Giuseppe Marchionna era il giovane e inesperto sindaco di Brindisi quando ci fu lo sbarco di 25mila persone dal paese balcanico. Con il megafono invitò i concittadini alla solidarietà. «Rifarei tutto. Ma poi lo Stato ci abbandonò”

Giuseppe Marchionna ha solo trentasette anni quando, da sindaco di Brindisi, affronta l’emergenza umanitaria dello sbarco dei 25mila albanesi. «E credo che l’età abbia inciso: con un politico anziano della Prima Repubblica, uno di quelli “ordine e disciplina”, non sarebbe andata così», ricorda oggi parlando con l’Espresso.

 

«Poi è stata questione di mentalità: la mia è libertaria e internazionalista; mi capitasse adesso, a quasi settant’anni, farei le stesse scelte». E cioè: dare un messaggio di solidarietà e accoglienza là dove sta per montare la paura. «Ma mi ero reso conto subito che si trattava di disperati: non ho più visto tanta miseria come quel giorno».

 

Eletto nell’agosto del 1990 in quota socialista, al momento della crisi Marchionna vanta poca esperienza e giusto qualche contatto a Roma. «Il Psi era al governo, ma arrivavano notizie vaghe: pescherecci al largo della costa, una sorta di blocco navale e nient’altro. Poi si alza il libeccio, si rischia un’ecatombe e allora si opta per farli attraccare nell’area più esterna del porto».

 

Il primo sbarco
Quel giorno a Brindisi in cui gli albanesi vennero considerati fratelli
4/3/2021

È il tardo pomeriggio di mercoledì 6 marzo, con «la gente inquieta alle finestre e il silenzio squassato da qualche sirena». Nessuno ha idea del numero di persone che nella notte sbarcheranno fin sulle banchine del centro storico. «Il 7 mi alzo presto e vado in Comune. Piove fortissimo. Mi informano: gli albanesi hanno rotto gli argini che le forze dell’ordine avevano creato per contenerli». In venticinquemila sono in giro per la città, la polizia gli suggerisce di chiudere tutto. «D’istinto, da solo, decido per il contrario».

 

Convoca giornalisti e soprattutto radio locali, «perché all’epoca garantivano il passaparola». Quindi registra un appello da trasmettere ogni quindici minuti: «Aiutiamoli, sono solo spaventati e infreddoliti». In alternativa, ci dice, scoppia la guerra etnica. «Eravamo la capitale adriatica del contrabbando di sigarette, con tanto di bande. Sarebbe bastato che un barista avesse risposto male a uno di loro per far scattare la violenza. Ma bisognava soccorrerli in ogni caso: non si chiude la porta in faccia a chi muore di fame».

 

E cittadini e autorità locali lo capiscono subito, questo, anche se non è scontato. «All’inizio la tensione è terrificante. Nei giorni successivi lavoro con orari massacranti: telefono alle mense aziendali per cucinare dei pasti, insieme al prefetto adibiamo scuole a dormitori, grazie agli interpreti ricongiungiamo famiglie. E i cittadini si mobilitano: alcuni lanciano cibo dalle finestre, altri li accolgono in casa mentre le massaie portano pentole di pasta a chi resta fuori. Ricordo addirittura delle tavolate collettive nei quartieri popolari».

 

E intanto, nel suo ufficio, è un pellegrinaggio – Occhetto, La Malfa, Martelli – per ringraziarlo. «Ma solo lunedì 11, dopo averci abbandonati per giorni, il governo invia l’esercito con tende e cucine da campo, come chiedevo dall’inizio». Perché tanto ritardo? «Ho un’idea: mandare le forze armate in aiuto degli albanesi era come dire che li avremmo accolti tutti; e lo Stato non voleva dare un messaggio di solidarietà». A quello, semmai, ci pensarono Marchionna e i brindisini.