Il 19 febbraio del 2016 ci lasciava il professore, che con la sua rubrica sul nostro giornale ha interpretato per lunghi anni il presente

Diceva che l’innesco era quasi sempre «un moto d’irritazione». Che di solito una Bustina veniva fuori da un dispiacere, da uno sdegno. E che questo di partire dalla stizza è un buon modo per evitare l’«esibizione alquanto demagogica di buoni sentimenti».

 

Una rubrica settimanale (o quindicinale), come è stata per molti anni sull’Espresso, quella di Umberto Eco intitolata “La Bustina di Minerva” mette a dura prova anche le firme più brillanti. L’abitudine, la ripetizione, per certi versi quello che si chiama il mestiere, sono i primi nemici della grazia e della freschezza.

 

È vero che Eco stesso, al momento di raccoglierle in volume, ha cassato diverse “puntate”: sbiadite per via di un vincolo troppo stretto con l’attualità, o considerate monotone. Ma forse è stato un eccesso di zelo, perché non c’è Bustina che non sia attraversata come da una corrente elettrica, il palpito fosforico dell’intelligenza. «Riuscire a dire in un numero prescritto di battute quel che si pensa, è un esercizio che consiglierei a chiunque» scrive Eco, e spinge a riflettere su come un limite di spazio possa – vale per la metrica in poesia – mettere ordine nel caos, traendo da noi il meglio.

 

Che scriva di Mussolini o di Andreotti, che si soffermi sull’ispettore Derrick o sui motori di ricerca in Rete, che si domandi cosa pensasse Leopardi delle ragazze di Recanati o come dire parolacce in società, Eco riesce a dare scintillante dimostrazione di come si possa applicare la propria intelligenza a tutto, a questioni incommensurabilmente distanti.

 

Sempre che intelligenza vi sia, naturalmente. È una questione di curiosità onnivora; è capacità di creare connessioni: è l’arte, o lo sport – come ha scritto Alessandro Baricco qualche giorno dopo la scomparsa di Eco – che una volta senza vergogna si poteva definire così: «fare gli intellettuali». Sport di cui Eco fu un atleta rivoluzionario: «Capì che il cuore del mondo non stava immobile in un tabernacolo sorvegliato dai sacerdoti del sapere: comprese che era nomade, capace di spostarsi nei posti più assurdi, di nascondersi nel dettaglio, di espandersi in archi di tempo colossali, di frequentare qualsiasi bellezza, di battere dentro a un cassonetto e di sparire quando voleva».

 

Affacciandosi, dal tardo Novecento, sul terzo millennio – come fa nei testi di "Perché i libri allungano la nostra vita" in edicola sabato 20 febbraio e nella raccolta "Le magnifiche sorti e progressive", in uscita domenica 21 con L’Espresso e Repubblica – dimostra di saper intuire il futuro prima che arrivi. Non da profeta: da rabdomante, semmai, o semplicemente da orologiaio con le lenti giuste.

 

Uno che conosce gli ingranaggi del tempo – ed è capace di muoversi mentalmente, con sovrana leggerezza, fra secolo e secolo come fra minuto e minuto. Volete capire perché, pur ossessionandoci la giovinezza, il potere sia in mano a uomini fra i settanta e i novant’anni? C’è il capitolo che pone l’interrogativo e afferra un’ipotesi di risposta.

 

Ma con il suo binocolo Eco coglie, anche in prospettiva – sono gli anni Novanta del ’900 – gli effetti collaterali dell’allungamento della vita umana («un essere di centocinquant’anni, se conserva le proprie facoltà intellettuali, avrà una esperienza incommensurabilmente più vasta della nostra»); affronta la questione ambientale, mettendo in guardia da qualche estremismo ecologista; l’esplosione demografica, il trionfo della tecnologia leggera (nel ’96 parla di «vecchia tv», l’eugenetica. Immagina – nel ’97 – «il casco dell’ipnovisore», lo proietta nel 2090, e ci avverte che uno speaker finalmente sta annunciando «che si era sulla buona strada per scoprire i responsabili della strage di Ustica».