Intervista
«Guido Rossa, l’operaio ucciso perché contro le Br. Una tragedia che ha cambiato gli anni di piombo»
Da alpinista a sindacalista e comunista disciplinato. Nella biografia dell’operaio ucciso dai terroristi rossi c’è un viaggio nell’Italia e nella sinistra del dopoguerra, ricostruito da Sergio Luzzatto
Di Guido Rossa operaio, sindacalista, si ricorda, almeno per chi non ha perso la memoria degli anni Settanta, la tragica fine, ucciso sotto casa a Genova il 24 gennaio 1979, nella sua Fiat 850, dalle Brigate rosse, dopo che aveva denunciato in solitudine l’impiegato Francesco Berardi che distribuiva in fabbrica i volantini dell’organizzazione terroristica. Una storia che si chiude nel momento conclusivo, come è successo a tante altre vittime degli anni di piombo, a cominciare da Aldo Moro. Lo storico Sergio Luzzatto, professore di Storia moderna europea alla University of Connecticut, ha ricostruito con l’archivio di famiglia, il primo ad averlo consultato, la vita di Guido Rossa, densa di sfaccettature e drammi personali. Le carte, gli appunti, le foto. Nel libro “Giù in mezzo agli uomini”, pubblicato nella storica collana Einaudi gli Struzzi, diretta da Ernesto Franco, Luzzatto compie il percorso che un preside zelante gli impedì di fare quando era uno studente di quindici anni: partecipare ai funerali di Guido Rossa, E incontrare così la singolarità di una vita in cui è possibile riconoscere un percorso collettivo.
Nei suoi studi lei ha raccontato le vicende di Padre Pio, un santo “arci-italiano”, il corpo del Duce sottoposto a un processo di sacralizzazione da parte dei fascisti, ma anche il culto di Giuseppe Mazzini in era risorgimentale. Anche per capire Guido Rossa c’è una agiografia da superare, per restituirlo alla sua vita e alla storia di tutti?
«Sono arrivato a Guido Rossa da anni di lavoro di prossima pubblicazione sulle Brigate rosse a Genova, dove c’era l’università che produceva i Faina, i Fenzi, ma anche i Senzani e in cui c’era la grande fabbrica pubblica con una classe operaia diffusa. Negli studi sulle Brigate rosse ci si è concentrati molto sul loro ruolo nazionale, moltissimo sul caso Moro, e troppo poco sulle storie locali: Torino, Milano, Genova. Delle colonne brigatiste locali Guido Rossa è stato la vittima più ricca di significati. È vero che poi, nella ricostruzione, mi sono ritrovato in una dinamica che ricalca gli stili del racconto agiografico, a fini devozionali o ideologici, tipico di altri personaggi».
Scorro la biografia di Rossa: famiglia veneta “razza Piave”, la madre nutrice (il “baliatico”, parola scomparsa), emigrato nel Nord Ovest, a Torino e poi a Genova. La “boita”, il lavoro in piemontese. Rossa era nato il primo dicembre 1934, poteva essere ancora vivo. Eppure la sua è una storia lontana.
«La sua biografia sembra perfetta per raccontare cosa sia stata la modernizzazione italiana. La madre che fa da apripista all’intera famiglia, come oggi accade agli immigrati da altri Paesi. Lavora in una piccola fabbrica e poi è operaio alla Fiat tra il 1959 e il 1961, gli anni più duri, quelli delle schedature interne. Arriva a Genova dal Nord, e non dal Sud, è privo di un retaggio di soggezione e di sudditanza, semmai ha un carattere spigoloso. Da alpinista nietzchiano, che inseriva citazioni superomiste in calce alle sue diapositive, a sindacalista disciplinato: il suo è il viaggio nell’Italia del dopoguerra, ma anche un corpo a corpo con se stesso, di un uomo che si sentiva fuori posto, non nel posto giusto».
Tra le foto dell’archivio personale ce n’è una dei primi anni Cinquanta. Rossa in discesa a corda doppia, un po’ sfocato.
«Mi ha colpito quella foto perché avevo parlato con Dino Rabbi, operaio e alpinista come Rossa, l’amico della vita, che mi ha spiegato come andare in montagna negli anni Cinquanta significasse riappropriarsi di qualcosa di cui si erano impossessati i nazionalismi fascisti e nazisti. A volte la settimana lavorativa si estendeva al sabato mattina, gli operai arrivavano in montagna il sabato sera, la domenica della scalata era l’uscita dall’oppressione che si viveva durante gli altri giorni. Quella foto sfocata racconta di un operaio che in montagna trovava la sua liberazione».
Un salto di quasi venti anni e c’è un’altra foto: Guido Rossa è in mezzo alle bandiere rosse e siamo a Savona nel 1974, a una manifestazione antifascista, alza il pugno chiuso. Intanto si è iscritto al Pci, nel 1967, sezione Italsider di Cornigliano, è diventato delegato di reparto dell’Officina nel 1970, mentre si approva lo statuto dei lavoratori e le commissioni interne diventano consigli di fabbrica. Ieri in fabbrica diventavi comunista, oggi gli operai votano Lega e Fratelli d’Italia.
«Ho pensato che quella foto restituisce una comunità immaginata. E non perché non esistesse, ma perché si caricava di altri significati. Non ci sono singoli tornanti che portano Rossa fino a lì. C’è quello che succede. La tragedia familiare del figlio Fabio, morto per una fuga di gas con la nonna materna in casa. La perdita di due compagni, Giorgio Rossi e Cesare Volante, volati via durante la spedizione in Himalaya. La singolarità di quanto faceva, il limite della vita. L’incontro con i cattolici di base di Oregina. Il riconoscimento che la vita vale se ci sono gli altri, come scrive all’amico Ottavio Bastrenta, “giù in mezzo agli uomini a lottare con loro”. Le mani tese di Rossa non potevano più esserlo verso le cime, ma verso qualcos’altro o qualcuno. Senza questa oscillazione tra gruppo e individuo non capiamo gli anni Settanta e i percorsi che finiranno per collidere drammaticamente ma che ancora tra il 1969 e il 1970 partivano da un’esigenza comune: fare qualcosa per gli altri. Rossa aveva trovato una comunità immaginata, o immaginaria, nel partito, nel sindacato, nelle feste dell’Unità c’era la famiglia che gli era mancata. Una storia di separazione trovava nel popolo comunista la sua unità. Fuori tempo massimo».
Sì, perché visti alla metà degli anni Settanta i mondi di Guido Rossa sembravano fortissimi. Il Pci di Enrico Berlinguer aveva raggiunto il massimo dei voti alle elezioni del 1976 ed era entrato nell’area di governo, la Cgil guidava il pan-sindacalismo di quegli anni e sosteneva la politica di contenimento dei salari con la svolta di Luciano Lama all’Eur, l’impresa pubblica era il perno delle politiche industriali. E invece erano tutti alla vigilia di una sconfitta catastrofica.
«Da metalmeccanico di discrete letture, Rossa cominciava a intravvedere la fine dei “trent’anni gloriosi”, capiva che il gioco stava per diventare duro, per tutto il sindacato, con la ristrutturazione. Nei suoi appunti annotava che il settore siderurgico avrebbe perso centomila posti in Europa in pochi anni. Il partito e il sindacato non erano certo monolitici, né sulla linea del compromesso storico di Berlinguer né sulla svolta di Lama: moltissimi metalmeccanici della Fiom-Cgil non erano per niente d’accordo. Rossa non ha avuto il tempo di toccare con mano quanto la sua comunità immaginata fosse immaginaria».
Qui c’è il punto più drammatico. Perché alcuni di questi dissensi confinano o sfiorano le frange terroriste, le Brigate rosse in fabbrica.
«Fino all’omicidio di Guido Rossa, e dopo il rapimento e l’omicidio di Moro, intellettuali, militanti, operai, si erano sentiti equidistanti tra lo Stato e le Br. Pippo Carrubba, uno dei leader del collettivo operaio dell’Italcantieri di Sestri Ponente, scrive dopo la morte di Rossa un lungo comunicato pubblicato su “Lotta continua”: “Se prima c’era un dubbio, un punto interrogativo, ora esso si è cancellato dalla nostra mente”. Ma questo vuol dire che fino a quel momento il dubbio, l’interrogativo, c’era stato: fino al 1979, a Guido Rossa».
«La lotta al terrorismo passa da qui, perché è qui, nello spazio che separa la classe operaia dallo Stato, che il terrorismo si insinua. Dobbiamo riempire questo spazio. È questa la forma più valida di vigilanza», aveva scritto Rossa. Mentre Ugo Pecchioli, l’uomo del Pci sull’ordine pubblico, affermava invece che gli operai dovevano partecipare alla più «vasta prevenzione di massa», l’appello a denunciare i fiancheggiatori delle Br. Cominciò lì l’identificazione totale del Pci con lo Stato. Un grande merito nella lotta contro il terrorismo: ma che ha lasciato quello spazio vuoto negli anni successivi, permeabile ad altri fenomeni.
«Che effetto possono aver avuto quelle parole sugli operai comunisti che erano stati educati a non denunciare mai un compagno, che sentivano tramandare dai più anziani gli anni della clandestinità? Fu uno strappo enorme. Sul piano storico il Pci con la lotta al terrorismo rosso ha ucciso l’antica doppiezza e la sua tenuta è stata decisiva per salvare la democrazia, con l’appoggio al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, alle carceri speciali e alla legislazione premiale per i pentiti, ma nell’identificazione con lo Stato si è consegnato non solo alla parte nobile ma anche alle sue zone più oscure. Il Pci ha compiuto una scelta di maturità storica, ma ha anche trascurato l’opacità di uno Stato che negli stessi anni era inquinato dalla loggia massonica P2. Una quadratura forse impossibile che spiega perché Guido Rossa sia diventato subito dopo la morte, già ai suoi funerali, un mito da proporre alla base del Pci».
Rossa viene ucciso all’alba, quando è ancora buio e gli operai escono per andare a lavorare, o tornano dal turno di notte. L’ora degli operai.
«Un operaio comunista fece arrestare con la sua denuncia un operaio brigatista, tre mesi dopo un secondo operaio brigatista uccise l’operaio comunista, un anno dopo il primo operaio brigatista si suicidò in carcere. Quella di Guido Rossa è una tragedia operaia. Quel buio è pieno di significato. Il racconto della storia prende senso nello spazio e nel tempo. Riccardo Dura si era appostato dentro un furgoncino, forse per ferire alle gambe o uccidere. Un amico mi ha scritto: se Rossa non avesse denunciato Francesco Berardi non sarebbe cambiato nulla. Sì, ma la sua morte ha cambiato tutto. E noi che veniamo dopo, che abbiamo “la grazia della nascita tardiva”, abbiamo il dovere di raccontare e di capire».