Dodici mesi fa la prima vittima nella città più colpita dal virus. Tra chi porta i segni del contagio chi piange e chi prova a rialzarsi (Foto di Alessandro Grassani per L’Espresso)

Un anno dopo il primo morto per Covid-19, le corse delle ambulanze sono un triste ricordo. A Bergamo il silenzio interrotto dalle sirene è stato sostituito dal rumore del traffico delle auto. I negozi sono aperti, ma sembrano dei musei. Le strade di Bergamo Alta, città fortificata e meta turistica, sono ancora deserte.
Quest’anno la festa di Sant’Antonio Abate, protettore del lavoro dei campi, è stata annullata. Il 17 gennaio bandite bancarelle e benedizioni di veicoli e animali domestici, come vuole la tradizione del XIV secolo rimasta immutata. Le persone hanno ricominciato a trovarsi fuori dai caffè per consumare bevande da asporto, alcuni avviano un dialogo fugace come per segnalare la propria esistenza.


La pandemia ha sospeso riti, allontanato famiglie, ma non ha arrestato il traffico né gli assembramenti nei supermercati, ripresi già a luglio con uno strano ritmo.

Durante la seconda ondata Bergamo ha registrato meno contagi, tanto che gli ospedali sono riusciti ad accogliere pazienti provenienti da altre città. A fine gennaio all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo si contano 44 pazienti con Covid-19, di cui 20 in terapia intensiva.


Alcuni cittadini hanno allentato la tensione. A novembre, mentre Milano sfiorava il picco di decessi, in un centro commerciale della provincia di Bergamo sono dovute intervenire le forze dell’ordine per far rispettare le misure di sicurezza: una ressa si è formata per acquistare il gioco Monopoly Bergamo, edizione limitata esaurita in un giorno.

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I nostri morti non se ne sono mai andati
22/12/2020

Nella città con il minor tasso di disoccupazione giovanile della Lombardia è difficile fermarsi. Eppure, le prime conseguenze della pandemia iniziano a manifestarsi: alcune aziende importanti hanno annunciato prossime delocalizzazioni, ma gli effetti non sono solo economici.


Come sta reagendo la popolazione a quella che è stata definita una guerra? Eugenio Monaci vive solo a Branzi, paese arroccato tra le Alpi Orobie, a 50 chilometri dal centro di Bergamo. È stato contattato nell’ambito del progetto “Anagrafe della fragilità”, gestito dall’Ats di Bergamo, Azienda di tutela della salute della Regione Lombardia. Questo strumento permette di identificare le persone potenzialmente a rischio in caso di nuove ondate pandemiche. In un articolo del 21 marzo, sommersi dall’emergenza, alcuni medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII lanciavano un appello: «Le cure incentrate sul paziente sono inadeguate e devono essere sostituite da cure incentrate sulla comunità. Sono necessarie soluzioni per il Covid-19 per tutta la popolazione, non solo per gli ospedali. (…) I medici di un ospedale nell’epicentro chiedono un piano a lungo termine per la prossima pandemia».


Iorio Riva, sociologo coordinatore del progetto, si occupa dell’integrazione tra azione sociale e sanitaria per Ats. La relazione tra questi due aspetti non ha funzionato durante la pandemia, «non c’è stato un territorio ricettivo, con la conseguente necessità di doversi rivolgere all’ospedale». In attesa del vaccino, per Riva «l’antivirus possibile è la promozione della coesione sociale, un antidoto potente al distanziamento imposto per garantire la salute pubblica».

È possibile riuscire a fare rete in un territorio falciato dalla pandemia? Da dicembre un centinaio di operatori si occupano di contattare e di incontrare le persone più vulnerabili. Le 9.087 persone selezionate hanno patologie o difficoltà socio-economiche. Durante le visite a domicilio, attraverso le tute di protezione azzurre, gli operatori tentano di stabilire un dialogo, grazie a un questionario sulle condizioni di salute, abitative ed economiche. Matteo Franchini, 38 anni, operatore attivo in Val Brembana, osserva: «Il lavoro non è sempre facile, a volte le persone rifiutano di parlarmi. Però mi appassiona perché mi sento utile». I dati raccolti verranno poi messi a disposizione dei servizi sul territorio per monitorare le fragilità e rispondere ai bisogni.


Accanto alla stufa a legna, Eugenio Monaci riflette: «Il problema è che ti senti solo. Lo accetto perché sono stato abituato a una vita dura». Da piccolo andava a scuola a piedi per chilometri sotto la neve: «Ai tempi non c’erano le giacche a vento, quelle menate lì». Si è fatto strada tra dodici fratelli: per superare alcuni problemi di salute, viene inviato a Torino in collegio dai salesiani, dove ottiene un diploma da perito tecnico. Erano gli anni del boom economico: «Mi avrebbero preso sicuramente in Fiat, ma mio padre mi richiamò, mi disse che gli ero costato ed era il momento di tornare a Branzi per dare una mano all’azienda di famiglia», uno storico caseificio. Dopo il lavoro nei pascoli, a 20 anni «non mi sentivo realizzato nell’azienda di famiglia, così ho deciso di aprire un negozio di elettronica, vendevo e riparavo televisori, radio». Poi il fallimento del negozio, la morte della moglie a soli 44 anni, la casa all’asta recuperata dal cognato, di cui Eugenio è affittuario. La sua vita è legata all’assunzione quotidiana di 12 pastiglie e a un pacemaker. Qui in Val Brembana molti hanno contratto il Covid-19 negli ospedali, racconta, «il mio collega elettricista Ercole è stato ricoverato in ospedale dopo una caduta. Due giorni dopo le dimissioni ha avuto la febbre ed è morto». Per paura di prendere il virus «è da un anno che non metto più piede in un ospedale per fare i controlli». Uomo di corporatura robusta, mostra le foto del battesimo della nipote di sette anni, di cui pronuncia il nome, Giulia, come fosse luce: «Quello che mi manca è poter vedere i miei nipoti». Solitudine e paura del contagio sono una sofferenza comune a molti: «Sarebbe sufficiente che qualcuno passasse a vedere se le persone hanno bisogno di qualcosa, per parlare del più e del meno, per avere un momento di sfogo».


Percorrendo la valle si trova Camerata Cornello, un borgo turistico. Qui Felicina e Pierino Camozzi gestiscono da sempre la “Trattoria Camozzi”. Prima del confinamento, Felicina preparava i casoncelli per i clienti e offriva un bianchino agli amici. Oggi il villaggio è immerso nel silenzio. Reduce da un infarto, a marzo l’uomo è stato ricoverato per Covid-19 a Rozzano. Ricorda che «negli ospedali ogni buco era buono per ricoverare pazienti». Un giorno alcune persone vestite con una tuta protettiva hanno portato un cellulare sigillato al suo vicino di letto. C’era una videochiamata con i nipoti allegri che lo salutavano, ma lui non rispondeva più e «questa cosa ha contribuito a tagliarmi le gambe». Tornato a casa, in isolamento, Felicina gli lasciava i pasti di fronte alla porta. Per Pierino le conseguenze della malattia «ti fanno sentire di colpo più vecchio di quello che sei». Le misure di contenimento della pandemia mettono alla prova Felicina, donna di carattere: «Mi sento in prigione. Ho passato mesi senza uscire da questo borgo, ma ora è diverso». E il marito aggiunge: «Ti viene l’angoscia perché non vedi più passare nessuno».


A Nembro, in Val Seriana, Cinzia Valoti e Adriano Rota non condividono la stessa esperienza del contagio. A marzo il padre di Cinzia, ricoverato in una Rsa, è morto di Covid-19 in soli tre giorni, mentre il marito Adriano, 73 anni, ex ristoratore, si trovava in terapia intensiva. Adriano descrive i suoi ricoveri in cinque ospedali diversi, ma i ricordi sono frammentari. I medici hanno comunicato a Cinzia: «Suo marito è stato selezionato per l’unica terapia intensiva disponibile perché ha possibilità di farcela». Dopo due mesi e mezzo, Adriano si risveglia a Cantù con un delirio da post terapia intensiva, dimagrito di 15 chili. «Passami il pomodoro per fare la pizza», chiedeva indicando l’armadio alla moglie terrorizzata. Dopo quattro mesi, il marito è tornato a casa. Oggi tenta di abbracciare le persone, cerca un contatto senza rispettare i gesti barriera, non avendoli potuti assimilare durante i ricoveri. Fatica un po’ a respirare, ma ripete con convinzione «sto benone», mentre la moglie agita nervosamente le dita sul tavolo, preoccupata per una ricaduta. «Dopo un anno non posso ancora credere a quello che ho vissuto, la mia vita non aveva più un senso, ero in isolamento, non potevo vedere mia figlia, mio marito, il mio negozio era chiuso, la mattina e il pomeriggio erano identici, vivevo per portare fuori il cane», confessa Cinzia. Oggi i coniugi tentano di recuperare qualche esperienza di vita perduta: trascorsi 40 anni di matrimonio, tenteranno di tornare a viaggiare, quando si potrà.


Un anno dopo, accanto al sentimento di solitudine, c’è un’inguaribile voglia di battersi, quella che i bergamaschi hanno chiamato “Berghem mòla mia” (Bergamo non molla), simile ad un’haka maori, una danza guerriera. Le conseguenze a lungo termine si osservano nei corpi delle persone. Alla “Casa degli Angeli”, centro di riabilitazione dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, ex casa di accoglienza per ragazze madri, sono stati curati una quarantina di pazienti post-Covid-19 tra i 40 e i 70 anni. Il primario Guido Molinero racconta: «Abbiamo curato pazienti da diversi ospedali in degenza da terapia intensiva con deficit motori, neurologici o respiratori importanti». William Armati, 59 anni, viene tutti i giorni per ricominciare a camminare. A marzo, alcuni giorni dopo aver assistito alla partita Atalanta-Valencia, ha iniziato ad avere i primi sintomi riconducibili a Covid-19. Trasferito al San Raffaele di Milano, è rimasto in coma: «Mi hanno svegliato, ho fatto una videochiamata con mia moglie che non ricordo, mi hanno riaddormentato e al risveglio non avevo più la gamba sinistra».

Sembra che il virus, sommato al diabete, abbia provocato una necrosi tale da comportare l’amputazione dell’arto. Al momento del risveglio, William guardandosi la gamba disse alla dottoressa: «Cosa vuole che sia, poi l’annaffio e ricresce». Tornato cosciente, dice, «ho deciso di non annientarmi». La sua forza? Madre, moglie e sorella: «Pensavo sempre a loro, che avevano notizie frammentarie, non riuscivano a mettersi in contatto con i medici». Il fisioterapista Mohamed Sivac ha seguito la prima ondata all’ospedale da campo di Bergamo. I pazienti di cui si occupa oggi non hanno contratto il Covid-19, ma hanno sviluppato un’eccessiva sedentarietà durante i mesi di confinamento: «Sono aumentate problematiche muscolo-scheletriche, intensificate dallo stress per la situazione d’incertezza economico-sociale che stiamo vivendo», osserva.


Tra gennaio e febbraio Beppe Vavassori, gestore dell’agenzia funebre “La Casa del Commiato” di Bergamo, è stato sommerso da funerali di vittime con la stessa diagnosi: polmonite bilaterale. Come tutti i suoi dipendenti, a marzo ha contratto il Covid-19. Si è risvegliato dalla terapia intensiva all’ospedale di Colonia, in Germania. Tornato a casa è stato tra le centinaia di pazienti monitorati dal progetto estivo di follow up dell’Ospedale da campo di Bergamo. «Oggi mi dimentico le cose, se mi dici una cosa adesso me la devo segnare altrimenti rischio di non ricordarmela». L’impatto neurologico del virus si manifesta attraverso ictus e disturbi della memoria. Uno studio sui sopravvissuti trattati nel progetto di follow up degli infettivologi dell’Ospedale di Bergamo mostra che 1 su 2 ha ancora sintomi come affaticamento, dispnea e palpitazioni. Il 30%, invece, ha sviluppato conseguenze psicologiche.


All’inizio dell’emergenza, un anestesista annunciò: «Tutti dovranno abituarsi a perdere un caro». È andata così. La psicologa Sylvie Pétel, professionista indipendente, si è resa disponibile a marzo per consultazioni gratuite. «I bergamaschi stanno attraversando un’elaborazione del lutto complessa, alcune famiglie hanno perso più di una persona in poco tempo in circostante di emergenza, alcuni hanno assistito alla morte rapida in casa perché non c’era posto in ospedale. Altri sono stati curati nei corridoi dell’ospedale, vedendo morire i propri vicini», osserva. Si è trattato di una guerra, dice: «C’era una lista d’attesa per ottenere l’ossigeno, alcuni pazienti venivano selezionati in base alle capacità di sopravvivenza».

La seconda ondata sommata al nuovo confinamento non aiuta a superare il trauma. Trascorsi quei tre mesi sconvolgenti «siamo ancora immersi nella pandemia, tutti vivono nell’ansia di perdere altre persone, di sapere quando ci sarà ufficialmente un vaccino». Oggi è difficile distinguere con chiarezza gli effetti psicologici causati dall’emergenza o dal proseguire della situazione. Sara, 51 anni, lavorava per i musei della città, chiusi da quasi un anno. In questo momento di incertezza «ho ricominciato ad avere crisi di panico notturne, cerco di andare avanti per mio figlio». Ad Alzano Lombardo, Silvia Monzio Compagnoni, 44 anni, segue un percorso psicologico. Ha perso il padre e lo zio per Covid-19 nel giro di pochi giorni, vivendo il lutto confinata in casa, malata di polmonite e isolata dai figli gestiti dall’ex marito. Non riuscendo a ottenere il secondo tampone ha scritto alle istituzioni; l’ufficio dell’ex assessore Gallera le ha risposto: «È proprio in questo difficile e faticoso momento che dobbiamo cercare di evitare stati di ansia immotivati e spesso controproducenti ed affidarci con fiducia ai professionisti del nostro sistema sanitario». Il cadavere del padre viene inviato in Piemonte per la cremazione, la figlia riceve le spoglie in un vasetto tre settimane più tardi senza avere notizie.


A marzo la dottoressa Chiara Bignamini, psicoterapeuta presso il reparto di psicologia clinica dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, ha organizzato una task force per far fronte all’emergenza psicologica che ha colpito personale sanitario e pazienti. «Come prima realtà dell’Occidente ad essere colpita, abbiamo assistito alla morte degli operatori o alle loro difficoltà psichiche. Iperattivi, temevano di infettare i famigliari». Alcuni non hanno più dormito con i loro compagni e nello stesso tempo «erano afflitti dal senso di colpa, dall’impotenza nel non poter curare efficacemente l’ondata di pazienti». Il personale sanitario ha chiesto colloqui con gli psicoterapeuti, ma il rischio sono conseguenze post-traumatiche. Oltre agli operatori ci sono i pazienti: chi è stato in terapia intensiva ha spesso ricordi distorti, alcuni «hanno elaborato ricostruzioni minacciose». C’è stato chi si è risvegliato in Germania accanto a medici tedeschi o «accanto a medici russi coperti da tute protettive. Per molto tempo sono rimasti convinti di essere stati rapiti da marziani che parlavano russo».


Tra gli aspetti più difficili ci sono numerosi lutti aperti: per diversi mesi a Bergamo le persone morivano come mosche. La relazione con il corpo del defunto è centrale per la rielaborazione del lutto, le famiglie «non hanno potuto prendersi cura del corpo, condividere l’accaduto ed essere utili per l’altro, questo ci protegge», osserva Bignamini. Diventa allora più difficile lasciare andare: «Il dolore viene tenuto stretto, è l’ultimo filo che ci tiene legati al defunto». La dottoressa Pétel ricorda che nei mesi più duri «i corpi nudi si disponevano in sacchi di plastica», le famiglie ricevevano a casa le urne cinerarie, «e alcune hanno messo in dubbio che si trattasse delle ceneri del proprio defunto». È venuto a mancare l’ultimo saluto.


Un anno dopo Bergamo è lacerata tra desolazione e voglia di tornare a vivere. La difficoltà di comprendere fino in fondo cosa sia accaduto convive con il desiderio di provare a ricostruire progetti. Le donne sono state una presenza indispensabile per i tanti uomini che hanno contratto il virus in forme gravi. Un anno dopo, si scoprono le falle di intervento sul territorio e la necessità di ripartire da queste, si affronta la sconosciuta «onda lunga del Covid-19», di cui solitudine e stanchezza sono alcuni sintomi. Bergamo non molla, davvero: i ragazzi della squadra di basket di Mozzo, in provincia di Bergamo, hanno ripreso gli allenamenti all’aperto, guidati da un’allenatrice di carattere dall’accento straniero. Un uomo di 84 anni osservando la scena da bordo campo commenta: «Alla mia età sarebbe stato impensabile. Guarda questi ragazzi, che cooperazione! Alla loro età noi eravamo più gretti, lavoravamo in fabbrica, ognuno pensava a sé. E poi l’allenatrice… Che soggetto! Impensabile ai nostri tempi». Stupore per una nuova cooperazione che avanza, sembra questa Bergamo un anno dopo.