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Attualità
dicembre, 2021

Un po’ archeologo e un po’ 007: chi è il cacciatore di reperti, terrore delle case d’asta

Christos Tsirogiannis da oltre dieci anni insegue i capolavori, trafugati da Grecia e Italia, in vendita o acquistati dai musei. Il suo database conta 100mila pezzi da trovare. Finora ha recuperato più di 1500 opere

Nel lotto numero 95 veniva proposto un kántharos, un’antica coppa di fattura apula, decorata con il volto di un satiro e di una menade. Sul sito della casa d’asta inglese Bonhams il reperto prometteva di essere uno degli oggetti di punta dell’incanto: per aggiudicarselo occorrevano almeno 20mila sterline. L’archeologo forense Christos Tsirogiannis, però, non aveva intenzione di comprarlo, piuttosto di restituirlo al Paese al quale era stato sottratto.

In un’altra foto, conservata dall’archeologo greco in un archivio, lo stesso recipiente appariva in pessimo stato. La coppa, incrostata di terra, era stata fotografata di fronte a un muro di cemento, forse un magazzino o un laboratorio di restauro, con un lato visibilmente scheggiato. In un’altra immagine dell’archivio appariva restaurata, in una condizione simile a quella del catalogo di Bonhams, dove la barba nera del satiro si stagliava nitida sul rosso dell’argilla. Per l’archeologo quella coincidenza aveva una spiegazione precisa: il passo successivo sarebbe stato contattare Scotland Yard. A due giorni dall’apertura dell’asta, il reperto veniva ritirato. Un anno dopo, nel 2020, il kántharos tornava in Italia, dove 2.400 anni prima era stato fabbricato da un artista sconosciuto.

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Il lotto 95 di Bonhams è solo l’ultimo tra i reperti rintracciati da Tsirogiannis a essere stato rimpatriato in Italia: da oltre dieci anni l’archeologo è la spina nel fianco delle più importanti case d’asta come Christie’s e Sotheby’s, ma anche di istituzioni come il Getty museum di Los Angeles e il Metropolitan museum of art di New York. Il suo archivio digitale di opere d’arte antica dalla provenienza sospetta, ottenuto grazie alla collaborazione con le autorità impegnate nella lotta al contrabbando, conta più di 100mila oggetti suddivisi per categoria: un magazzino virtuale dove anfore, busti di marmo, statuette occupano ciascuno il proprio posto, suddivisi a loro volta per materiale e tipo di decorazione.

Nel suo tempo libero, ogni volta che una casa d’aste pubblica il catalogo della prossima vendita o un museo celebra un recente acquisto, Tsirogiannis setaccia l’archivio e confronta l’immagine del reperto sospetto con quelle presenti nel suo database. Se due immagini combaciano, l’Interpol e le autorità dei Paesi interessati sono i primi a saperlo.

Un vero e proprio museo potrebbe essere allestito con le opere rintracciate fino a oggi dall’archeologo: 1558 oggetti appartenenti alle civiltà antiche di quattro continenti – ma in maggioranza riconducibili alla storia greca e romana – rinvenuti in scavi illegali e poi esposti nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo. «Nell’archivio, i reperti appaiono di frequente in pessimo stato perché vengono immortalati subito dopo lo scavo, a conferma della loro autenticità. Solo dopo vengono restaurati clandestinamente e immessi nel mercato», spiega Tsirogiannis, oggi professore associato dell’Institute of advanced studies dell’università di Aarhus, in Danimarca.

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La prima volta in cui Tsirogiannis è stato contattato dalla polizia greca era un giorno dell’estate del 2004, Atene celebrava le Olimpiadi e nel momento della pausa pranzo le forze dell’ordine avevano fatto capolino negli uffici del ministero della Cultura, dove l’archeologo lavorava, alla ricerca di un volontario da imbarcare in una missione. Tsirogiannis ha accettato ed è salito su una macchina della polizia diretta verso un monastero fuori città, i cui confratelli erano stati scoperti a trafficare con affreschi bizantini staccati dai muri. «Il giorno dopo mi hanno chiamato di nuovo e nei successivi quattro anni mi sono occupato di 174 casi», ricorda l’archeologo.

Due anni dopo a Schinoussa, una piccola isola dell’Egeo, avviene l’evento che trasformerà Tsirogiannis in un instancabile cacciatore di opere trafugate: nel corso di un blitz in un’elegante villa dove Christos Michaelides e Robin Symes, i principali mercanti di antichità dell’epoca, erano soliti passare le vacanze viene sequestrato l’archivio sul quale oggi lo studioso basa le proprie ricerche.

 

Oltre 300 capolavori di arte antica, tra cui alcuni affreschi bizantini strappati alla chiesa di Grotta delle Fornelle, nei pressi di Caserta, vengono rinvenuti dalla polizia greca, affiancata da Tsirogiannis. Il ritrovamento più importante, però, avviene nello sgabuzzino della cucina: 17 album contenenti migliaia di fotografie di reperti messi in commercio, molti dei quali ritratti in pessimo stato. «Avevamo la netta sensazione di assistere a una scoperta fondamentale per la lotta al contrabbando», ricorda Tsirogiannis, che da allora non ha mai smesso di dare la caccia agli oggetti immortalati in quelle foto.

Nello stesso anno, negli uffici della questura di Atene, l’archeologo conosce il magistrato Paolo Ferri, specializzato nella lotta al traffico illecito di opere d’arte. In quell’occasione, le autorità italiane condividono con Tsirogiannis altri archivi fondamentali sequestrati a partire dal 1995 nei caveau svizzeri di Giacomo Medici e Gianfranco Becchina, i principali mercanti d’arte dell’epoca.

Gli archeologi Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini, allora funzionari della Soprintendenza archeologica per l’Etruria Meridionale, hanno studiato a lungo gli archivi sequestrati in Svizzera e hanno contribuito al rimpatrio di oltre cento opere da musei come il Getty di Los Angeles e il Museum of fine arts di Boston. «Quei documenti ci hanno permesso di toccare con mano le dinamiche che regolano il traffico illecito di reperti archeologici: prima potevamo soltanto sospettarne la vastità» ricorda Rizzo. Negli anni successivi Medici è stato condannato a otto anni di carcere e dieci milioni di euro da rifondere allo Stato per danni al patrimonio: in base al processo solo alcuni dei reperti presenti nell’archivio che prende il suo nome sono stati giudicati ricettati; Becchina invece è stato prosciolto per decorrenza dei termini.

 

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Il sequestro degli archivi ha rappresentato uno spartiacque nella lotta al contrabbando, ma da allora, secondo Tsirogiannis, la mentalità che guida il mercato è rimasta la stessa, e rintracciare le opere trafugate è come combattere contro i mulini a vento: quando l’archeologo indaga le origini dei reperti in vendita si imbatte spesso nella dicitura «Collezione privata». «Ancora oggi gallerie e case d’asta non sono obbligate a fornire informazioni dettagliate sulla provenienza dell’oggetto», spiega. Nel caso del kántharos rimpatriato, la cronologia delle transazioni precedenti, riportata nel catalogo di Bonhams, non andava oltre il 1991, quando la coppa era stata venduta in un’asta a New York: ma in che modo l’oggetto avesse raggiunto gli Stati Uniti rimaneva un mistero.

In passato, Sotheby’s si è rammaricata che la documentazione in possesso di Tsirogiannis fosse «esclusività di un solo cittadino», mentre Bonhams ha chiesto di potervi accedere per vigilare meglio sulle proprie vendite. Ma per Tsirogiannis condividere quei documenti significherebbe condannare all’oblio migliaia di opere, perché non verrebbero più offerte sul mercato. «Lo stesso archivio è nelle mani delle autorità greche e italiane che lo hanno sequestrato: i commercianti potrebbero inviare a loro i propri cataloghi per un accertamento prima della vendita, eppure non lo fanno».

Al contrario delle opere d’arte rubate, facili da identificare per via delle denunce, i reperti trafugati dai famigerati “tombaroli” sono protetti dal mistero che ha accompagnato la loro scoperta. «Non c’è documento che testimoni il loro ritrovamento in uno scavo illecito, l’origine può quindi essere occultata molto più facilmente», spiega Maurizio Pellegrini.

Muoversi in un mercato come quello delle opere d’arte antiche, che abbraccia una geografia vastissima e ripercorre il filo spesso ingarbugliato del tempo può rivelarsi un mestiere arduo. Per Clinton Howell, presidente di Cinoa, la principale confederazione internazionale dei commercianti d’arte, «in molte vicende non è chiaro chi possiede cosa: per questo quando l’antiquario si imbatte in un reperto dalla provenienza sospetta e lo segnala alle autorità dovrebbe essere ripagato per il tempo impiegato nella ricerca».

Fino a oggi Tsirogiannis non ha mai ricevuto un compenso economico per le opere identificate. Quando era ancora bambino, le foto apparse sui giornali delle tombe degli antichi re macedoni scoperte nel nord della Grecia si sono impresse nel suo immaginario: «Sentivo che anche io avrei voluto cercare quei cimeli». Una delle sue prime scoperte, grazie agli archivi sequestrati, è stata una corona d’oro restituita alla Grecia dal Getty museum, sottratta a una tomba macedone che «probabilmente non verrà mai identificata e lo stesso rischio corrono migliaia di altre opere trafugate, offerte sul mercato e battute all’asta nell’indifferenza generale», riflette Tsirogiannis. Almeno finché, tra le pagine di qualche catalogo, una nuova fotografia non attirerà l’attenzione dell’archeologo: «Se il reperto è in circolazione  vuol dire che può essere trovato».

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