«Oggi c'è un distacco enorme tra i lavoratori e i sindacati. Per non parlare della politica. Per questo 'l'Isola dei Cassintegrati' è diventata subito così popolare. E' una nuova forma di aggregazione e di rivendicazione». Parla Michele Azzu, uno dei due fondatori del sito
Tutto ha inizio con una protesta che nessuno vuole raccontare. E con un blog, gestito da Michele Azzu e Marco Nurra, che di quella protesta diventa la voce, anzi il megafono. E' la fine del febbraio 2010: in Sardegna lavoratori della Vinyls hanno occupato un carcere abbandonato sull'isola dell'Asinara. Nasce così, nell'indifferenza dei media, "L'Isola dei Cassaintegrati", il primo "reality reale" che invece di riproporre ex vip bolliti in cerca della redenzione televisiva, riporta il dramma lavorativo, sociale e umano di chi in Italia difende il proprio posto di lavoro.
Non passa neanche un giorno e vede la luce anche l'omonimo blog dove, un post dopo l'altro i due autori, allora studenti, raccontano tutti i 500 giorni della protesta Vinyls, ma non solo. Presto iniziano infatti a interessarsi anche a tutte le altre sparse per l'Italia in crisi, dalla Omsa di Faenza alla fabbrica Tacconi di Latina, passando per il Sulcis e le lotte dei lavoratori di Agile Eutelia. E le puntualmente le raccontano. In parte da soli, in parte grazie all'aiuto di "lavoratori inviati" che scrivono le loro storie direttamente dal cuore del problema.
A quasi tre anni dalla sua nascita, il blog "L'isola dei cassaintegrati" è oggi un punto di riferimento online per "per tutte le generazioni di lavoratori" che, visitando le sue pagine, si informano e si confrontano, ma anche e soprattutto contribuiscono con le loro testimonianze a costruire una narrazione ricca, partecipata e "dal basso" dello stato in cui versa il mondo del lavoro nel nostro Paese. Un prezioso sito d'inchiesta e approfondimento unico nel suo genere, con il quale L'Espresso inaugura oggi ufficialmente una partnership della quale ci parla lo stesso Michele Azzu: «Dopo la protesta dell'Asinara, nel tempo abbiamo ampliato i nostri interessi e parlato di molte altre iniziative – spiega – era arrivato per noi il momento di decidere se chiudere o fare un salto di qualità. Abbiamo scelto la seconda opzione, accettando l'offerta di collaborazione da parte di un giornale per il quale produciamo inchieste sul mondo del lavoro già da oltre un anno».
Per Azzu e Nurra, l'accordo appena varato significa soprattutto una cosa: sostenibilità del progetto. «Ci è voluto poco perché ci rendessimo conto che anche un semplice articolo richiede un lavoro complesso di costruzione del pezzo, di indagine con visite sul posto, cui poi bisogna far seguire un'ampia e strutturata opera di promozione sui social media. E' un lavoro a tempo pieno che fino ad oggi abbiamo fatto da soli, con i nostri mezzi e con grandi sacrifici e che ora finalmente potremo fare con l'aiuto di un grande gruppo editoriale. Così avremo più tempo e forze per fare reportage di qualità».
Il vostro blog ha avuto un successo quasi immediato. Come avete fatto? «Credo che a nostro favore abbiano giocato due elementi: in primo luogo, il sito ha funzionato perché è partito con una protesta vera, di operai che occupavano un carcere e che, grazie al nostro lavoro, hanno avuto una visibilità tale da finire presto anche sui media tradizionali. La seconda ragione è da imputarsi al vuoto informativo che c'era all'epoca: il 2010 è stato l'anno in cui abbiamo avvistato per la prima volta la crisi. E' stato l'anno degli operai e degli studenti che salivano sulle gru e sui tetti mentre il Governo e i media dicevano che tutto andava bene. Con il nostro racconto abbiamo diffuso informazioni che nessuno voleva raccontare ma che, evidentemente, contavano per molti».
Tre anni passati a raccontare la protesta, il disagio, i sogni e la rabbia dei lavoratori. Nel frattempo le cose sono migliorate o peggiorate? «Sono peggiorate tantissimo. Nel 2010 c'erano tutte queste occupazioni, c'era fresco il popolo viola, i lavoratori andavano ospiti da Santoro e c'era l'idea che, salendo su un tetto, qualcosa si sarebbe riuscit a ottenere. Ricordo che noi stessi credevamo che la Vilnys avrebbe riaperto, e invece non è mai successo. L'Omsa di Faenza ha ricollocato la metà della sua forza lavoro e il Governo si è svincolato dalla trattativa. La Tacconi non ha mai riassunto i suoi dipendenti così come quelli di Agile - Eutelia non sono mai tornati al lavoro. Tirando le somme, ci resta poco in mano».
Tutto questo non deve aver giovato troppo ai sindacati... «C'è un distacco dal mondo sindacale al mondo del lavoro che è diventato un abisso. Nel 2010 non avrei mai immaginato che sarebbe diventato così forte lo scollamento tra chi lavora e i suoi rappresentanti. C'è rabbia e disperazione, perché occupi per due anni una fabbrica e poi non serve a niente perdi la fiducia. Non ti senti rappresentato e non hai idea di quale sindacato o partito possa sostenere le tue ragioni di lavoratore, di precario, di cassintegrato o di esodato.
E i partiti? Come stanno messi? «Con i partiti la situazione è ancora peggiore: in questi anni ho parlato con decine di lavoratori e ho capito che il distacco con la politica è assoluto. Nessuno fa più riferimento al partito, nessuno vuole più averci a che fare e anzi alcuni dicono che se facesse una partito la Fiom, lo voterebbero subito».
Ma i lavoratori in Italia hanno ancora diritti da difendere? «Quando i sindacalisti parlano di 30 anni di lotte sindacali perse hanno ragione. Se pensiamo ai lavoratori dipendenti quello che si è perso dal punto di vista dei diritti è tantissimo. Se l'esempio della Fiat, o dell'Ilva si capisce subito che il cambiamento è stato passare dall'essere garantiti all'essere ricattati. Abbiamo seguito decine di vertenze in giro per l'Italia e i termini sono sempre gli stessi: cassa integrazione oppure si dichiara fallimento e gli operai finiscono per strada. Il problema è che la cassa integrazione dovrebbe servire per riqualificare e rilanciare un'azienda. Invece la richiedono tutti, anche quando di riqualificare non c'è intenzione o addirittura possibilità, così ci ritroviamo con aziende che dopo 3/5 anni di cassa integrazione chiudono lo stesso».
Questa però e solo metà del problema... «Certo, perché dall'altra parte c'è quel fenomeno di proporzioni bibliche che è il precariato, che resta sommerso e del quale ancora non abbiamo una reale percezione. E' un fenomeno diffusissimo di cui non parla nessuno, e i cui effetti sono destinati ad esplodere letteralmente nei prossimi anni, quando molti precari passeranno i 40/45 anni e si ritroveranno senza nessuna stabilità, nell'impossibilità di costruirsi un futuro e con alle spalle famiglie dai risparmi dissestati dall'austerity. E in più c'è l'aggravante che i precari, proprio perché cresciuti come tali, non hanno la consuetudine a ricorrere ai sindacati o di scendere in piazza».
Come si comunica il lavoro in Rete? «Se partiamo dal nostro caso specifico, la prima regola è sperimentare. Non siamo partiti con l'idea di fare un lavoro giornalistico con tutti i crismi, ma semplicemente di raccontare una storia, e questo ci ha dato la possibilità di provare varie formule sia sul blog che su Facebook, di improvvisare, anche di calcare la mano. Poi, quando è arrivato il momento, ci siamo professionalizzati. Per quanto riguarda la narrazione in sé, manteniamo la nostra il più possibile scevra da ideologie sindacali o di partito, e questo ci consente di rivolgerci a un pubblico molto più ampio, soprattutto di giovani, che informiamo usando un linguaggio semplice e chiaro».
E i lettori che ruolo hanno in tutto questo? «Centrale. Se guardiamo all'interazione tra il blog e la pagina Facebook, si vede subito che tutti i nostri post partono dalle segnalazioni dei lavoratori, che noi verifichiamo e raccontiamo. E che poi i lettori a loro volta rilanciano e diffondono. C'è uno scambio continuo con una folla di interlocutori che costituiscono la nostra community: collaborando con loro generiamo assieme un'informazione partecipata, fatta dal basso, che nasce dal confronto e che genera consapevolezza in un pubblico sempre più ampio».