«Mia madre abbandonò la Recerche dopo due pagine. Lui invece me lo fece scoprire»

La prima frase di Proust che mi capitò di leggere, la scrisse mio padre. E lo stesso discorso vale per tutte le altre frasi di Proust che lessi per la prima volta. Fu così che scoprii Proust, attraverso la grafia di mio padre. Ironia della sorte – che non mi sfugge nonostante siano trascorsi più di cinque decenni – è che, inspiegabilmente, il tratto di Proust richiama quello di mia madre, non di mio padre. La sua era una scrittura secca, spigolosa, rigida, mai un ghirigoro, caratterizzata da angoli improvvisi e irregolari, che cercava in ogni modo di apparire maschile, mentre la scrittura di mia madre somigliava tanto a quella di Proust, non altrettanto arzigogolata quanto un filo caotica, anonima, difficile da riconoscere, in più punti quasi la grafia di un bambino, acerba, pigra, malandrina. E non mi sfugge nemmeno un’altra ironia della sorte, che però va in tutt’altra direzione: mio padre lesse Proust finché ebbe vita; mia madre, già dopo mezza pagina di “Dalla parte di Swann” perse la pazienza. Oltre, non si spinse mai.


Quando vidi per la prima volta il nome di Marcel Proust, avevo quattordici anni, e lo scoprii nel diario di mio padre, un pomeriggio, mentre lo leggevo di nascosto. Sapevo che da giovane se l’era goduta, e volevo conoscere i dettagli di quella vita piena. Nel suo diario, che iniziò nel 1932 all’età di diciassette anni, scoprii molte cose su di lui: le incertezze, i dubbi su se stesso, la timidezza, la mestizia, le storie d’amore, l’astuta e disincantata capacità di comprendere le persone. Ma soprattutto trovai elenchi di titoli che stava leggendo. Aveva la strabiliante abitudine di copiare sul suo diario brani di autori che ammirava. Pagine e pagine trascritte a mano e riportate da Plutarco, Dostoevsky, Stendhal, Flaubert, Marco Aurelio, ma soprattutto pagine e pagine fitte di passi di Proust.

 

Quando, infine, gli confessai di avere scoperto Proust sbirciando sul suo diario, ciò che mi colpì in particolar modo fu una nostra conversazione in rue du Ranelagh mentre stavamo andando a trovare una zia. Descrisse le lunghe frasi di Proust, quanto fossero insolitamente musicali, liriche, eppure divertenti, e perspicaci non solo riguardo gli altri ma in special modo anche se stesso. È stato il più grande scrittore del nostro secolo, ma forse, aggiunse mio padre con il suo solito immancabile tatto, potrei anche dissentire. Io ero giovane e, di conseguenza, si supponeva avessi un animo ribelle, e poi, quello stesso anno, avevo da poco scoperto James Joyce. Arrivati a destinazione, passammo accanto a un vecchio portone da cui emanava uno strano odore stantio che mi risultò piuttosto familiare, poiché mi fece tornare in mente le vetuste tubature dell’acqua a casa di mio nonno quando si apriva il rubinetto in cucina. «Come fai a ricordartene ancora?» mi chiese mio padre. «Quando è morto, tu avevi solo due anni.» Parlando di profumi e ricordi, Proust sì che è stato il più grande, aggiunse.


Dopo una visita insopportabilmente lunga a quella zia molto anziana e malaticcia, io e mio padre trovammo una libreria e lui comprò “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Alla mia età, secondo lui mi sarei ritrovato al volo nell’adolescenza di Proust. Iniziai a leggerlo quella sera stessa. Una trentina di pagine dopo, però, posai il libro. Perché? mi domandò mio padre l’indomani mattina quando lo informai. Mi toccava troppo da vicino, sembrava quasi che parlasse di me, gli spiegai. Ciò che evitai di rivelargli fu che non morivo dalla voglia di conoscere me stesso, almeno non ancora. Era anche il mio modo di evitare di raccontargli che ci aveva visto giusto, perché nulla di quanto avevo letto finora poteva rivaleggiare con Proust. Non cambiai mai idea su Proust. Ciò che non capirò mai è quanto di questo amore che dura da una vita sia per Proust o piuttosto per mio padre. Non lo voglio sapere.

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