I lavoratori stranieri sono necessari per la crescita e anche per pagare il debito pubblico

Gli immigrati non sono un’insidia, né tantomeno un’“invasione”. Esattamente all’opposto, come spiegano concordi le organizzazioni internazionali, dall’Ocse al Fmi: sono una risorsa economica cruciale in una fase storica in cui - per motivi che non c’entrano nulla con l’immigrazione - i Paesi occidentali, e l’Italia in particolare, vivono una crisi demografica irreversibile. «Meno abitanti significano meno potenziali lavoratori, meno produzione, tasse, contributi, consumi, insomma meno Pil, tutti i danni del decremento di popolazione che è causa non ultima del ristagno di crescita e produttività dell’Italia negli ultimi vent’anni, a parte le montagne russe del periodo pandemico», conferma l’economista Carlo Cottarelli. «La situazione è tale che potrebbe portare in un futuro non lontano all’insostenibilità dei conti pubblici». I residenti in Italia, compresi i 5 milioni di stranieri regolarizzati (diventano 6 se includiamo chi è diventato cittadino), sono oggi 59,3 milioni. Dieci anni fa eravamo 60,3 milioni, ma a inquietare è la previsione dell’Istat: se si va avanti con questo ritmo saremo 58 milioni nel 2030, poi 54 nel 2050 e 47 milioni nel 2070.

 

Gli immigrati non bastano a compensare il calo ma danno un aiuto importante: secondo il Dossier immigrazione del centro studi Idos, fra il 2002 e il 2020 gli italiani fra i 20 e i 49 anni - l’“età d’oro” per il lavoro - sono diminuiti di 4,6 milioni (da 23,8 a 19,2) mentre gli stranieri di pari età sono aumentati di 2,1 milioni, da 900mila a 3 milioni. «Gli immigrati rappresentano un’insperata, almeno parziale, ancora di salvezza», spiega Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica. «Nelle sue proiezioni, l’Istat include una quota di stranieri calcolata sulla base delle tendenze passate: prevede che si tornerà, dopo la sospensione per il Covid-19 (-30% gli arrivi nel 2020, ndr), alla media dei dieci anni fino al 2019 di 280mila entrate l’anno. Che però diventano poco più della metà se si considera quanti italiani nel frattempo lasciano il Paese. I vantaggi sarebbero diversi se l’Italia, avviata sulla via di un solido sviluppo, consentisse un afflusso dell’ordine dei 400mila migranti l’anno, sempre al lordo delle uscite, compensando in parte la grave perdita di popolazione in età attiva e allentando la pressione ai confini». I migranti vengono se l’Italia è attrattiva, e diventano causa ed effetto di una migliore crescita come in Germania, dove pure uno studio della Bundesbank quantifica in 3-400mila gli arrivi ulteriori che sono necessari.

 

«Ovviamente il tutto - dice Rosina - va organizzato bene, identificando le esigenze di assunzione delle aziende e le capacità di ogni soggetto per poterlo poi avviare su percorsi di formazione specifici». Un processo, aggiunge Giampaolo Galli, economista della Cattolica, «che dovrebbe iniziare presso le ambasciate italiane nei Paesi d’origine alle quali gli aspiranti migranti devono potersi rivolgere per valutare le possibilità d’impiego in Italia, su cui le rappresentanze diplomatiche vanno intanto aggiornate: una procedura già prevista ma pochissimo attuata».

Non basta però alzare le quote perché l’equazione inclusione-risorsa divenga operativa. «La pandemia ha spazzato via quasi tutti i progressi in termini di integrazione degli ultimi dieci anni», commenta Stefano Scarpetta, che come direttore per il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse ha coordinato il rapporto “International Migration Outlook” appena pubblicato, una miniera di dati sui flussi dei migranti e sulla loro integrazione economica e sociale in tutti i 37 Paesi membri, dall’Australia agli Usa e all’Europa. «Le disuguaglianze, che faticosamente si erano ridotte, si sono di nuovo esacerbate. I lavoratori nati all’estero sono stati molto più colpiti dalla perdita di posti perché generalmente in possesso di contratti di lavoro più precari ma anche perché concentrati nei settori più bersagliati: nell’ospitalità per esempio gli stranieri, in tutto il mondo, coprono il 25% dell’occupazione. Senza contare che la tensione ha portato al riaffiorare di pericolosi sentimenti anti-migranti quasi dappertutto». Se non si recupera in fretta, aggiunge Scarpetta, le disuguaglianze continueranno a divaricarsi: «Bisogna cominciare dalla scuola, dove tra l’altro è stata devastante ovunque la Dad visto che almeno un terzo dei migranti non parla in casa la lingua del Paese che li ospita e quindi è urgente attrezzare corsi di recupero. E poi curare le condizioni abitative e in generale le infrastrutture che facilitino la loro integrazione: ne trarrebbe vantaggio l’intera società».

 

In Europa, a partire dall’Italia dove i fondi sono maggiori, la grande occasione sarebbe il Pnrr, «però la voce “immigrazione” è come dimenticata», commenta Corrado Bonifazi, demografo e dirigente di ricerca del Cnr. «Eppure la formazione è essenziale: si dice sempre che con i migranti si potrebbero coprire le discrepanze fra domanda e offerta di lavoro, però non si può neanche improvvisare un addetto a qualsivoglia competenza. Si può però abbastanza rapidamente migliorare il livello di preparazione di base dei migranti per introdurli meglio sul mercato del lavoro». Peraltro già oggi, in mezzo a tutte queste difficoltà, gli immigrati non pesano sul bilancio pubblico, anzi: «Dagli stranieri residenti in possesso di un regolare contratto di lavoro arrivano oggi all’Inps contributi per oltre 15 miliardi l’anno a fronte di prestazioni ricevute per circa un miliardo», spiega Massimo Baldini, docente di Politica economica all’Università di Modena-Reggio. «Sono più di 14 miliardi di contribuzione netta per le casse dell’ente di previdenza». Oggi gli stranieri residenti in Italia in possesso di una posizione Inps sono 3.760.421, stando all’Osservatorio stranieri dello stesso ente pubblicato il 25 novembre.

Di questi, 267mila sono pensionati, e 300mila percepiscono prestazioni a sostegno come il reddito di cittadinanza. Ma tutti gli altri lavorano, e il tasso di occupazione della comunità straniera è più alto di quello degli italiani: 58,8% contro 58,1%. Nel complesso, i migranti “costano” allo Stato fra istruzione, sanità, sicurezza, interventi sociali, appunto pensioni, giustizia, cassa integrazione e altri servizi, un totale di 25,5 miliardi. Di contro, “rendono” fra contributi, utenze, tasse, bolli per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno e via dicendo, 29,5 miliardi. Risultato: 4 miliardi netti che le amministrazioni italiane incassano a beneficio dei bilanci pubblici.

Del resto, i migranti in tutto il mondo contribuiscono più di quanto ricevono: secondo il rapporto Ocse già citato, il saldo netto arriva a ben 570 miliardi di dollari. Eppure il contributo degli stranieri potrebbe essere ancora maggiore se ci fosse una consapevolezza più diffusa e una volontà politica razionale. 

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