Francesca Mannocchi: «La mia malattia è una battaglia politica»
Dal giornalismo nei luoghi di guerra al corpo trasformato in nemico. Il racconto di un’inviata negli angoli più inesplorati della quotidianità: la maternità, la famiglia, la vulnerabilità
Francesca Mannocchi è una scrittrice, inviata di guerra per l’Espresso, ed è una giovane donna sottile, e parla guardando altrove. In alto, in basso o di lato, di tanto in tanto, in questo suo continuare a guardare ciò che le sta intorno, anche mentre parla di sé, proprio perché parla di sé, incrocia i miei occhi. Io pure, d’altronde, guardo sempre altrove.
Così, in questa comune timidezza vorace, forse infantile, ogni tanto i nostri occhi si incrociano, e sorridiamo. Il suo ultimo romanzo si intitola “Bianco è il colore del danno” (Einaudi) e leggendolo ho provato stupore. La cosa incredibile dello stupore è che, ogni volta che ti stupisci, non ricordi quando è stata l’ultima volta, lo stupore è un sentimento ripetuto e assoluto. Lo stupore, come il romanzo di Mannocchi, è ripetuto e assoluto.
A proposito di ripetizioni, quanto lei stessa somiglia a Khaled, protagonista del suo precedente romanzo? «Cerco di non essere la mia malattia, come Khaled non era solo un trafficante di uomini. Il rischio delle parole, quando sono inesatte, e se non inesatte parziali, è inchiodarti a una definizione. Lo stato di vulnerabilità è identitario: se hai difficoltà economiche sei povero, se hai molti soldi sei un privilegiato, se hai la sclerosi sei malato».
Non sapevo avesse la sclerosi, e anche quando, nel 2018, ho letto la sua storia qui sull’Espresso, non ho capito. «Allora ho raggiunto il mio obiettivo, la malattia è l’occasione di acquisire o consolidare un modo politico di guardare il mondo. La malattia non si vede ma c’è e io la sento».
Che cos’è una malattia quando non si vede? «Un modo per renderci conto che la malattia rende più vulnerabile la lingua per raccontare uno stato fisico. Non c’è una lingua politica per raccontare la malattia. Per la sclerosi, come per il cancro, e come succede anche per il Covid, esiste un raccontare per l’eroismo del singolo malato o del singolo medico, ma non esiste una lingua che racconti la vulnerabilità di una comunità».
“Lettera a un bambino mai nato” è del 1975, Oriana Fallaci ha fatto la reporter da zone di guerra, lei fa la reporter da zone di guerra. Nel romanzo di Fallaci, già la maternità è una malattia, che cosa è cambiato in 46 anni? «Facciamo finta di esserci emancipati, ma non è vero. Quando sono rimasta incinta, alcune donne illuminate e di sinistra e alcuni direttori con i quali lavoravo, mi hanno detto “Peccato che adesso tu debba fermarti”. Come se la maternità portasse con sé un cambio di gomme, per utilizzare una metafora automobilistica, quasi dovessi stare ferma un turno, in una specie di gioco dell’oca. Immediatamente, se resti incinta, diventi un’eccezione. C’è un prima e un dopo nella tua vita. E invece la maternità è una cosa non–eccezionale che, per me, è stata una grande occasione di interrogativi. Non ho smesso di voler portare il tacco 12, voler essere bella, non ho smesso di avere il desiderio di fare l’amore o rimanere sola. Tutte cose che nella griglia identitaria della maternità non ci sono. Quando sei madre, sei fertile, e poi tutto il resto. Quando sbagli, sbagli di meno, perché hai contribuito a mandare avanti la specie. Dopodiché alcune cose che ho fatto, in maniera dimostrativa, non le rifarei».
Me ne dica una. «Non andrei incinta di sette mesi in Libia a rischiare un colpo di mortaio sulla macchina».
Bianco è il colore degli ospedali, dove si nasce e dove ci si cura. «Non è un romanzo sulla maternità, né un romanzo sulla malattia. È un romanzo che parla di politica. Politicamente guardiamo le cose, politicamente non sappiamo come guardarle. Il modo in cui guardiamo il nostro corpo nel mondo è un gesto politico».
Quanto è politico il nostro corpo nel sistema sanitario? «Mi sono avvicinata agli ospedali con l’atteggiamento della principessa sul pisello. Perché non mi erano mai serviti. Esattamente come Khaled questo libro racconta una ammissione di colpa. L’atteggiamento con cui mi sono avvicinata, non solo alla struttura, ma al simbolo ospedaliero, era quello di chi pensava che tutto le fosse dovuto. Come se avessi dimenticato le file di persone in attesa fuori dagli ospedali da campo, ho bussato insolentemente alla porta del reparto di neurologia chiedendo: “Quando arriva il mio turno?” Ero improvvisamente diventata le persone che critico, e in quel momento ho capito che dovevo fare ciò che chiedo di fare a chi mi legge: immedesimarmi, essere paziente, accettare, forse la cosa più difficile di tutti, che il tempo non ti appartiene».
Perché bianco è il colore del danno? «Quando andavo al liceo ho ascoltato la professoressa di fisica raccontare della natura duplice della luce, corpuscoli e onde. Ecco, non riuscivo a processare questa informazione. Motivo per cui il volume di Amaldi, il libro di testo, è rimasto avvolto nel cellophane. Motivo per cui non riesco a non pensare al buio quando penso alla luce, non riesco a non pensare alla doppiezza dei fenomeni, non riesco a sospendere il tentativo di trovare parole altre. Parole nuove che possano descrivere la vulnerabilità, perché le parole siano leggere, devono essere esatte, e quando non le trovo, perché non sempre ci sono le parole esatte, mi fermo».
E quando si ferma, prima di ricominciare a scrivere, a che pensa? «Nessuno ti assolve dalla capacità di poter essere più cose, dal desiderio di voler fare tutto. Non sappiamo gestire la normalità, perciò facciamo scoppiare le storie d’amore, i matrimoni e le guerre pure, perciò facciamo male ai figli, trattiamo tutte le cose normali, un lavoro – anche il mio, la maternità – anche la mia, come fossero eccezioni».
Lei racconta una famiglia molto lontana dall’idea che ce ne siamo fatti nelle saghe degli ultimi anni. C’è sua nonna, suo padre, suo figlio, il suo compagno, sua madre, il medico di base, i vicini di casa in una periferia qualsiasi. Come le è venuto in mente di scrivere l’epica di una famiglia, riprendo la sua accezione, normale? «Quando ho cominciato a scrivere ho capito che stavo procedendo, ma l’ho capito alla terza o quarta volta, partendo da un aneddoto familiare e giungendo, con un climax, alla malattia. E ho capito che questo Paese è fatto di famiglie come la mia e di storia come la mia, o la mia come la loro. Famiglie normali che rappresentano i grandi difetti di questo Paese, il piccolo abuso edilizio o la piccola evasione, famiglie che non hanno grandi eroi antifascisti e che non hanno fatto la resistenza ma hanno vissuto e vivono con la caparbietà dei loro piccoli difetti e dei loro piccoli pregi. Uno dei grandi assenti dalla nostra narrativa contemporanea è la normalità degli anni Ottanta nella quale è cresciuta la nostra generazione».
Che intende? «Capitava, le sarà capitato, da adolescente di buttare un occhio distratto alla televisione, tenuta o dimenticata accesa durante la cena. Le sarà capitato di vedere, inconsciamente, Italia 7 Gold, dove Umberto Smaila era circondato da ragazze Cin Cin con le stelle di strass sui capezzoli, e, da una stella all’altra le sarà capitato, altrettanto inconsciamente di identificarsi con le avventure della Stella della Senna. Ecco, la classe politica che aspira a diventare classe dirigente è cresciuta come noi, inconsciamente davanti a contraddizioni esposte e in famiglie con nonni analfabeti o semi analfabeti e genitori che, pur non essendolo, non erano in grado di tenere insieme tutte quelle stelle. E questo loro non spiegare, ha fatto sì che ci ponessimo questioni. E adesso teniamo Bachmann e Bernhard sul comodino e cerchiamo di ricordarci, spesso fallendo, di non appiattire le contraddizioni nelle quali siamo cresciuti e di non cedere a quel voler sembrare buoni che è il grande inganno di questi tempi».
A proposito di contraddizioni e comodini, il romanzo comincia con un’eco, un rimando al “Trentesimo anno” di Ingeborg Bachmann. Bachmann scrive in quel libro che il trentesimo anno è il tempo degli ossimori, dell’amare una cosa e non amarla, del volere una cosa e non volerla... «Del sembrare una cosa e non esserla. Ho sempre pensato, da quando ero ragazza, di voler contenere tutto. Ora che mi avvicino al quarantesimo anno, mi chiedo perché gli amici mi dicano continuamente che è difficile farmi un regalo. E invece non lo è, perché io volevo contenere tutto e così mi piacciono i fiori, mi piacciono i libri di poesia, mi piace il buon vino. E invece devo accettare di non aver costruito un accesso facile. La semplicità che credo di trasmettere non corrisponde al respingimento, voglio usare questa parola, che trovo. È così difficile farti un regalo. Me lo spiego con due parole opposte, che sono autentico/inautentico. Noi qui si tifa autenticità. Quando mi dicono che sono cattiva, o spietata, o feroce che faccio male agli altri e a me rispondo che cerco di essere autentica».
Walter Siti si chiedeva, credo di ricordare ne “Il contagio”: “Ma cos’è quest’etica, una bestia feroce?”. Cosa gli risponde, ammesso che etica e autenticità siano sovrapponibili? «È la nostra postura nel mondo. La severità, che gli altri scambiano per spietatezza, che impongo e che mi impongo. Sì, bestia feroce».
Dove lo tiene quel volume di Amaldi? «Nello scaffale della libreria di ragazza, ma ho tolto il cellophane».