Intervista
Marco Cappato: «Enrico Letta sbaglia quasi tutto su fine vita ed eutanasia: il referendum si deve fare»
«Partecipo alle Agorà, ma a cosa servono?». Le illusioni della sinistra, le leggi che si arenano per eccesso di compromesso (la prossima: suicidio assistito), la spaccatura tra Parlamento e società, i partiti ridotti a «trionfo di piccolissime clientele», le risorse della «spid democracy». Parla Marco Cappato. Per i referendum ed oltre: «Non escludo che per le elezioni sia necessario fare una grande lista, una coalizione riformatrice e laica»
L’uomo che (non da solo) fa cambiare le leggi ha una popolarità che a Palazzo se la sognano. Anche senza talk show, per strada lo fermano i ragazzi - i famosi giovani - citano precedenti incontri, si complimentano, vogliono il selfie. Lui sorride, risponde, mai molla l’aggeggio con cui si registra l’intervista e di cui si è impossessato: lo brandisce come una lancia, lo restituisce solo prima di salire sul treno, per la prossima tappa di una battaglia che dopo un secolo sembra funzionare di nuovo: quella per i referendum. «È da metà anni Novanta che giro l’Italia, sempre ad elemosinare attenzione: non avevo mai visto un entusiasmo così». Marco Cappato, 50 anni, radicale non (più) per tessera, cinque arresti o fermi per disobbedienza civile, un processo che ha rivoluzionato la disciplina sul suicidio assistito, l’uomo che fa cambiare le leggi insieme a Filomena Gallo e all’Associazione Luca Coscioni (tesoriere lui, segretaria lei, hanno fra l’altro ridotto a brandelli la legge 40 sulla fecondazione assistita, per dirne una) è una macchina da guerra vestita di mitezza, buoni studi, buone maniere.
In un tempo di piazze senza politica e di politica senza popolo, ha rivitalizzato uno strumento sdegnato persino dai fan grillini della democrazia diretta: oltre un milione e duecentomila firme raccolte in estate per il referendum sull’eutanasia (i voti non sono firme, ma per un confronto: a Roma Gualtieri ha vinto con 565 mila voti; a Milano Sala ne ha presi 277 mila) e seicento mila firme tutte online (grazie alla nuova disciplina che lo consente) in una settimana, per il referendum sulla cannabis legale, con metà dei firmatari under 25 anni. Rivitalizzando, di conseguenza, gli argomenti su cui il Palazzo aveva rinunciato da anni: il dibattito sulla cannabis e, in Parlamento, il disegno di legge sul suicidio assistito, resuscitato dal nulla proprio nei giorni in cui la sanità marchigiana ha dato il via libera al primo suicidio assistito. Eppure Cappato fiuta aria di fregatura.
Non siamo alla vigilia di una vittoria parlamentare?
«Temo che il ragionamento del Pd sia: diamo un segnale che approviamo in una della due Camere il ddl sul suicidio assistito, e poi la cosa muore lì».
Ma il Pd non è favorevole?
«In teoria sì: il problema è se spingerà davvero la legge, o se farà finta. Se utilizzerà il referendum come un propulsore, o se invece intenderà il ddl in chiave antireferendaria. Sull’eutanasia nessuna parola chiara è stata detta da Enrico Letta».
In tv il segretario dem ha detto che «se passa il referendum non ci sarebbe normativa, in una fase» e che invece il ddl, che andrà in Aula alla Camera il 13 dicembre è «la soluzione più avanzata». In pratica: non c’è bisogno di questo referendum.
«È vero il contrario. Referendum e ddl non sono la stessa cosa. La legge riguarda l’articolo 580, aiuto al suicidio, su cui è già intervenuta la Consulta. Il referendum invece riguarda il 579, omicidio del consenziente, l’articolo che impedisce l’introduzione dell’eutanasia legale attiva. Legalizzare l’uno e non l’altro aprirebbe a una serie di contraddizioni».
In che modo si potrebbe legarli?
«Si dovrebbe, con emendamenti, inserire l’eutanasia dentro il ddl, ma su questo c’è già il parere contrario dei relatori. La scelta è stata presa da chi? Dove?».
Letta ha detto che vuole utilizzare le Agorà per arrivare a una posizione comune nei democratici.
«Ho partecipato e parteciperò alle Agorà. Però a che servono? È un grande investimento politico, ma non ho capito se l’ambizione è riconnettersi con la partecipazione dei cittadini oppure è organizzare il proprio consenso, stile piattaforma Rousseau».
Siamo già alla polemica?
«Ci deve esser una chiarezza pubblica delle decisioni: il mio problema non è il dibattito nel Pd, che non mi riguarda, ma il dibattito parlamentare. L’istituzione».
Non parlavamo del fine vita?
«È un tema importante, ma non è che la democrazia inizi e finisca là, anche perché coi casi individuali, la disobbedienza civile, avanzamenti li abbiamo ottenuti. E sono convinto che ci stiamo arrivando: ma se ci arriviamo senza il Parlamento, è un danno enorme per la stessa democrazia. Una sconnessione del genere tra istituzioni e società è un vero pericolo: per il Parlamento, più che per il tema in sé».
Il ddl sul suicidio assistito rischia di finire come il ddl Zan?
«C’è un problema di compromesso iniziale, figlio un riflesso che c’è a sinistra e inizia dalla domanda: vuoi partire dai diritti o dalle fobie? Nella società in cui i diritti ci sono, in cui è normale che ci siano genitori omosessuali o che gli immigrati siano integrati, lo spazio per l’omotransfobia e il razzismo è prosciugato. Se tu vuoi togliere l’acqua alla palude, devi andare alla radice, non solo alle conseguenze. Vale anche per la questione neofascista: se sul fine vita il Parlamento segue - come è - le leggi del 1930, è più in discontinuità liberarsi di una concezione da Stato etico, o chiudere Forza Nuova? Negli anni Settanta, se avevamo un figlio di divorziati in classe lo sapevano tutti: ma non è che abbiamo fatto la legge contro la divorziofobia. E, invece, una volta che poi quel diritto c’è stato, si è affermato nella società, non è stato più un problema sociale».
Sta dicendo la condanna di questi ddl è l’inclinazione al compromesso?
«È un’illusione della sinistra ufficiale italiana, pensare che sminando il campo dagli elementi più divisivi, le cose passino meglio. È un’illusione politicista, elitaria, autoreferenziale. Va bene finché è un dibattito per addetti ai lavori: se stai a un convegno col cardinale, il giurista e Cappato, più carne togli dal fuoco più è facile trovare il consenso. Ma quando vuoi coinvolgere la società è tutto l’opposto: più tu mi parli di cose che capisco, che riguardano la mia vita, più ho motivo per esserci o non esserci».
Insomma va a finire che l’eutanasia è un tema popolare.
«Certo, è più popolare tra la gente, perché sanno cosa vuol dire. Il biotestamento no, è argomento da esperti. Se vuoi andare nelle famose periferie, o fai una grande campagna di informazione, oppure semplifichi il dibattito agganciandolo al vissuto di ciascuno. Vale anche per i matrimoni egualitari, l’adozione e la fecondazione assistita. Vai dritto alla questione: “sei d’accordo o no che la coppia di froci abbia un bambino?” (lo dice in dialetto romano, per calcare l’iperbole, ndr). Una domanda che spaventa i dirigenti, mentre non li spaventa parlare dell’omotransfobia. “Chi può essere d’accordo all’odio?”, si domandano. “Ohibò, nessuno”, si rispondono. “Allora procediamo”, concludono. Per il cittadino qualunque è il contrario, ed è così che si forma un’opinione. Tutti questi discorsi sono il cuore del problema: la crisi dei sistemi democratici. E l’alternativa non è Orban, ma la Cina».
Cosa c’entra la Cina?
«Le nuove tecnologie, sempre più potenti, possono essere utilizzate o per controllare i cittadini o per permettergli di agire. È una partita che ci giochiamo adesso. La Cina ha già optato per il controllo: e funziona perché, con la centralizzazione dei dati, un regime riesce a mantenere le promesse. Quindi o noi facciamo una scelta opposta, e investiamo sulla partecipazione democratica e tecnologica, prendendo atto che la democrazia elettorale da sola non può stare dietro ai grandi cambiamenti della società - che infatti sono fuori dal dibattito nazionale, a partire dal clima - oppure il sistema democratico sarà sempre più impopolare».
Non c’è il rischio che sia proprio la “spid democracy” a spingere verso un ulteriore accentramento del potere?
«Sì, se non governi la tecnologia. Se oggi nel tuo quartiere c’è un problema di rifiuti che fai? Vai su Facebook e fai il gruppo “il mio quartiere puzza”: cioè una multinazionale americana for profit è lo strumento che hai in mano. Che alternativa hai? Andare in Comune, farti dare i moduli, vidimare, raccogliere le firme: roba che nessuno può più immaginare di fare. Quindi è vero che, se gli unici strumenti di interazione sono questi, c’è il rischio populista. Ma la risposta non può essere il modulo timbrato: piuttosto, investire su strumentazioni digitali che rispondano a logiche diverse. Per noi, durante la raccolta delle firme, ha funzionato tantissimo Instagram: chi firmava si faceva la foto, la postava, e questo serviva a richiamare altri. Non ha senso contrastarlo, piuttosto direi: non siamo in grado di avere dei canali di rete civica?».
Quanti referendum potrebbe proporre in un mese la Ferragni?, si domandava Massimo Cacciari su questo giornale.
«Uno può dire: e allora, che cambia? Se propone una cazzata si voterà contro. O dobbiamo fare le cose più difficili perché altrimenti Fedez o la Ferragni proporranno dei referendum? La democrazia deve essere agevole, poi certo il processo decisionale non deve essere istantaneo: mica vogliamo il sondaggio permanente, lo stesso referendum ha 30 giorni di campagna elettorale. Questo implica però crederci, nella democrazia, e non guardare indietro. Anche perché non è che prima ci fosse questo splendido panorama, con Occhetto, Fini e altri bravissimi statisti, un grande funzionamento dei sindacati. L’erosione dei corpi intermedi non è opera di Salvini, è il contrario. E vale lo stesso per il sistema dei partiti. Allora non puoi dire torniamo a fare come prima. La democrazia della partecipazione devi usarla per rafforzare la democrazia rappresentativa: perché sennò questa non rappresenta più niente».
I partiti non hanno un buon rapporto coi referendum. Già ai tempi del divorzio nessuno aveva capito: Fanfani pensava di vincere, Berlinguer pensava di perdere. Ora come è?
«Persino peggio. In pratica un partito si schiera a favore perché lo considera utile per il suo elettorato. Se è contrario, non si schiera: spera nella disinformazione. A nessuno passa per la testa di dire: c’è l’occasione, discutiamo del tema. Dirlo sembra quasi una bestemmia».
È questa la politica?
«I singoli temi sono un pezzo, ma la politica non è una somma di eutanasia, cannabis, eccetera: politica è come scegli di connettere fra loro i temi, e come gestisci il potere, e attorno a quali matrici di pensiero. Ma se tutto questo viene fatto senza la partecipazione, diventa autoreferenziale».
Che è successo ai partiti?
«Una volta perso il rapporto con precisi gruppi sociali, non hanno colto l’occasione per riorganizzarsi e puntare a tutta la società. La reazione è stata l’opposto: si sono chiusi in sé. Hanno costruito legami interni: i sindacati sono diventati i sindacati dei sindacati, i partiti sono diventati i partiti delle clientele. Con meno soldi, ma più interessi particolari: un nucleo duro, para statale, che garantisce la sopravvivenza di un ceto politico. Si vede benissimo a livello comunale. In un mondo dove il voto di opinione conta sempre meno, se io ho un compatto voto clientelare e mi candido nel movimento giusto, con il mio portafoglio di x persone divento fortissimo. Perché mi collego a una opinione, ma sono l’unico ad avere in mano qualcosa: è il trionfo delle piccolissime clientele».
Bel panorama.
«Questa cosa la risolvi se riesci a rendere quelle clientele ininfluenti rispetto a un nuovo voto di opinione organizzato in modo che la gente possa partecipare davvero».
È il preannuncio di una candidatura alle politiche?
«Non escludo che un domani sia necessario fare una grande lista, una coalizione riformatrice e laica: non devo farlo io per forza, ma non lo vedo come una cosa inutile, non ci rinuncio in partenza. Ma ora l’urgenza è riequilibrare il funzionamento della democrazia con un enorme potenziamento della partecipazione. E servirà del tempo».