È l’avamposto della Ue nella crisi dei migranti dalla Bielorussia, che coinvolge anche la Polonia. Ospita a Vilnius il quartier generale della dissidenza. A apre a Taiwan attirandosi le ire cinesi. Il nostro viaggio nella terra di confine

Tre rotoli di filo spinato accatastati uno sopra l'altro in un silenzio assordante dividono la pianura lacustre a metà. Ciuffi di foresta smunta da una parte e dall'altra, lo stesso cielo bianco, basso e glutinoso. Sono spuntati, i rotoli, verso la fine dell'estate, raccontano gli abitanti di Svendubre, una manciata di case in legno affacciate sul confine bielorusso, a quattro chilometri da Druskininkai, la città più vicina. Prima c'era una palizzata di legno, oppure un fil di ferro, a tratti solo pozzanghere. Bielorussi e lituani sono divisi più dalla storia degli ultimi trent'anni che da quella antica. Oggi questo è il muro, puntellato a cadenza da impalcature di ferro su cui troneggiano le telecamere, fiancheggiato da un lungo viottolo sterrato, fratello degli altri che penetrano nella foresta lituana o che costeggiano stagni abitati da famiglie di cigni bianchi.

 

Le telecamere sono in funzione. Improvvisamente lungo uno dei sentieri, da entrambe le direzioni arrivano due jeep della guardia di frontiera. È in vigore lo stato di emergenza: nessuno può avvicinarsi a più di tre chilometri dal confine. In sei controllano documenti e chiamano le rispettive centrali. Poi uno si allontana. Urla qualcosa e improvvisamente entrambe le automobili sgommano via, in equilibrio sul ciglio del fossato. Sono le 12,35. È il momento in cui a poche decine di chilometri, lungo il confine tra Bielorussia e Polonia l'esercito ha sfoderato gli idranti. È emergenza. I migranti potrebbero cambiare direzione e dirigersi qui. Invadere il territorio. Le guardie di frontiera sono poche e il confine è lunghissimo. A Vilnius, la capitale di un Paese con meno abitanti di Roma, sono in stato di allerta. «La Lituania si trova su una faglia geopolitica e deve difendere la sua identità, la democrazia e la libertà», dice a L'Espresso il ministro degli Esteri, Gabrielius Landsbergis, nipote di uno dei padri fondatori della Repubblica lituana: «Da questo assioma deriva ogni nostra priorità di politica estera».

 

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Ma qui, a Svendubre, non c'è panico. C'è una donna che trasporta un sacchetto di pietre in una casa che mostra il peso degli anni, e un uomo che pulisce la sua motosega. «Sì, certo che ho accolto qualche migrante», dice Kaleda Mecislova, un termoidraulico di 39 anni, mostrando le foto sul telefonino di due ragazzi di pelle scura che sorridono su una panca, alle spalle, in lontananza, la foresta bielorussa: «Soprattutto congolesi, l'estate scorsa, quando il confine non era ancora chiuso.

Hanno suonato alla porta, chiedendo dell'acqua». Ha offerto da bere, da mangiare e poi ha chiamato la polizia perché li portasse in un centro per migranti. «Anche io dieci anni fa ero andato sull'Isola (ndr: l'Inghilterra) in cerca di una vita migliore e per questo non ho paura di chi è diverso. Ora sono rientrato. Lo stipendio è uguale ma la qualità della vita in Lituania è migliore. Non ci torno a fare il camionista». La sua casa, una villa in cima ad una collina con vista sul confine, l'ha costruita da solo sulla terra dei genitori, che poi era anche quella dei nonni. E, accanto, ha messo a posto anche una piccola casetta per la sorella, che abita nella capitale, ma che qui trascorre il fine settimana. «Credo che questo sia tutto un gioco politico», dice prima di infilarsi la tuta da lavoro e dirigersi in paese. 

 

A Vilnius, due ore di macchina più a nord, non hanno dubbi. «Occorre capire che non è una crisi dell’Europa ma della Bielorussia», dice Landsbergis: «Una Bielorussia che detiene 820 prigionieri politici. Noi stiamo solo proteggendo il confine europeo nell'unico modo legale possibile».

 

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A differenza della Polonia, la Lituania ospita 100 uomini di Frontex che aiutano i migranti a rimpatriare e non ha mai tolto l'accesso alle Ong o negato gli ospedali ai malati. Ma il confine è stato chiuso subito dopo luglio, quando i migranti entravano a gruppi di 300 per notte. Ancora adesso sono respinte circa un centinaio di persone al giorno, con il silenzio-assenso di Bruxelles. «La Lituania è un Paese omogeneo», dice il vice ministro degli Interni con delega all'Immigrazione Arnoldas Abramavicius, nel suo ufficio che si affaccia sulla collina delle Tre croci, la statua eretta sul luogo del martirio di alcuni frati francescani nel 1600 poi abbattuta nel 1950 dal regime sovietico e, ricostruita nel 1989, diventando non solo l'emblema dell'identità cattolica del Paese ma anche l'omaggio alla sua lotta per l'indipendenza. «Durante l'occupazione sovietica vivevamo in gabbia e siamo ancora oggi una società molto più omogenea di un Paese come l'Italia», continua. Risultato: sui circa 4000 migranti entrati illegalmente in Lituania ad oggi solo otto (eritrei e siriani) hanno ottenuto lo status di rifugiati, a 2000 è già stato negato l'asilo e sono nei centri chiusi in attesa di rimpatrio, 800 sono riusciti a fare perdere le proprie tracce e 600 stanno affrontando le procedure legali per verificare la loro idoneità all'asilo. «L'Iraq ha detto che ammetterà soltanto i rimpatri volontari ma dopo due anni chi è in un centro migranti può restare», aggiunge.

 

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Non sono tanto i migranti a tenere svegli i politici lituani quanto la loro strumentalizzazione con la complicità russa. E la possibilità, anche remota, che la piccola Repubblica lituana possa di nuovo essere staccata dal mondo occidentale dalle forze russe che la circondano: a sud est una Bielorussia sempre più burattino nelle mani di Vladimir Putin e la regione russa di Kaliningrad a sud ovest, rimasta "intrappolata" in Europa con l'indipendenza delle repubbliche baltiche. Unico punto di contatto con l'Europa, Lettonia a parte, sono i 100 chilometri di confine con la Polonia, il solo lembo di terra da cui potrebbero passare gli aiuti militari Nato, ce ne fosse bisogno. «Se nelle prossime settimane Putin dovesse decidere di occupare la Bielorussia anziché l'Ucraina, dove sta ammassando truppe, ci ritroveremmo un lungo confine con la Russia», dice Landsbergis: «E la cosa non ci lascia tranquilli».

 

Invasa nel 1950 dai sovietici, che l'hanno governata con pugno brutale nella speranza di eliminare ogni traccia del passato cattolico ed europeo, la Lituania è stato il primo Stato ad approfittare della perestrojka di Mikhail Gorbaciov per riappropriarsi della bandiera e dell'inno nazionale già nel 1988 fino a recuperare la piena indipendenza nel 1990 ed entrare nell'Unione europea con la prima ondata dell'allargamento a Est nel 2004. «Oggi siamo dove apparteniamo», sorride Rytis Zemkauskas, l'intellettuale ideatore e curatore del programma che ha reso Kaunas, la seconda città lituana, la Capitale della cultura europea del 2022 insieme all'isola italiana di Procida: «Siamo stati tagliati fuori dal nostro contesto negli anni Quaranta e dopo mezzo secolo di isolamento occorre tempo ma ce l'abbiamo quasi fatta. Ora siamo nella sfera europea».

 

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E in Europa, per paura o per virtù, negli ultimi due anni la Lituania ha cominciato ad assumere sul tema della difesa della democrazia e dei diritti umani un ruolo molto più rilevante di quello che le sue dimensioni non suggerirebbero, su vari fronti. Quando nel 2020 Lukashenko non ha accettato la sconfitta nelle urne ma è restato al potere «come un boss della mafia», per dirla con le parole di Abramavicius, facendo arrestare centinaia di attivisti, la Lituania, complici i rapporti storici, ha immediatamente ospitato a Vilnius il quartier generale della dissidenza bielorussa e migliaia di esuli, e poi ha chiesto a Bruxelles una serie di sanzioni europee contro il governo di Lukashenko, le stesse che hanno condotto il dittatore a reagire usando i migranti come arma di destabilizzazione dell'Unione europea.

 

Nel maggio scorso, Vilnius ha anche deciso di ritirarsi dal "Meccanismo di cooperazione tra i 17 Stati dell’Europa orientale e la Cina", invitando gli altri a fare altrettanto e spingendo Bruxelles a sviluppare una politica a 27, più equilibrata dal punto di vista della forza economica e politica, con cui relazionarsi alla Cina. Infine, qualche giorno fa è stato il primo Paese europeo negli ultimi 30 anni ad accogliere una rappresentanza economica e culturale di Taiwan, l'isola che la Cina considera sua provincia ribelle, nonostante sia de facto indipendente da oltre mezzo secolo, con il nome di “Rappresentanza taiwanese", scatenando le ire e le pronunce di vendetta di Pechino. «La Cina usa parole forti, come al solito, per inviare messaggi ai nostri vicini», dice Landsbergis, che a metà novembre ha radunato a Vilnius gli esponenti della resistenza democratica di ogni angolo del globo, dalla Georgia alla Ucraina, da Taiwan al Venezuela, da Hong Kong alla Russia, per creare «una rete democratica mondiale». «L'atteggiamento cinese ricorda quello dell'Urss», continua: «Un modo di comunicare per sottomettere. La gente qui non ha dimenticato l'orrore della repressione sovietica».

A pochi passi di distanza dal palazzo del governo, il Museo delle occupazioni e delle lotte per la libertà accoglie quotidianamente, oltre ai turisti, anche classi di studenti liceali. «Dietro la pomposa retorica di Vilnius sui diritti umani si nasconde solo un calcolo realistico di considerazioni di sicurezza nazionale», John Gong, professore dell'università di Economia e commercio internazionale di Pechino, ribatte in un articolo in cui sottolinea come le posizioni anticinesi di Vilnius siano mirate anche a compiacere Washington, da cui non è riuscita ad ottenere uno stazionamento permanente di truppe sul territorio ma a cui chiede protezione. E in molti vedono nel patto di ferro siglato con Varsavia, la principale potenza regionale, lo stesso ragionamento di sicurezza nazionale, che trascende ogni considerazione sullo stato di diritto o sui diritti dei migranti. In un difficile, se non impossibile, equilibrio tra la salvaguardia delle libertà democratiche proprie e la tutela dei diritti democratici altrui.