Tre generazioni di una stessa famiglia. Due guerre mondiali. La tragedia della Shoah. Un paese che si spacca in due, poi torna a riunificarsi. La grande illusione della Germania Est, seguita dalla sua rimozione. Più tutto quel che si potrebbe trovare nella storia di ogni famiglia, amori, rotture, infanzie, dolori, speranze, ambizioni, segreti. Emulsionato in un film-monstre, per durata e intensità, che dura quasi quattro ore ma potrebbe durarne pure dodici, continueremmo a guardarlo ipnotizzati. Anche perché il suo autore ci fa capire tutto senza spiegare mai nulla, scrutando al microscopio tre generazioni della sua famiglia, dal 1912 al 2012. E ce lo fa capire come se improvvisamente vedessimo tutto per la prima volta.
È il capolavoro di Thomas Heise, classe 1955, “Heimat è uno spazio nel tempo”, ora su Raiplay grazie al mai così indispensabile Fuori orario. Un punto di non ritorno del documentario moderno, da non confondere con i vari e non meno fluviali “Heimat” di Edgar Reitz, che invece erano film di finzione. La scommessa di Heise, classe 1955, poco noto in Italia malgrado la retrospettiva che gli dedicò il Festival dei Popoli, è infatti semplice e insieme immensa. Si tratta di immergerci in un secolo di storia tedesca, dunque europea, usando solo testi, oggetti e documenti di famiglia, che consegnano allo spettatore il loro messaggio ancora vibrante di vita lasciandogli il compito di ricostruire i collegamenti.
Come in una fiaba atrocemente vera. O un puzzle incompiuto che snodandosi fra diari, lettere, frammenti autobiografici, foto, costruisce uno specchio nel quale chiunque ritrova qualcosa di sé, ovvero di universale. Figlio del filosofo Wolfgang Heise, a sua volta figlio del professor Wilhelm Heise, il regista riesce a scrivere un grande romanzo fitto di personaggi e destini, tragedie collettive e privatissimi drammi, strettamente intrecciati gli uni agli altri. Eppure sullo schermo la figura umana appare col contagocce, alternata a scultoree immagini in bianco e nero strappate ai boschi della giovinezza di Heise.
Qualche ritratto di famiglia, dentro le cui profondità la macchina da presa si cala come un batiscafo. Le struggenti statuine di ceramica modellate da nonna Edith, l’ebrea viennese che negli anni ‘20 avrebbe sposato nonno Wilhelm, intellettuale socialista, con le conseguenze che possiamo immaginare sotto il nazismo. Disegni infantili, tra le rare immagini a colori che Heise si concede, come quello - simbolico e meraviglioso - con cui si chiude il film dopo i titoli di coda. Vecchi provini, quelle minuscole foto riunite in uno stesso foglio che in era predigitale si usavano per scegliere gli scatti da stampare in grande, nei quali accanto al padre filosofo appare il grande scrittore Heiner Müller, amico di famiglia. Ma anche, a completamento e contrappunto, immagini della Germania odierna, quella che una volta era Germania Est.
Piazze, stazioni, folle, passanti, sempre ripresi con un’attenzione alle individualità che è una delle chiavi del lavoro di Heise. E poi moltissimi treni che corrono su e giù nello spazio e nel tempo. Anche se il cardine del film, che in questo fa spesso pensare al lavoro di W.G. Sebald, sta nella rete sempre aperta di collegamenti che stabilisce fra testi e immagini schivando le convenzioni più consolidate. Niente dialoghi o scorciatoie, per capirci, solo la voce del regista che legge con tono neutro lettere e diari, nessuna musica, solo una canzone anni ’30 di Marika Rökk, diva del Terzo Reich, e rumori della natura o della civiltà.
Mai una spiegazione, solo nomi, date e luoghi, per orientarci in un viaggio che oltre ai grandi eventi resuscita la vita quotidiana, i sentimenti, la mentalità di epoche trascorse. Proiettando il calore e la vitalità di quelle parole contro immagini enigmatiche e poderose costruite come enormi pietre d’inciampo. Edifici distrutti o abbandonati. Cave di pietra. Cataste di legna. Paesaggi ordinati come sanno essere solo i paesaggi tedeschi, o devastati da qualche misteriosa forza estranea. Mentre il racconto con la sua folla di personaggi scorre nel flusso ininterrotto di pensieri e parole.
C’è un tema antibellico scritto da Wilhelm Heise nel 1912, a 14 anni, che mette i brividi, soprattutto confrontato alle foto dello stesso Wilhelm, adulto, in divisa. Ma c’è soprattutto l’intera lista degli ebrei deportati da Vienna negli anni 40, nomi, cognomi, indirizzi, che scorre sullo schermo implacabile e memorabile per più di venti minuti mentre la voce grigia di Heise sgrana le lettere scritte dal padre e dalle sorelle a Edith, la nonna ebrea, aspettando per mesi che venga il loro turno di salire sul treno per la Polonia, verso un destino di cui non sospettano l’atrocità. In un misto di rassegnazione e candore che toglie al lento e agghiacciante dipanarsi della Soluzione finale ogni rassicurante distanza storica. Lontanissimi da quella drammaturgia della morte e retorica della memoria che rischiano di ridurre la memoria a celebrazione e liturgia. Nazismo e Shoah qui sono inseriti in un divenire più ampio.
Pensiamo alle lettere traboccanti di passione politica e sensuale tra la futura madre del regista, Rosemarie, e uno dei suoi amori, Udo, lei a Est, lui a Ovest. O all’ironia di Christa Wolf, che ricorda alla madre del regista, segretaria dell’Unione Scrittori, i lunghi soggiorni in quei sanatori per intellettuali non allineati che venivano curati dallo Stato con diete e trattamenti speciali.
Fino a quel pre-finale, amarissimo, affidato a un testo di Heiner Müller sui guasti della riunificazione e del neocapitalismo trionfante (“La costa dei barbari”) che riassume questo film così politico e personale, così intelligente e profondamente emozionante. «Nel mare dell’alienazione, essere tedeschi è l’ultima illusione di identità, l’ultima isola», scrive Müller. «Ma cosa significa essere tedeschi?». Il film forse non risponde. Ma dà alla domanda tutto il suo senso.