. «Attraverso la scala di servizio arrivano a un certo momento, soprattutto da Andreotti, ampie rassicurazioni».

 

Il Capo dello Stato, Enrico De Nicola, firma la Costituzione italiana a palazzo Giustiniani, il 27 dicembre 1947. Al suo fianco, da sinistra a destra, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e Francesco Cosentino, funzionario

Moro si avvicina in modo deciso verso una candidatura votata anche dai comunisti. È in quel preciso momento che torna in azione l’Ombra. L’uomo che ha affiancato Enrico De Nicola al momento della firma della Costituzione, che è stato accanto a Gronchi al Quirinale, che ha scritto il programma del governo Tambroni. L’Ombra è Francesco Cosentino. Ha un ruolo nelle elezioni presidenziali perché affianca silenziosamente il presidente della Camera Sandro Pertini da segretario generale di Montecitorio.

Dieci anni dopo, in un appunto consegnato dal presidente della Corte costituzionale Leopoldo Elia a Tina Anselmi all’inizio della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2, tra le piste di indagine si legge: «Influenza della massoneria sui deputati, contro la candidatura di Moro. Influenza sui deputati del Sud (Picella, segretario generale del Quirinale, e Cosentino)». Elia e Anselmi erano tra i pochi morotei, il piccolo gruppo nella Dc sempre considerato nemico della P2. Cosentino era nel 1971 tra gli uomini più vicini al capo della loggia massonica P2 Licio Gelli, il primo che Gelli incontrava alle otto del mattino nella hall dell’hotel Excelsior: «Che c’è di nuovo, Ciccio?»

 

In quelle elezioni presidenziali Cosentino è l’oggetto di uno scambio pericoloso. Per lui si muove un altissimo magistrato, il procuratore generale di Roma Carmelo Spagnuolo che chiede un colloquio con Berlinguer. «Berlinguer ha ritenuto pericoloso accogliere la richiesta, ma anche abbastanza pericoloso respingerla del tutto e ha concordato che il colloquio avvenisse con Paolo Bufalini», testimonia Barca nei suoi appunti di quei giorni. «Paolo - che è ancora turbato e che per questo ha bisogno di sfogarsi con me - è andato e, dopo oscuri accenni alla gravità della situazione, si è sentito fare da Spagnuolo la più incredibile delle proposte: Moro non diverrà mai Presidente, ma un compromesso che tenga conto delle ragioni e delle esigenze del Pci è possibile». Ai comunisti il procuratore propone di votare per il presidente della Camera, il socialista Pertini, e assicura che su di lui arriveranno anche i voti della Dc e del Psi. Ma c’è una condizione. «Che nessuna obiezione sarà mossa alla nomina di Francesco Cosentino a segretario generale della presidenza della Repubblica accanto a Pertini».

 

Pertini è ovviamente ignaro di tutto, la sua candidatura è solo un diversivo per distrarre il Pci da Moro. Nel 1971 la loggia massonica P2 Licio Gelli sta facendo proselitismo ai vertici delle istituzioni: tra i servizi segreti, nei partiti, tra i grand commis. Cosentino e Spagnuolo della P2 sono una specie di ufficio politico. Di Cosentino si arriverà a ipotizzare che sia stato il vero capo della P2, la mente raffinatissima che ha scritto materialmente il Piano di rinascita democratica sbandierato da Gelli negli anni successivi per riscrivere la Costituzione. Spagnuolo era per Gelli l’ideale presidente del Consiglio di un governo tecnico sopra i partiti. Insieme si muovono nel 1971, per bloccare l’ascesa di Moro.

 

Berlinguer rifiuta l’offerta piduista, ma intuisce che la candidatura di Moro sarà bruciata, si stanno muovendo forze troppo potenti.

 

Martedì 21 dicembre 1971, san Tommaso Apostolo, come annota scrupolosamente il notista della Stampa Vittorio Gorresio, quattro ambasciatori della Dc (in ordine alfabetico: Andreotti, Forlani, Spagnolli e Zaccagnini) bussano a casa del senatore a vita Giovanni Leone, malato di bronchite, la voce roca, qualche linea di febbre, per comunicargli che l’assemblea dei grandi elettori democristiani lo ha designato come candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica a voto segreto. Poche ore prima i nomi di Leone e di Moro sono stati messi ai voti davanti ai grandi elettori della Dc. Berlinguer aspetta con Barca la fine dell’assemblea democristiana in piazza Montecitorio, nonostante il freddo. La notizia arriva da un cronista amico: c’era una grande maggioranza per Moro, ma Forlani e Andreotti hanno fatto cambiare idea al corpaccione. Leone ha prevalso per pochissimi voti: forse appena dodici, non si saprà mai perché le schede vengono bruciate subito.

 

Berlinguer e Moro si incontreranno per la prima volta, a casa del consigliere Tullio Ancora, soltanto a giochi fatti, il 24 dicembre. Quel giorno Leone viene eletto sesto presidente della storia repubblicana, al ventitreesimo scrutinio, con appena il 51,4 per cento, la percentuale più bassa della storia, e 518 voti, soltanto quattordici in più del quorum necessario, con la destra di origine fascista determinante, il Movimento sociale di Giorgio Almirante. «Andreotti, Cosentino e Spagnuolo e la destra hanno vinto», annota Barca quella sera. Il Paese va a sinistra, il palazzo svolta a destra.

 

Anticipiamo un brano del libro di Marco Damilano “Il Presidente” (La Nave di Teseo), in uscita il 18 novembre. È in rete la serie podcast di Chora Media “Romanzo Quirinale”, in sei puntate, con le rivelazioni sulle trame più oscure e la voce di testimoni e protagonisti