Quella con la Bielorussia non è una crisi migratoria, ma una crisi politica molto fisica che mette a rischio la sicurezza nazionale. Parla la premier lituana Ingrida Simonyte

A un anno dalla sua nomina a prima ministra, dopo la vittoria del suo partito conservatore alle elezioni e l’alleanza con due partiti liberali, Ingrida Simonyte, 46 anni, sta gestendo la prima grande crisi nazionale della trentennale Repubblica lituana. Una crisi che si svolge lungo i 678 chilometri di confine con la Bielorussia, fino all’estate indefiniti in mezzo alle paludi, oggi marcati da tre rotoli di filo spinato e telecamere.

Quella che corre lungo il confine è una crisi migratoria o una crisi politica?
«Sicuramente non è una crisi migratoria. Lo considero un attacco ibrido contro l’Unione europea in cui Minsk utilizza le persone come armi perché la Bielorussia non è mai stata sulla rotta migratoria, soprattutto per i cittadini del Medio Oriente. Ma non è nemmeno una crisi politica perché è un tentativo di spingere Bruxelles a cancellare le sanzioni contro Lukashenko e riconoscerlo come presidente».

 

Perché impedire ai giornalisti di arrivare al confine e di entrare nei centri per i migranti?
«Non ci sono state restrizioni fino a quando è stato introdotto il regime speciale in novembre. Ci potreste scambiare per la Polonia ma non siamo la Polonia, che resta il nostro maggior alleato strategico. Ma questa è la prima crisi della nostra Repubblica e dobbiamo farci trovare pronti».

 

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Non trova contraddizione tra il ruolo della Lituania che difende la democrazia, anche contro la Cina, e la chiusura dei confini ai disperati che cercano rifugio in Europa?
«Non vedo nessuna contraddizione. Ospitiamo in Lituania circa duemila bielorussi. La leader dell’opposizione, Sviatlana Tsikhanouskaya, gestisce da Vilnius il suo ufficio. Esiste una minaccia reale alla vita e alla libertà di questi dissidenti. Mi dispiace invece dire che quello che sta succedendo alle persone in Kurdistan non è una minaccia alla loro vita. La cosa riguarderà forse poche persone a cui suggerisco di introdurre una domanda formale di asilo in ambasciata anziché tentare di entrare illegalmente in Lituania o Polonia».

 

Ma non sarebbe giusto consentire a tutti coloro che premono alle frontiere di esercitare il loro diritto alla richiesta di asilo anziché respingerli dopo pochi metri?
«Dobbiamo ridurre l’incentivo ad usare una legislazione creata per problemi di persecuzione reale a vantaggio dei trafficanti di esseri umani che vendono illusioni a gente desiderosa di avere una vita migliore in un altro Paese. È comprensibile ma non è legale. Esistono vie legali per venire a studiare e lavorare in Lituania perché anche noi che siamo piccoli abbiamo bisogno di lavoratori».

 

Reportage
Lituania, l’altra frontiera d’Europa
26/11/2021

Sostiene le richieste italiane di una revisione del Trattato di Dublino e la necessità di una politica migratoria comune?
«Dovrebbe esserci un movimento verso una politica migratoria europea ma il dibattito non dovrebbe vertere sul come redistribuire i migranti quanto sui criteri di ammissione. Noi stiamo lavorando con gli Stati che condividono il confine europeo per presentare proposte alla Commissione non solo per il futuro ma anche per la situazione attuale, che è una novità per l’Europa e deve essere affrontata».

 

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Come?
«Ad esempio con il finanziamento delle barriere ai confini. Dobbiamo stabilire quanta parte del costo deve ricadere sugli Stati, quanta sull’Unione e quali tecnologie utilizzare».

 

Vuole erigere un nuovo muro in Europa?
«Io sono contraria ai muri. Noi lituani siamo rinati dopo l’abbattimento di un muro. È un peccato che dobbiamo considerare l’erezione di un muro nel XXIesimo secolo ma quasi nessuno si sarebbe aspettato che lo scontro ideologico tra chi è a favore e chi è contro lo stato di diritto sarebbe diventato teso al punto da usare le persone come proiettili. Non stiamo vivendo uno scontro tra regimi: stiamo vivendo una situazione in cui i nostri vicini orientali sfruttano a loro vantaggio la nostra disponibilità a costruire ponti».

 

Perché avete deciso di usare una linea ferma con la Cina?
«Non abbiamo deciso di essere assertivi. Abbiamo rivisto la nostra partecipazione al gruppo 17+1 di “Cooperazione tra i Paesi dell’Europa centrale e orientale e la Cina” perché vi abbiamo trovato scarso valore pratico dopo 10 anni. Tra i problemi abbiamo riscontrato una comunicazione non equilibrata tra Stati».

 

La nuova rappresentanza taiwanese a Vilnius ha mandando Pechino su tutte le furie…
«La reazione di Pechino su Taiwan è un’esagerazione. Taiwan non ha aperto una rappresentanza diplomatica ma un ufficio commerciale e culturale».

 

Perché alcuni Paesi dell’Europa orientale sono meno rispettosi dello stato di diritto, la base della Ue?
«Per noi, che siamo stati chiusi dietro il muro per così tanti anni e siamo stati educati a non fidarci di nessuno, quello mentale non è un cambiamento facile. Ma la Polonia e i suoi problemi con la Commissione europea sono una cosa totalmente diversa da quello che vediamo a Oriente dell’Europa perché i polacchi possono ancora scegliere il proprio governo. E in Europa, l’esperienza insegna, si trova sempre un accordo».