Il primo sbarco
Quel giorno a Brindisi in cui gli albanesi vennero considerati fratelli
Il 7 marzo 1991 venticinquemila profughi arrivano al porto su barche di fortuna. Le autorità sono impreparate ma tra la gente nasce una straordinaria mobilitazione. Un episodio indimenticabile. Anche perché è durato poco
«È buio quando alle 7 di sera la nostra nave finalmente getta l’ancora ma Brindisi è tutta illuminata, sembra New York: perché il paradiso, si sa, è inondato di luce, e le vetrine brillano, la tv è a colori, c’è un telefono in ogni casa, le donne ballano come Raffaella Carrà e ridono come Loretta Goggi. Abbiamo freddo e fame, accovacciati da trenta ore in un angolo a poppa in mezzo ad altri ottomila come noi, uomini, donne, bambini, minori senza nessuno. Siamo gli ultimi, è dalle 10 di mattina che in porto attraccano navi come alveari galleggianti. Le banchine sono già invase da migliaia di profughi, gli elicotteri ci volteggiano sulla testa lanciandoci bottiglie d’acqua e sacchetti di zucchero. Qualche pazzo si tuffa in mare, gli altri spingono per scendere: una volta a terra, dicono, nessuno ci potrà più rimandare indietro...».
Sbarcheranno verso le 11 di notte, Astrit che racconta e i suoi due amici, Silvan e Roland. Il conto dell’esodo di quella sola giornata del 7 marzo 1991 arriverà a 25 mila profughi da 24 tra pescherecci di varia stazza e grandi mercantili come la Lirja, il Tirana, l’Apollonia, ultima la Legend, bandiera panamense e capitano greco: senza precise avvisaglie, solo radi segnali premonitori e senza che gli stessi protagonisti avessero deciso alcunché poche ore prima di gettarsi nell’avventura destinata a ribaltare le loro vite.
Il Governo italiano ci metterà un giorno e mezzo prima di riuscire a muovere un dito. Brindisi, con i suoi 80 mila abitanti, i suoi problemi di disoccupazione e Sacra corona unita, si ritrova a fronteggiare da sola una catabasi alla quale nulla e nessuno l’ha preparata. Può finire in un disastro, le premesse ci sono tutte: una massa di disperati, un’invasione, numeri incontenibili. Invece, accantonato in fretta l’iniziale stordimento, la città, le sue istituzioni e associazioni e corpi, e decine di migliaia di brindisini, prendono l’iniziativa, si mettono in gioco, ribaltano una tragedia annunciata in una delle pagine più encomiabili della recente storia patria.
Un passo indietro e 83 miglia nautiche a est, i 154 chilometri che in linea d’aria dividono Durazzo da Brindisi. L’Albania da cui chi può fugge appena s’apre uno spiraglio, senza un soldo in tasca e col vestito che ha addosso, è un paese al collasso. Morto nell’85 Enver Hoxha, il piccolo Stalin dei Balcani, paranoico dittatore dal ’44 (vedere a Tirana il Museo dei Servizi segreti alla Casa delle foglie o le decine di migliaia di bunker costruiti in ogni dove in vista di un’invasione), fallite le riforme economiche e le timide aperture al pluralismo del suo delfino Ramiz Alia, il regime sopravvive come un cadavere al quale ancora non hanno detto che è già morto: con la sua nomenklatura, i suoi rituali, la sua polizia politica prima onnipotente ora inane e stracciona.
Tutt’intorno, caduto il muro di Berlino, la Ddr è uno scheletro vuoto, le rivoluzioni dell’89 nell’Est Europa hanno abbattuto come birilli gli altri regimi del “socialismo reale”, l’arcinemica Jugoslavia in mano a Miloševic si dissolverà nel giro di quattro mesi dai fatti che qui si raccontano. Una fuga di massa dall’Albania c’è già stata: il 2 luglio del ’90, mentre in Italia si gioca il Mondiale di calcio, in quasi cinquemila scavalcano le mura e i cancelli delle ambasciate occidentali a Tirana, dopo una difficile trattativa il 13 li imbarcano a Durazzo, da Brindisi li trasferiranno negli Stati disposti a dare asilo.
A ottobre, colpo durissimo per il regime che perde l’ultima sponda per trattare un cambiamento col contagocce, espatria e ottiene asilo politico in Francia Ismail Kadare, il più autorevole scrittore albanese. A dicembre scendono in piazza gli studenti dell’Università di Tirana. Ramiz Alia legalizza i partiti e concede elezioni per fine marzo, ma ormai l’argine è rotto, per il disperato come per l’intellettuale la speranza è l’espatrio, la fuga, l’Italia: Lamerica, come tre anni dopo racconterà il film di Gianni Amelio.
Astrit (di cognome fa Cela, oggi è funzionario Infocamere a Milano, sposato con un’italiana, due figli, fondatore dell’Associazione Albania e futuro) non è neppure tra i disperati. Ha 26 anni, insegna letteratura e francese in una scuola media di provincia a Skrapar, dalla tv ha una discreta conoscenza dell’italiano. Il più grande dei suoi cinque fratelli e sorelle è docente di filosofia alla Scuola centrale del Partito, funzionario di alto rango del regime: «Ci ritroviamo la mattina del 6 marzo in un bar di Tirana. Sa che me ne voglio andare, io temo rappresaglie contro di lui. “Ormai sei grande”, mi dice, “devi pensare alla tua vita”. Ci abbracciamo. Le ambasciate però sono chiuse, i carri armati pattugliano le strade, la stazione è bloccata.
Silvan, insegnante di inglese e Roland, suo fratello, ingegnere civile, li incontro per caso, riferiscono voci di navi in partenza da Durazzo verso l’Italia. Un camion ci porta lì in un’ora, il soldato che ci dovrebbe fermare butta via il fucile e salta con noi sul cargo: nessuno chiede soldi, nessuno paga, è una fuga, non un traffico di esseri umani. Sono le 2 di pomeriggio. Ci spareranno, ci arresteranno? Qualcuno lascia, noi aspettiamo. Notte all’addiaccio, macchine spente. Solo alle 6 di mattina del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, la Legend molla gli ormeggi e con una lentezza esasperante comincia il suo viaggio. Il mare è calmo, la giornata calda, a lungo ci accompagnano i delfini. Verso mezzogiorno uno scoppio di euforia, “libertà, libertà”, le dita a V di vittoria: siamo entrati in acque internazionali». In tasca Astrid ha un oggetto proibito sotto il regime: mai sentito il nome di Madre Teresa di Calcutta, albanese e Nobel per la pace, ma tre giorni prima quello scricciolo di suora se n’era arrivata a Tirana e aveva aperto una casa di accoglienza: incuriosito, Astrit s’era unito alla folla che la applaudiva, lei dal balcone aveva gettato rosari per tutti. Il suo, lo terrà in tasca per tutta la traversata.
La Brindisi che trova, quando alle 11 di notte sbarca infine dalla Legend, è una città scossa, impreparata, disorientata. A capo della locale Caritas è Bruno Mitrugno, bancario di 47 anni, che per assistere i profughi si giocherà le ferie dell’intero anno: «I primi arrivati sciamano lungo i due corsi del centro, Garibaldi e Roma: senza controlli, ma senza incidenti, sul viso dei più giovani un misto di gioia e stupore. La maggior parte è però ancora accovacciata sulle banchine e lì resterà per la notte, i più anche quella successiva: al riparo di teli di plastica bianca messi a disposizione da un’industria locale, nutriti alla bell’e meglio da volontari e cittadini con pane, latte, biscotti, ciò che uno ha in casa, inclusi pannolini, coperte, vestiti. È una mobilitazione spontanea: a centinaia vengono subito ospitati in casa dai brindisini: impensabile, oggi. Tutti fanno la loro parte, persino i contrabbandieri di sigarette che da poco hanno strappato a Napoli la palma del malaffare.
C’è un solo grande assente, nei primi giorni: il Governo italiano». All’avvistamento delle navi, gli ordini impartiti alla Capitaneria di porto erano stati di impedire l’attracco e rispedire tutta quella gente a casa sua, se la passano liscia stavolta ne arriveranno altre decine o centinaia di migliaia. Fallito il tentativo, non c’è nessun piano di riserva: il Coordinamento della Protezione civile è un ministero senza portafoglio, titolare Vito Lattanzio, pugliese, la struttura un semplice dipartimento con duecento persone e mezzi inadeguati, che «di civile conserva solo il nome», riconoscerà lo stesso Claudio Martelli, vicepresidente del Consiglio nel sesto governo Andreotti allora in carica.
Mentre le immagini choc fanno il giro delle agenzie e arrivano inviati e tv di mezzo mondo è una telefonata a vincere la riluttanza degli apparati dello Stato. Monsignor Settimio Todisco, grande vescovo, girata la città fin dall’alba, chiama il prefetto Antonio Barrel e gli dice testualmente: «Eccellenza, se lei non apre subito le scuole all’accoglienza, io stasera aprirò ai profughi tutte le Chiese».
La sera dell’8 marzo la prefettura requisisce 34 elementari e medie. Il 9 mattina un lancio dell’Ansa riferisce che è in corso il trasferimento delle persone dal porto agli edifici scolastici. Si aprono le porte della stazione marittima, rifugio in cortile e sotto i portici, e di un deposito militare in disuso nella frazione di Restinco. Altri profughi vengono dislocati a Ostuni, Villa Speranza della Diocesi, e a Molfetta dall’anomalo vescovo don Tonino Bello, fondatore di Pax Christi, l’anno appresso in marcia fin dentro la Sarajevo accerchiata e in guerra, ora beato. Sono già passati due giorni dal primo sbarco.
Retto il violento impatto iniziale, tocca dare forma all’assistenza di fortuna di una massa gigantesca di sbandati. Racconta Mitrugno della Caritas: «Una vera cabina di regìa non c’è. Ci coordiniamo, noi, la Croce Rossa, i sindacati, le associazioni, gli ospedali, il sindaco: ma con il sistema del tam tam. Nutrire cento o duecento persone non è impresa impossibile, con grandi pentole e chili di fagioli ce la puoi fare: la gente regala il cibo, i volontari lo cucinano come possono. Più arduo è prendersi cura delle persone. Nelle scuole adibite a centro d’accoglienza mancano i letti, si dorme per terra, donne e bambini sui materassi portati da comuni cittadini.
Nel marasma, mariti, mogli, figli si perdono di vista: inventiamo allora un telefono per i ricongiungimenti familiari. I bagni sono un grave problema, tant’è che quando tutto finirà dovranno essere rifatti nuovi ovunque. Le prime cucine da campo le vedremo soltanto quando, il quarto giorno, arriverà l’esercito. E, assieme ai militari, i primi politici: scesi dalla macchina, la prima cosa che chiedono è “Dov’è la stampa?”. Un’ultima notazione: si vociferava di una massa di delinquenti fuggita dalle carceri albanesi e confusa tra gli altri sulle navi. Bene, neanche una mela fu rubata in quei giorni».
Nelle settimane a seguire vengono requisiti campeggi e villaggi turistici lungo la costa salentina, ai migranti è concesso un permesso di soggiorno straordinario di un anno, Governo e Regioni trovano una quadra per ridistribuirli, c’è chi favoleggia di mandarli nel Kuwait da ricostruire dopo la guerra del Golfo. In realtà si disperdono presto in mille rivoli: storie diverse, chi avrà successo in Italia e resterà, chi vi imparerà un mestiere e tornerà a investire in Albania, anche chi si perderà, certo. Il racconto non può però tacere che il vento dell’opinione pubblica cambierà molto in fretta.
L’8 agosto la nave Vlora è respinta a Brindisi e rimorchiata a Bari, i suoi 20 mila fuggiaschi chiusi nello stadio in condizioni abnormi, la gran parte verrà rimpatriata. Cinque anni dell’iperliberista Sali Berisha al potere dal ’92 e il paese è di nuovo allo sfascio, città intere in mano a bande criminali: gli sbarchi ricominciano, il Venerdì Santo del ’97 la nave militare Sibilla sperona per errore la motovedetta Kater i Rades, muoiono in 108, il governo Prodi dispone un blocco navale. Nell’immaginario collettivo l’albanese non è più il fratello da aiutare, ma il criminale che ruba, spaccia e costringe le sue donne a prostituirsi. Oggi la comunità, quasi mezzo milione, è la meglio integrata in Italia. Ma ci sono voluti trent’anni. Quel 7 marzo 1991 è rimasto una strana, felice, imprevedibile eccezione.