La pandemia ha fatto emergere i disagi nascosti. La cartina degli ospedali pediatrici parla di una nazione spezzata. Il Pnrr li ha dimenticati. Eppure i bambini sono i protagonisti del 2021. Perché dalla loro salute si misura la qualità del paese

Roberta ha 13 anni. Ha il corpo da bambina e una guerra di emozioni che vortica nella mente. Si è innamorata di una sua amica. La sera prima di andare a dormire guarda il vuoto in attesa del domani. Fuori, il mondo scopre la pandemia, il virus che stronca il respiro, lei impara a conoscere l’amore. Nei loro gesti c’è vergogna, la paura di essere diverse per una società che ancora scrive copioni desueti. Quando riescono a incontrarsi si tagliano per mettere a tacere l’ansia e la paura. Si anestetizzano mentre il sangue scorre in piccoli rivoli e segna il corpo. L’amore cessa e nel piccolo gruppo di amici inizia la stigmatizzazione sui social. Messaggi e insulti inondano il telefono. Roberta non regge la tortura e la solitudine. Una sera va in bagno, prende una scatola di psicofarmaci della madre e li ingurgita tutti. Si sveglia dopo due ore in stato confusionale, vomitando. La madre capisce, la trascina in auto e la porta all’ospedale Pediatrico Gaslini di Genova. Qui le fanno una lavanda gastrica. Roberta si salva ma il percorso è ancora lungo.

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Al Gaslini si sta predisponendo un nuovo reparto di neuropsichiatra infantile. Il progetto è pronto e il prossimo anno partiranno i lavori. I casi di adolescenti che non riescono a sopportare la quotidianità della vita crescono sempre più e quindi i posti letto non bastano. Un’emergenza taciuta che si insinua nelle nuove generazioni. «Già prima del Covid-19 avevamo l’impressione di una crescita del 7 per cento all’anno delle patologie psichiatriche nell’adolescenza. Con la pandemia questa crescita è diventata un’esplosione: tra gennaio e aprile prima del lockdown avevamo una cinquantina di accessi in pronto soccorso per urgenze psichiatriche, nello stesso periodo di quest’anno 120», spiega Lino Nobili, direttore del reparto di neuropsichiatra infantile dell’ospedale pediatrico genovese. Il malessere entra dentro. Spinge nella mente. Non importa quanti anni hai se fuori tutto è desolazione, abbandono. Aumentano i casi, ma aumenta anche l’intensità della malattia e salvare tutti diventa sempre più difficile. «Ci troviamo di fronte a ragazzi che non amano più vivere. Alcuni di loro sono determinati a togliersi la vita, fortunatamente una minoranza, e spesso, alla fine del lungo percorso, capiscono che la vita è un bene prezioso». Fa una pausa e continua, mentre le storie gli affollano la mente: «Molti entrano in crisi anche a causa della loro sessualità. Si preoccupano dello stigma di essere diversi, dicono che “la società non li accetta”, perché può accadere che quando si espongono ricevano in cambio solo violenza. Una violenza che spesso passa per il web, fino a portarli a dire che in loro “non c’è possibilità di vivere l’amore, non c’è futuro”».

Se al Gaslini di Genova si amplia la neuropsichiatria infantile, a oltre mille chilometri di distanza, in Calabria, si cerca di aprirne almeno una che dia risposte a una regione intera. Il dottore Domenico Minasi è nel reparto dell’ospedale di Reggio Calabria, fa il giro dei pazienti. Li prende da ogni dove. Le sue mattine si svolgono in un tetris di posti letto dove trova uno spazio per chi si è rotto una gamba o per chi ha un cancro: «I bambini devono stare dove stanno i bambini e non con gli adulti», dice. Minasi sta cercando di attivare l’area pediatrica dove ricoverare tutti i bambini indipendentemente dalla loro patologia. «Spesso mi chiamano dall’ortopedia, dalla chirurgia, dall’otorino per piccoli pazienti, riusciamo quasi sempre a sistemarli in pediatria».

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Tobia ha 4 anni e un tumore al cervello. Non sa cosa gli stia succedendo, sa solo che ha un forte dolore alla testa. Domenico Minasi chiama d’urgenza il neurochirurgo, non c’è tempo da perdere. Operano e tolgono la massa. Dopo l’intervento chirurgico eseguito con successo Tobia viene spedito a Trento per la radioterapia.

La cartina dell’Italia parla di una nazione spaccata, dove un bambino che vive nel Mezzogiorno ha un rischio del 70 per cento più elevato di un suo coetaneo di emigrare in un’altra regione per potersi curare. I centri pediatrici con il maggiore richiamo si trovano tutti da Roma in su. Ed è così che in base ai dati raccolti dal Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero - Sdo 2019, pubblicato dal ministero della Salute – si scopre che al nord ci sono 30 posti letto ogni 100mila bambini, al sud poco più di 10. Quando c’è invece una malattia ad alta complessità solo il 10,5 per cento dei bambini del sud riesce a curarsi dove risiede. Il costo della migrazione sanitaria dal Mezzogiorno, dove risiede circa il 35 per cento dei bambini/ragazzi, verso altre regioni è stato pari a 103,9 milioni nel 2019. Negli anni a seguire, mentre ogni studio e  sforzo sanitario sono stati concentrati sul Covid-19, questo dato non ha accennato a migliorare. Elisa ha 15 anni, i dolori lancinanti non le permettono di camminare. I giorni si perdono in analisi e controlli, fino a quando non arriva la diagnosi infausta: tumori ai reni. Non ci pensano molto, dalla Calabria si spostano all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Inizia la cura e nonostante la malattia ormai abbia preso il sopravvento, i medici la operano e riescono a salvarle la vita. Potrebbe continuare le cure nella sua regione, ma la madre spaventata rimane a Bologna, perdendo il lavoro pur di continuare le terapie nel capoluogo emiliano.

Dario ha 12 anni, viene dal Belice. La leucemia si è insinuata nel suo corpo. I genitori hanno venduto tutto quello che avevano, hanno deciso di trasferirsi a Bologna per poterlo curare. Non sono mai più tornati. Il professor Marcello Lanari, direttore del pronto soccorso d’urgenza dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, si aggira per gli stretti corridoi. I bambini si appoggiano alle sedie, alcuni piangono, altri attendono. Lui parla, mentre la rabbia si insinua nella voce: «Non trovo giusto che molte famiglie abbandonino le loro terre per venire a curare i figli al nord. La sanità è un diritto garantito a tutti, almeno questo dice la Costituzione». Snocciola i dati con i fogli in mano: «Guardi questo numero, qui c’è scritto che la regione con la speranza di vita alla nascita più elevata è il Trentino Alto Adige, i cittadini qui hanno una speranza di vita di tre anni superiore rispetto alla Campania. Tre anni, non tre giorni. Sono dati del 2017, ma non è cambiato molto». Una dottoressa lo ferma in corridoio, si concentrano sulla cartella clinica di un paziente mentre il caos dell’ospedale continua. Poi riprende il discorso: «Abbiamo bisogno di soluzioni, il governo si dovrebbe concentrare sul miglioramento delle prestazioni sanitarie per chi è affetto da malattie croniche - mi creda, sono sempre di più questi bambini - e ridurre le disparità di accesso alle cure. I bambini del sud hanno una probabilità quasi doppia di riscontrare un bisogno sanitario non soddisfatto, rispetto a quelli nelle più ricche regioni del nord».

 

A chilometri di distanza è sempre il dottor Domenico Minasi ad essere impegnato nella sua battaglia. Un uomo di trincea che tenta di salvare la sanità pubblica calabrese: «Abbiamo redatto un piano per riorganizzare l’assistenza pediatrica in Calabria che adesso è depositato in Regione. Il problema del sud non sono i medici, il problema del sud è l’organizzazione. Chi viene qui a parlare di malasanità in alcuni casi ha ragione, ma quasi sempre non si rende conto che anche nella nostra regione ci sono medici capaci di operare, di fare diagnosi. Non è un caso che il 70 per cento dei pazienti che emigra fuori regione ha già avuto la diagnosi proprio nei nostri centri. Durante il lockdown abbiamo dovuto ricoverare cinque adolescenti per anoressia, due delle quali in gravissime condizioni, perché non esiste un reparto di neuropsichiatria infantile. Dopo la degenza nel nostro reparto e la risoluzione dei problemi acuti non sapevamo dove poter far continuare loro le cure. Ed è così che sono finite fuori regione. Dieci anni di commissariamento ci hanno distrutto. La politica deve fare la sua parte ora, perché noi la stiamo facendo».

Da Bologna alla Calabria, fino alla Toscana. Alberto Zanobini, direttore generale dell’ospedale Meyer di Firenze, nonché presidente di Aopi (Associazione degli ospedali pediatrici italiani): «Se le dovessi dire che non esistono buone strutture al sud le mentirei. Se vediamo la cartina dell’attrazione extraregionale del Meyer i flussi provengono anche dal Nord. Il motivo risiede in una sfiducia atavica nella sanità del Mezzogiorno. Si tratta anche di resistenze culturali: le famiglie preferiscono affidarsi anche per operazioni semplici ai grandi poli pediatrici, preferiscono noi, il Gaslini o il Bambino Gesù di Roma. Dovrebbe essere l’eccezione e non la regola». È il 1984 quando in un convegno a Napoli i pediatri di tutta Italia si incontrano per discutere “La migrazione Sud-Nord del bambino malato”, da allora nulla è stato fatto, i dati sono gli stessi se non per qualche piccola variazione. «Se  analizza il Piano nazionale di ripresa e resilienza scoprirà che poco e niente viene investito per la salute dei bambini, è come se fossero invisibili, nonostante abbiamo sempre più bisogno di cure e centri specializzati per i bambini cronico-complessi, tutto questo lo trovo sconvolgente perché nessuno si preoccupa del futuro», spiega Alberto Zanobini. Il professor Romeo Carmelo, esperto in chirurgia pediatrica e medico all’ospedale di Messina, si stacca dalla sala operatoria dopo un lungo intervento. C’è una scintilla di orgoglio nella sua voce, ma anche di amarezza: «In questi anni abbiamo cercato di creare dei rapporti anche con il Gaslini di Genova per evitare che i bambini viaggiassero in tutta Italia. Vede, la maggiore problematicità è la scarsa fiducia, tutti vogliono andare al nord anche quando potremmo curarli al sud». Al reparto di reumatologia dell’ospedale Gaslini l’80 per cento viene da fuori regione, la maggior parte dalla Sicilia. Direttore scientifico dell’ospedale è il professor Angelo Ravelli, uno dei più noti reumatologi a livello internazionale: «La verità è che l’ospedale in cui lavoro è uno dei pochissimi poli pediatrici italiani. Le famiglie a volte vengono direttamente da noi cercando i contatti su Internet, perché sono richiamati dal nome e in certi casi dall’eccellenza. La soluzione migliore sarebbe operarli da noi quando è necessario e poi farli seguire nelle loro regioni». Parla a margine di un convegno: «È indubbio che esistono poli di eccellenza anche al sud ma purtroppo non sono conosciuti, dirò di più: molti medici vengono a formarsi da noi per poi tornare nei loro ospedali».

Dall’eccellenza alla precarietà dell’etica. Ogni bambino che deve essere ricoverato dovrebbe essere assistito in un reparto pediatrico. Così prevede la carta dei diritti a loro dedicata. E invece almeno 2 su dieci finiscono in un reparto per adulti. Anche in questo caso sono i dati a dettare le parole: diritto negato. In base agli ultimi report a disposizione, datati 2019, su 175.104 pazienti tra 0 e 17 anni, il 25,19 per cento sono stati ricoverati in un reparto per adulti. Qui non ci sono scuole a disposizione, non ci sono giochi e soprattutto non c’è personale specializzato che sappia parlare con loro e spiegare con serenità come mai si trovino all’interno di un ospedale. «Il ricovero è un evento traumatico, pensare che un bambino possa finire in un reparto per adulti è grottesco. Significa non rispettare i suoi diritti», spiegano in coro Alberto Zanobini e Marcello Lanari.

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Bambini dimenticati fino all’ultimo. Stigmatizzati in questi due anni di pandemia con la parola untori, senza dire apertamente che anche loro potevano ammalarsi di Covid-19 e finire in terapia intensiva nel peggiore dei casi. Chiara Carducci, psicologa del Bambino Gesù di Roma, segue il percorso psicologico che alcuni di loro devono intraprendere dopo essere stati in ospedale. Andrea ha 11 anni, il virus si è insinuato dentro di lui. Finisce in rianimazione nella sede di Palidoro del grande ospedale pediatrico romano. Si salva ed entra in un tunnel di paura, controlla costantemente il suo saturimetro, assilla i medici con i parametri vitali. Nonostante i suoi 11 anni sa benissimo cosa significhi la parola malattia. Viene dimesso ma è costretto a un percorso psicologico perché il terrore di morire lo blocca. «Molti di loro in questi due anni hanno vissuto guardando le immagini di persone che stavano male in televisione. Appena risultano positivi entrano in un vortice perché è un virus che conoscono in ogni suo dettaglio, soprattutto in quello più spaventoso», spiega la dottoressa Carducci. Bambini bombardati costantemente dalle informazioni: «Alcuni di loro vengono isolati dopo la guarigione dagli altri compagni, si sentono dei piccoli untori». Enea ha 5 anni, è risultato positivo al Covid-19. La mamma, per assistere la nonna, si era ammalata, portando il virus in casa:«Quando ha bussato alla mia porta mi ha semplicemente detto: mamma sono un bambino malato», racconta ora Fausta. Enea rimane positivo per 100 giorni, all’inizio il virus è così violento da procurargli un continuo sanguinamento dal naso. Piange, si deprime e si convince di essere pericoloso per gli altri. Dopo 100 giorni di isolamento può tornare a scuola, ma non vuole perché è convinto che tutti si ammaleranno per colpa sua. Con pazienza gli spiegano che è tutto finito e che può finalmente uscire. Enea esce di casa, ma ogni volta che la parola Covid-19 viene pronunciata, le labbra si increspano in una smorfia, raccontando il dolore della mente. Un dolore che accomuna tutti. Dal bambino di onco-ematologia che ha lasciato la sua casa per curarsi, a quello che nella sua regione non trova risposte o pensa di non trovarne. Il dolore di chi è costretto a rimanere per giorni accanto a un adulto. Il dolore di giovani cittadini ai quali non sono dedicate parole degne nel Piano nazionale di resistenza e resilienza.